lunedì 19 novembre 2018

Il Fatto 19.11.18
La penna dentro il Palazzo tra lupi e forfora di Mastella
di Pino Corrias


Vanitas vanitatum, guai ai potenti: “Credono di avere il red carpet sotto i piedi e invece si ritrovano una spada affilata sopra la testa. Tale è l’agognata condizione dello statista”. Nell’inquieto, costoso, ma anche smandrappato circo esistenziale della politica e dei politici, Filippo Ceccarelli è il re dei narratori, e naturalmente anche il re dei domatori in prosa. Un cronista che sa maneggiare i tempi del teatro e i lampi del sipario, specialmente quando tutto lo spettacolo che gli sta intorno mostra le sue capriole quotidiane sotto agli imperturbabili affreschi del potere. Capace di trasformare le pulci in leoni, o viceversa, guardarle mentre saltano nel cerchio infiammato della storia. Raccontarne l’ampiezza delle evoluzioni ideologiche, ma anche sartoriali, mentre si bruciano da sole in forma di parole al vento, carriere al vento, neuroni al vento.
Per poi spazzarle via, come ritagli di giornali che nevicano sul tappeto dei Palazzi, quando a fine giornata Ceccarelli se ne va a casa sua in Trastevere, fischiettando, ma sempre con qualche memorabile dettaglio in tasca. È lunga mille pagine, anzi novecentocinquantotto, la sua ultima passeggiata intorno ai nostri settant’anni di politica, agnizioni e congedi. Un catalogo di mondi morti e di mondi sempre nascenti, che hanno brillato per tre intere Repubbliche: la prima, cresciuta democristiana, socialista, berlingueriana, fino al Muro di Berlino e alle polveri di Tangentopoli; la seconda, accomodata tra gli argenti di Arcore e le bambole gonfiabili delle cene eleganti, fino alla fatale indigestione che finì per far venire i crampi anche alla sinistra che bisticciava in rancorosa modalità Ulivo; la terza, cresciuta lungo la parabola apolide del renzismo, i furori di Grillo, le ruspe della nuova Lega sovranista. Un’Italia che al momento ci brilla intorno, ma sempre minacciando l’implosione di un tramonto rapido quanto la sua ascesa.
Il rendiconto si chiama Invano. Che è già un consuntivo del viaggio. Anzi una traversata che va dall’Italia in macerie di ieri, alle macerie di oggi.
Dalle maschere di un tempo, quelle dei De Gasperi, Nenni, Togliatti che poi erano altrettante culture sedimentate in un Paese che era fatto di terra, alfabeti e classi sociali. Fino ai tre danzatori sul nulla di oggi: Matteo Renzi, Matteo Salvini, Gigi Di Maio, cresciuti tra i tepori della piccola borghesia, l’unica classe sociale rimasta ad abitare il tinello insonne della Rete, “a suon di furbizie pseudotecniche, buonismi, celodurismi, e vaffanculi televisionari”.
Tutti e tre addestrati alle frasi automatiche, “ci metto la faccia”, “non arretreremo di un millimetro”, “la pacchia è finita”, “non accettiamo lezioni di democrazia”, le maniche delle camicie bianche rimboccate, lo sguardo in (tele) camera, mimando intimità con l’elettore trasformato in target da sondaggio, “un po’ sirenetti, un po’ sbruffoni, un po’ lupi mannari”. Tutti e tre “il frutto dello sconquassato sistema scolastico italiano varato dopo gli anni Settanta”, nessun lavoro vero alle spalle, nessuna competenza, se non quella di vendersi sul mercato della politica e in quello capovolto dell’antipolitica, contemporaneamente, sperando di sfangarla e anzi sfangandola alla grande, per il momento: oplà.
In quei corridoi, per una quarantina d’anni, Ceccarelli ha consumato le scarpe, ma non lo sguardo. Qualche volta la pazienza, mai l’ironia. Ha scritto migliaia di articoli (per Panorama, La Stampa, Repubblica) cento volte di più ne ha ritagliati, classificati, archiviati: le pipe di Pertini, la forfora di Mastella, i baffi sprezzanti di D’Alema, le canottiere popolane di Bossi, il commovente beauty-case di Silvio B. Scrive: “Sono un analogista, un accumulatore seriale di ricordi, un custode unilaterale dell’inutile”, che a lungo andare diventa indispensabile.
Tre anni fa il suo intero archivio di carta, 334 raccoglitori, è traslocato dentro ai velluti della Biblioteca della Camera, prima metà del suo omaggio alla curiosità dei posteri. L’altra metà è in questo libro, scritto in prima persona singolare, maturandone un “vivo senso della catastrofe”. Non per passatismo o malinconia di perduta giovinezza, ma proprio per la pertinenza della materia da cuocere, la politica, che ha talmente masticato le sue radici da galleggiare in questo indistinto quotidiano, abitato dai “protagonisti dell’istante” che “comunicano senza aspettare risposte”.
Era fatta di domande-e-risposte la vecchia politica, quando il Paese respirava ansia di modernizzazione: le fabbriche invece del latifondo e poi l’ufficio invece della catena di montaggio. I cattolici ancora genuflessi all’autorità millenaria della Chiesa. I marxisti a quella secolarizzata del progresso. E dunque la sintesi stava nelle riforme, ma con la cautela del “casto connubio”. Delle infinite trattative che passavano per il Quirinale, il Vaticano, l’America, mai violando il perimetro della Guerra fredda, con i suoi segreti che arroventavano il doppio fondo della nazione e le molte mafie che in quelle fiamme bruciavano compromessi, fatturati e cadaveri.
Per mezzo secolo fu lo stallo. Officiava Fanfani, poi Andreotti, poi Moro. E dopo il sangue di Moro, Cossiga. Con il rito dei partiti satelliti, i repubblicani di Ugo La Malfa, i liberali di Bozzi a fare e disfare cinquanta governi in quarant’anni. Fino alla lunga meteora di Bettino Craxi, il socialista, che si è preso il miglior partito in circolazione e in una dozzina d’anni l’ha schiantato, dissolto, rendendolo persino impronunciabile.
E nel danno, la beffa allestita dal suo erede naturale, Silvio B. “il quale a suo modo spostò le forme della politica al di là di qualsiasi immaginazione dando vita alla più straordinaria storia di potere degli ultimi settant’anni”.
I quali anni, grazie anche alla insonne dissoluzione della sinistra transitata da Occhetto a Martina, ma passando per Bertinotti e poi per Maria Elena Boschi, si sono infilati nel labirinto di oggi in compagnia di “questi qua”, i novissimi, come recita il sottotitolo del viaggio di Ceccarelli intorno alla nostra memoria collettiva di res publica e privata. Che al netto di tutti gli strologanti retroscena dei consueti resoconti quotidiani, viene qui rappresentata (e finalmente!) in scena, bastando quello che si vede a riconoscerla e a giudicarla.
A dispetto di tutte le nostre dimenticanze: una pedagogia portatile del Potere. Che brucia tanto velocemente le vite dei suoi protagonisti, li illumina, li illude, ce li restituisce in cenere.