La Stampa 19.11.18
Fotografie, abiti e ossa
Così Cristina dà un nome ai migranti morti in mare
di Mattia Feltri
A
prima vista doveva avere diciotto anni. Date un’occhiata alla cresta
iliaca, disse una delle dottoresse. La cresta iliaca non era ancora
fusa, e succede da adulti: il ragazzo era più giovane, forse sedici
anni. Passarono alla dentizione. Estrassero facilmente il secondo e il
terzo molare. Il terzo aveva la radice che cominciava appena a formarsi.
Quattordici anni. Lo spogliarono. Piumino, gilè, camicia, jeans. Dentro
il piumino sentirono qualcosa di più duro, quadrato. Lo scucirono.
C’era una pagella scritta in arabo e in francese. Mathematiques,
sciences physiques. Doveva essere la cosa più preziosa che possedeva per
cucirla dentro il piumino. Era il suo lasciapassare per diventare
grande in Europa.
Cristina Cattaneo è nata a Casale Monferrato,
Alessandra. È ordinario di Medicina legale all’Università degli studi di
Milano e direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e
odontologia forense. Di mestiere, uno dei tanti suoi mestieri, cerca di
dare un nome ai morti che non l’hanno per la semplice ragione che tutta
la saggezza del mondo è stata scritta alle origini dell’uomo, e tutta la
saggezza sui morti è nel pianto di Priamo che chiede ad Achille il
corpo del figlio Ettore per dargli sepoltura. Era già tutto scritto lì.
Stiamo ricevendo numerose richieste da eritrei e siriani, le aveva detto
un giorno un collega della Croce rossa, perché aspettano l’arrivo di
parenti e non sanno più nulla, nemmeno se siano vivi o morti. Per anni
la gente è morta attraversando il Mediterraneo ed è rimasta in fondo al
mare, oppure è sepolta sotto lapidi senza nome. Dal 2001 oltre
trentamila morti. Nessuno ha mai pensato di fare con loro quello che si
fa con noi: dargli un’identità e dare una risposta a madri, figli,
nonni, dirgli se tocca ancora attendere o ci si può mettere il cuore in
pace. Vedete che Totò non aveva ragione, dice Cristina Cattaneo, qualche
volta nemmeno la morte è una livella.
Le fotografie
Quando
il gruppo fu costituito, nel 2013, cominciarono ad arrivare da tutta
Europa. Una donna guardò le foto del database: cercava il fratello che
aveva sentito due ore prima che si imbarcasse in Libia; si bloccò, si
concentrò su frammenti di carta con segnati numeri di telefono. È la sua
grafia, disse, questo è il suo quattro e questo è il suo sette, e
scoppiò a piangere. Un’altra donna arrivò con una busta con la ciocca di
capelli di un’amica eritrea, che non aveva notizie del figlio e sperava
che i capelli servissero per il Dna. Un uomo era sicuro che la sorella
fosse annegata, ma se non ho un certificato di morte non posso adottare
mio nipote, disse, è un bambino rimasto in Somalia.
Perché fate
tutto questo?, chiese a Cristina un amico. Perché non buttate una corona
di fiori in mare, e chiusa lì? Se tu sospettassi che tua figlia era su
un aereo caduto in mare, rispose Cristina, butteresti una corona di
fiori o cercheresti di sapere? Ah bè, se la metti così, disse l’amico.
Poi
affondò il Barcone. Era il 18 aprile 2015, nel mare di Sicilia. Sul
Barcone, che poteva contenerne cento a dir tanto, morirono più o meno in
mille. Per due mesi, in un capannone della Marina militare a Melilli,
Siracusa, Cristina e gli altri lavorarono alla schedatura di 525 corpi.
C’erano corpi interi, come quello del ragazzo che aveva cucito
all’interno della giacca un sacchetto con la terra del suo Paese,
l’Eritrea. C’erano corani, rosari buddhisti, una croce ortodossa.
C’erano crani senza corpo e corpi senza cranio. C’erano decine di
piccole ossa della mano rimaste sole in quell’ossario. C’era il dente
minuscolo e tondo di un bambino di sei anni. C’erano tessere della
biblioteca, foto di gruppi sorridenti, felpe del Real Madrid. C’era la
stiva del Barcone in cui bisognò entrare una volta che era stato
recuperato e tirato a secco, ed era «un tappeto di sagome umane», «si
stendeva per tutta l’area della stiva, ampia all’incirca sessanta metri
quadri, quasi tutte a faccia in giù, qualcuna in posizione fetale, molte
gonfie per via della putrefazione, rese più umane da cappelli, guanti,
maglioni e scarpe». I morti parlano meglio dei vivi, dice Cristina. Si
può andare dai superstiti, ascoltarli, ma non sapranno mai spiegare bene
come i morti. «Immersi un braccio protetto dalla tuta quasi fino
all’ascella: sentii almeno quattro strati di corpi».
Noi italiani
siamo stati i primi a mettere su una squadra che facesse per i loro
morti quelli che si fa con i nostri. Tutte le istituzioni hanno
collaborato con l’impegno dovuto, e arrivano i primi risultati. La mamma
del bambino rimasto in Somalia è stata identificata, e lui è stato
adottato dallo zio e lo ha raggiunto. Altri non aspettano più, ora sanno
e pregano per l’anima del padre e della sorella. Il Barcone, dice
Cristina, dovrebbe essere un monumento nazionale, e non c’entra nulla
quello che uno pensa dell’immigrazione e dell’accoglienza, c’entra
soltanto quello che noi pensiamo degli esseri umani e della loro
dignità, da vivi e da morti. (Tutto questo è raccontato in Naufraghi
senza volto, di Cristina Cattaneo, centonovantadue pagine di fatica e
strazio e speranza in libreria da giovedì per Cortina editore).