La Stampa 18.11.18
1938, il silenzio dei giuristi
Sulle leggi razziali “soverchia pavidità”
di Giuliano Amato
Al
Rettorato di Torino Sullo scalone del Rettorato i nomi dei docenti
ebrei espulsi dall’Ateneo torinese in seguito alle leggi razziali. Il
palazzo di via Verdi 8 ospita fino al 28 febbraio la mostra «Scienza e
vergogna. L’Università di Torino e le leggi razziali», curata da Giacomo
Giacobini, Silvano Montaldo e Enrico Pasini con Paola Novaria, aperta
con ingresso gratuito dal lunedì al venerdì, dalle ore 10 alle 18.
Quando
ci occupiamo della tragedia delle leggi razziali, gli ingredienti che
la segnano sono purtroppo sempre gli stessi: da un lato la strategia
della persecuzione, nei suoi presupposti, nelle sue modalità, nei suoi
fini. Dall’altro gli effetti e le reazioni che essa provoca, da quelle
dei contemporanei a quelle di chi verrà dopo. Pur preceduto da tanti
minacciosi segnali nel corso degli anni - non tanto quelli della storia
plurisecolare, ma, più da vicino, la virulenza della Civiltà Cattolica
di fine Ottocento, gli scritti sulla razza dei primi Anni Trenta e poi,
soprattutto, la vicenda coloniale (che aveva introdotto nella
legislazione la difesa della razza bianca) - l’arrivo di quelle leggi,
preceduto in rapida sequenza dal Manifesto sulla razza, parve a molti
ebrei italiani un fulmine inatteso. Il regime aveva definito il loro
trattamento nelle discipline post concordatarie, la vita si era
assestata su quei binari al punto che tanti di loro erano diventati
fascisti o comunque estimatori del fascismo. Fu difficile perciò capire
tanta sudditanza alla Germania e il bisogno, in un tempo che per il
regime non era ancora amaro, di un capro espiatorio, il solito.
Certo
si è che il Manifesto, il 5 agosto 1938, già precisa che gli ebrei non
appartengono alla razza ariano-italica. Poi i decreti legge e le leggi
che tra il settembre e il novembre di quell’anno e poi sino al giugno
1939 smantellano la vita degli ebrei: esclusione dalla scuola, dalle
professioni e dagli impieghi, dalla proprietà, dal matrimonio, sino ai
limiti alla capacità previsti in via generale dall’articolo 1 del nuovo
Codice civile. Ne esce una spoliazione di diritti e facoltà, che non ha
paragone nelle discriminazioni a cui altri erano stati e continueranno a
essere assoggettati, si tratti di donne, di persone di colore, di
stranieri immigrati. Nel caso degli ebrei vale a portare alla
eliminazione. La privazione dei diritti, che prepara la privazione delle
vite (come dirà anche la Corte Costituzionale in una sua sentenza del
1998, la n. 268).
Nonostante questa sconvolgente enormità,
l’accoglienza dei giuristi fu molto più prossima alla «soverchia
pavidità» di cui poi parlò uno che pavido non fu, Domenico R. Peretti
Griva, che non alla coraggiosa ripulsa di alcuni. Mi sono domandato se e
quanto, a raggelare i giuristi (e non solo loro) in questa codarda
passività, possano aver contribuito prese di posizioni, nette e
aggressive, come quella di Gaetano Azzariti, che disse, in quella
temperie: «Finalmente è stato messo in soffitta il dogma
dell’eguaglianza». Era un valore, era un principio al quale la storia
umana sempre più aveva cercato di avvicinarsi. Era giusto essere eguali.
Poi arriva il razzismo, ritorna la caccia all’ebreo, c’è chi la
condivide, ci sono tanti a cui conviene (anche i giuristi, professori e
avvocati che si trovano così liberi posti prima occupati), ci si
vergogna ad aver dentro voglia di diseguaglianza, ma finalmente qualcuno
lo dice. E il lato oscuro di Camelot viene felicemente alla luce, senza
più remore e senza vergogne.
Le conseguenze di quella caccia
all’ebreo, nel contesto disastroso per tutta l’umanità della Seconda
guerra mondiale, ricacciarono in fondo il lato oscuro di Camelot e la
reazione a quei disastri fu un rimbalzo straordinariamente positivo. La
tutela della dignità entrò prepotentemente nelle nuove Carte della
Comunità internazionale e delle Costituzioni nazionali.
La nostra
Corte Costituzionale, non diversamente da quella spagnola, ha affermato
l’esistenza di un «nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, come
ambito inviolabile della dignità, da riconoscersi anche agli stranieri,
qualunque sia loro posizione rispetto alle norme riguardanti l’ingresso o
il soggiorno dello Stato».
Do grande importanza alle ragioni
della sicurezza e so bene quali conseguenze provochi in tanta gente il
sentirsene privi, mentre intorno arrivano sempre più sconosciuti, che
parlano lingue diverse, che hanno abitudini diverse e che a volte
praticano anche la violenza. La diffidenza cresce, la stessa xenofobia
cresce. Ma tutto dipende dall’uso politico che se ne fa. La si può
mettere sotto controllo, mettendo sotto controllo i flussi di ingresso,
combattendo la criminalità e garantendo i diritti e le giuste protezioni
di tutti, ma riaffermando così nello stesso tempo i principi della
nostra civiltà. Oppure uscendosene, nel medesimo clima di ostilità e di
paura, come fece Azzariti: mettiamo in soffitta questi dogmi. Ancora una
volta, nonostante i decenni di Carte dei diritti che abbiamo alle
spalle, il lato oscuro di Camelot tornerebbe alla luce. Non è successo,
ancora, ma potrebbe succedere. Non facciamo come allora. Non sarebbe
consentito, non sarebbe perdonabile.