La Stampa 18.11.18
1938, le leggi razziali
Troppi contraddissero al loro compito essenziale: la difesa dei diritti
di Piero Guido Alpa
Nel
2007, nel corso di un intervento di restauro della sala detta «del
Parlamentino» al ministero della Giustizia, nella quale il Consiglio
nazionale forense celebra le udienze relative ai ricorsi degli avvocati
sanzionati dagli Ordini per violazioni del codice deontologico, gli
operai aprirono uno stipetto e rinvenirono alcuni fascicoli riportanti
la scritta: «Ricorsi degli avvocati ebrei». Non si è mai saputo perché
questi fascicoli fossero conservati separatamente rispetto all’archivio
del Consiglio nazionale forense e perché fossero stati tenuti sotto
chiave. Da questo ritrovamento, dall’analisi dei fascicoli, e dalle
ricerche che da quel momento il Cnf iniziò a svolgere si è avviata una
riflessione sui fatti storici che portarono alla cancellazione degli
avvocati ebrei dall’albo degli Ordini forensi.
Il Cnf ospitò nel
2010 una mostra itinerante proveniente dalla Germania su: «Gli avvocati
senza diritti», che riguardava il destino degli avvocati ebrei dopo il
1933, le leggi di Norimberga del 1935 e le ulteriori restrizioni
introdotte nel 1938. Organizzò anche una serie di seminari, in
collaborazione con gli Ordini forensi, con l’Unione delle Comunità
israelitiche e con la Comunità israelitica romana, per raccogliere le
delibere di cancellazione degli Ordini, documenti e testimonianze degli
avvocati ebrei sopravvissuti e delle loro famiglie, e pubblicò testi e
materiali per far conoscere - meglio di quanto fino ad allora non
avessero raccontato gli storici - la tragica vicenda che aveva colpito
gli avvocati ebrei, le loro famiglie, i loro dipendenti e i loro
assistiti a seguito delle leggi razziali, in particolare del decreto
legge 2 agosto 1939, che collocava gli avvocati ebrei in albi speciali e
consentiva loro di esercitare la professione solo a favore di cittadini
ebrei. I provvedimenti erano conseguenti alle persecuzioni già iniziate
in Italia, alimentate da altre gravissime iniziative come il Manifesto
della razza, la fondazione di riviste razziste anche di contenuto
giuridico, l’istituzione del Tribunale della razza, e altre ancora.
L’iniziativa
civile di sottrarre all’oblio questa vergognosa e tragica vicenda si è
diffusa presso gli Ordini territoriali, con manifestazioni a Pisa,
Firenze, Torino, Rovereto, e con diversi incontri e con la pubblicazioni
di testi.
Per i giuristi l’argomento è particolarmente
coinvolgente perché la gran parte di essi all’epoca dei fatti rimasero
silenti, contraddicendo la loro funzione essenziale, consistente nella
difesa dei diritti. Altri giuristi dell’epoca, sostenitori o
fiancheggiatori del regime, addirittura misero a disposizione la loro
competenza per redigere i testi persecutori o svolgere le loro funzioni
di magistrati e dipendenti pubblici ligi alle prescrizioni
discriminatorie. In particolare, l’approvazione del primo libro del
Codice civile (ancora oggi vigente, seppur emendato) fu rinviata alla
fine del 1938 per disposizione del ministro Guardasigilli in carica, lo
storico del diritto Arrigo Solmi, per poter dare ingresso nel testo alle
prime leggi razziali (a partire dal Regio decreto 5 settembre 1938) e
coordinare così la disciplina della capacità giuridica (articolo 1) con
le limitazioni dettate dalla legislazione speciale.
Le norme
rimasero in vigore fino al 1944 nel Regno del Sud e fino al 1945 nella
Repubblica Sociale Italiana. Ancora oggi il Codice civile reca il
marchio dell’infamia: sono i puntini di sospensione che al comma 3
dell’articolo 1 ricordano la prescrizione abrogata con cui si limitava
la capacità giuridica, cioè la idoneità a essere titolari di diritti e
di doveri, di coloro che appartenevano a «razze» diverse da quella
ariana, che doveva essere geneticamente preservata. Gli ebrei italiani,
perseguitati nel corso di millenni di storia, emancipati dallo Stato
albertino nel 1848, «assimilati» nella società civile, nelle
professioni, nelle cariche dello Stato, nelle scuole e nelle università,
avrebbero ritrovato la loro piena capacità solo con i decreti
luogotenenziali che abrogavano le leggi razziali, e con una esplicita
tutela nella Costituzione repubblicana, all’articolo 22, ove si precisa
testualmente che «nessuno può essere privato, per motivi politici, della
capacità giuridica, della cittadinanza, del nome».
Ricordare
quella tragica vicenda è un dovere civico per ciascun italiano, ma è
anche un monito per tutti - specie in tempi nei quali si registrano
rigurgiti di antisemitismo - perché non si possa ricostituire un clima
di odio e di discriminazione. Ed è particolarmente significativo per i
giuristi, perché il diritto non sia strumento di sopraffazione ma possa
servire a difendere i valori fondamentali della persona sui quali riposa
la società civile.