il manifesto 18.11.18
La grammatica della vita psichica, prima dell’approdo al linguaggio
Psicoanalisi.
Ospite del convegno della SPI «Dalla consultazione alla costruzione
della relazione analitica», che avrà inizio il 23 novembre a Roma per
terminare il 25, Christopher Bollas è contemporaneamente in libreria con
due saggi di Cortina: «L’ombra dell’oggetto» e «L’età dello
smarrimento»
Willem De Kooning, Mother and child, 1971
di Francesca Borrelli
Ricapitolando
le fasi del suo lavoro, Christopher Bollas ha raccontato che dalle
esperienze quotidiane, o talvolta dai quaderni dove annota i passagi più
significativi dell’analisi dei suoi pazienti, ogni tanto una idea
raggiunge la sua mente, senza rendersi però del tutto intellegibile.
Bollas prende appunti e non si sforza di affrettarsi a capire, ma spesso
– scrive – «è l’idea che lotta perché io ci pensi». Non a tutto ciò che
conosciamo – intende dire – siamo in grado di dare una rappresentazione
mentale, quindi di pensarlo.
Nella dialettica costitutiva
dell’Io, che consiste della negoziazione inconscia tra ciò che abbiamo
ereditato e ciò che abbiamo acquisito, si deposita una memoria del
processo ontogenetico che è un vissuto esistenziale, recuperabile al
ricordo sebbene non sia mai stato appreso.
Prima ancora di
elaborarla con il pensiero, il bambino sperimenta «una esperienza
dell’essere» che riflette «l’essenza della vita prima dell’esistenza
della parola». Tra la logica determinata dalla disposizione genetica e
quella derivata dal rapporto con la madre, il bambino stabilisce dei
compromessi che formano un suo sapere, parte del quale non trova
rappresentazione mentale: è ciò che Bollas chiama «il conosciuto non
pensato». Attorno a questo concetto, che rende conto di quella scissione
fondamentale sperimentata da ciascuno di noi tra «ciò che pensiamo di
sapere» e «ciò che effettivamente sappiamo» ma non possiamo pensare
ruota uno dei libri più importanti di Christopher Bollas, L’ombra
dell’oggetto Psicoanalisi del conosciuto non pensato (traduzione di
Daniela Molino, pp.253, euro 25,00) terminato fra l’87 e l’89, che a
distanza di diciassette anni dalla edizione Borla, non più disponibile,
viene ripubblicato da Cortina insieme a un altro libro più recente (e
non altrettanto fondamentale), L’età dello smarrimento Senso e
malinconia (traduzione di Paola Merlin Baratter, pp. 244, euro 15,00) in
cui lo psicoanalista americano proietta la sua formazione umanistica, –
scrisse la tesi di dottorato su Herman Melville – la sua passione
politica e la sua problematizzazione del disagio psichico sullo sfondo
sociale.
La «madre ambiente»
Bollas ha una profonda,
dettagliata conoscenza della teoria psicoanalitica classica: non solo si
richiama continuamente a Freud, ma dimostra una frequentazione intensa
degli scritti sia di Lacan che di Bion, pur sentendosi più vicino alla
scuola inglese di Donald Winnicott, Marion Milner, e Masud Khan. Non
trascura, dunque, l’importanza di seguire la logica delle sequenze
narrative inscritte nei racconti degli analizzandi. Tuttavia, il suo
primo lavoro con giovanissimi schizofrenici e con bambini autistici –
impossibilitati a tradurre in parola il loro malessere – lo ha indotto a
spostare l’attenzione su quella parte della psiche che è ancorata al
mondo non verbale, concentrandosi sulla necessità di ricollegarsi alla
grammatica dell’essere che precede l’acquisizione del linguaggio. Per
prendere contatto con queste zone remote della psiche – raccomanda
Bollas – l’analista dovrà essere disposto a farsi usare «come oggetto»,
lasciando che l’analizzato «si installi» in lui con i suoi silenzi, con
il pianto, con i vissuti emotivi riattivati nel ricordo delle sue prime
esperienze di relazione. Per quanto spaesante, l’analista dovrà esporsi a
quella esperienza a volte drammatica che consiste nel restare presi
nell’idioma del paziente, tollerando di non sapersi orientare, di non
sapere chi egli sia e dove si trovi nella mente dell’altro.
Convivere
con questa incertezza, dare valore alla propria capacità di perdersi
nell’ambiente creato dall’analizzato, e dunque cedere la propria
percezione di sé via via che la situazione clinica lo richiede, può
rivelarsi un aiuto prezioso alla scoperta che il paziente fa di se
stesso, e al suo procedere verso una coesione del senso di sé. Per
svolgere questo compito, è fondamentale che l’analista riprenda la
funzione trasformativa di ogni madre nei confronti del suo bambino:
proprio il fatto di alterare, sia positivamente che negativamente, la
vita fisica, emotiva, ideativa del bambino – cullandolo, sorridendogli,
parlandogli, creandogli intorno un ambiente facilitante – fa sì che la
madre venga vissuta come un processo più che come un oggetto.
Di
fronte a una persona che chiede aiuto alla psicoanalisi, e sa di sapere
qualcosa ma di non averlo ancora elaborato al punto di poterselo
rappresentare mentalmente, l’analista dovrà funzionare da traccia
mnestica, ovvero riagganciare quei ricordi che, pur non essendo stati
cognitivamente registrati, rimangono nell’Io, un «processo organizzativo
inconscio – scrive Bollas – che rispecchia la presenza della nostra
struttura mentale». Il lavoro dell’analista dovrà dunque riprendere la
funzione trasformativa della madre, là dove essa era stata disturbata o
traumaticamente interrotta. Succede spesso – ricorda Bollas – che un
bambino venga lasciato solo a confrontarsi con un problema per lui
vitale, che esorbita le sue capacità di elaborazione. L’allontanamento
di un genitore, per esempio, se supera il tempo in cui il piccolo è
capace di conservarne l’immagine mentale, scatena uno stato di
angosciosa confusione, che rompe il senso di continuità della propria
esistenza. Il trauma subìto diventerà, allora, non tanto un passaggio
nel corso della vita, ma un evento che la definisce.
Per quanto
questi stati mentali siano preoccupanti, per quanto attivino processi
insostenibili al pensiero, devono essere trattenuti – dal bambino prima e
dall’adulto poi – allo scopo di «mantenere intatta la vita». Andranno a
formare quello stato del Sé, che rimarrà come qualcosa di inarticolato e
di sfuggente all’espressione: da qui il concetto di conosciuto non
pensato, una esperienza remota che neppure i sogni riportano. La vita
mentale non si limita a quel che è traducibile nell’ordine del
simbolico, infatti, ma accoglie esperienze profonde del Sé che, pur non
avendo accesso a una rappresentazione psichica, vengono conservate e
concorrono a formare l’«idioletto della grammatica dell’Io».
È
questo che Bollas chiama il carattere, ovvero una relazione con gli
altri e con se stessi, che porta tracce dell’esperienza storica con i
punti di riferimento primari di ciascuno di noi. Una delle finalità
implicite nella alleanza terapeutica consisterà nel riportare alla
superficie e decifrare ciò che l’analizzato sa già di sapere, senza
tuttavia averlo mai potuto pensare.
Anche l’esperienza estetica,
proprio in quanto trasformativa, rimanda inconsciamente al tempo di una
fusionalità profonda del soggetto con i suoi oggetti primari: la madre,
innanzi tutto, che con il proprio «idioma di cura», con il proprio stile
di interazione, crea un ambiente e dà forma al mondo interno del
bambino, allestendo per lui la prima esperienza estetica. È un campo,
questo, che a Bollas sta particolarmente a cuore: prima ancora di
indagarlo con gli strumenti della psicoanalisi, ne ha fatto il suo
oggetto di studio privilegiato, arrivando a conquistare un dominio
invidiabile della letteratura, dell’arte, della filosofia, che ha anche
insegnato. L’ultimo suo libro, L’età dello smarrimento ne porta ampie
testomonianze: al tempo stesso prende in esame la trasformazione subita
dai prodotti culturali del nostro tempo (che traducono in equivalenti
simbolici le nostre esperienze psichiche più remote) e descrive alcuni
passaggi storici cruciali insieme alle loro loro ricadute nella
psicologia sociale. Così come la democrazia ateniese non si limitò a
inaugurare un sistema di governo ma si estese a formare una teoria della
mente per le generazioni a venire, la febbre di sviluppo industrale
della Germania prima della guerra si trasformò in una «dimensione
maniacale, che si radicò lentamente nei presupposti idealizzanti
riferiti al Sé e alla nazione».
Diagnosi del qui e ora
Tutte
le società hanno cercato nell’«Altro» un contenitore delle proprie
parti indesiderate: i «selvaggi» vittime della colonizzazione furono,
per esempio, i depositari ideali «delle identificazioni proiettive delle
menti europee. Dovevano essere considerati primitivi e violenti», così
che l’Occidente potesse differenziarsi come «sosfisticato e puro». Più
in generale, la dinamica che ha portato a tante guerre, ha sempre
previsto prima l’esaltazione per una causa, poi l’individuazione di un
nemico nel quale, di volta in volta, intere nazioni hanno proiettato le
proprie parti scisse e meno presentabili.
Altri stati d’animo
vengono seguiti da Bollas nel corso del loro sviluppo lungo i due secoli
scorsi, fino alla diagnosi che riguarda il nostro tempo: un senso di
lutto collettivo sembra avere preso il posto della fiducia nelle
legittime aspettative che avevano tenuto insieme comunità neanche tanto
remote. «Quando le società si identificano fortemente con convinzioni
che sono andate perdute – scrive Bollas – si può verificare una perdita
collettiva del senso di Sé».