La Stampa 18.11.18
“I nostri sogni di bambini su quel treno della felicità”
di Franco Giubilei
Li
chiamavano treni della felicità, erano carichi di bambini che dalla
miseria delle città più devastate dalla guerra venivano portati lontano,
nelle zone del nord Italia meno toccate dal conflitto, soprattutto in
Emilia e in Toscana. Vennero ospitati da famiglie del posto per pochi
mesi, ma in diversi casi quei soggiorni si prolungarono fino a qualche
anno. «Fra il ’45 e il ’48 si sono mossi almeno 50mila bambini: i primi
da Milano e Torino, che avevano subito i bombardamenti più pesanti, e
poi da Roma, Cassino, Frosinone e Napoli», spiega Paola Nava, fra le
protagoniste del convegno organizzato per domani dall’Istituto storico
della Resistenza di Modena e che sarà replicato a Napoli il 10 dicembre.
Se ne andavano lasciandosi alle spalle situazioni disastrose, come i
circa 12mila bimbi napoletani partiti nell’arco di due anni dalla
stazione di Porta Garibaldi: senza bagagli, con i cappottini forniti
dalle volontarie dell’Unione donne italiane che spesso le madri levavano
loro di dosso prima della partenza per darli agli altri figli, certe
che al loro arrivo al nord qualcuno avrebbe pensato a rivestirli.
I cappotti
Fra
loro c’era Mario Capuozzo, nel marzo del 1948 aveva sette anni e quel
treno lo prese insieme al fratellino Vittorio, che ne aveva solo cinque:
«Ricordo bene l’arrivo a Rivalta, nel Reggiano: faceva molto freddo e
sul marciapiedi della stazione trovammo una schiera di persone che ci
aspettavano. Avevamo addosso il cappotto che l’Udi ci aveva dato a
Napoli». Figlio di un operaio dell’Eternit e di una casalinga, all’epoca
viveva al rione Sanità, uno dei più poveri della città: «Con un solo
stipendio non ce la facevamo, ecco perché io e mio fratello siamo andati
in Emilia. L’Udi sceglieva i casi delle persone più bisognose e
chiedeva alle famiglie di fare partire i bambini per un periodo di
quattro mesi». Un’operazione ideata da Togliatti, l’allora segretario
del Pci, che a Napoli si scontrò con la campagna avversa di parrocchie e
Democrazia cristiana (le elezioni del ’48 erano alle porte, ndr): la
fama dei comunisti che mangiavano i bambini alimentava le voci più
angoscianti, come il taglio di mani e piedi, il fatto che li avrebbero
trasformati in sapone o che, nel caso migliore, li avrebbero spediti in
Unione sovietica. In realtà, aggiunge Nava, rossi e cattolici spesso
collaboravano: «A Carpi i bambini al mattino andavano a messa e al
pomeriggio alla casa del popolo».
«I preti dicevano che i bimbi
non sarebbero più tornati – conferma Mario -, noi però siamo stati
trattati molto bene: a Rivalta andai a casa di due maestre, due sorelle,
Maria e Margherita Campagna, che però potevano ospitare solo un
bambino. Per farci stare vicini hanno convinto il parroco a tenere mio
fratello. Per lui all’inizio è stato un po’ più traumatico, poi è andata
meglio: il prete lo portava in moto, ricordo anche Vittorio che si
appendeva alle corde delle campane. Nella parrocchia c’era anche il
cinema, per noi era l’America…». Al suo arrivo parlava solo napoletano:
«A scuola non mi capivano, per chiedere un’arancia dicevo “portuall”, ma
al mio ritorno a Napoli parlavo italiano». A Rivalta c’è tornato più
volte, da adulto, a trovare l’anziana maestra di cui ha festeggiato il
110° compleanno, poco prima che morisse.
Antonio Attianese ha una
storia simile, descritta anche da Simona Cappiello, autrice del
documentario “Gli occhi più azzurri”: napoletano, 80 anni, figlio di un
fotografo iscritto al Pci e di un’operaia, a 8 anni venne messo su un
treno per Bologna. «Papà era un fervente comunista e accettò subito la
proposta di mandarmi al nord, nonostante i democristiani gli dicessero
che ci avrebbero tagliato le mani – racconta oggi -. A Napoli eravamo in
una condizione difficile, dovevamo condividere due stanze con un’altra
famiglia di mezzi delinquenti che aveva occupato casa nostra mentre ci
trovavamo a Roma, durante la guerra. A Bologna invece venni trattato da
signore: ci sono rimasto per 7-8 mesi, ospite di un ingegnere che aveva
due figli». Sotto le Due Torri frequenta la terza elementare e, sono
parole sue, passa «un periodo splendido: mangiavo, andavo a scuola,
giocavo coi loro bambini, mi trattavano come un figlio loro e mi
vestivano bene. Ero partito quasi da pezzente, tornai a Napoli con una
valigia piena di vestiti: davo del lei a mia mamma perché mi ero
abituato all’educazione del nord. I miei fratelli mi guardavano come uno
straniero».