mercoledì 14 novembre 2018

La Stampa 14.11.18
La rabbia delle brigate e delle tribù
“La Libia non si aggiusta con i summit”
di Francesco Semprini


Curiosità mista a pragmatismo, speranze mai sopite, qualche ilarità, e un po’ di delusione che trova forma nell’interrogativo: «E ora che succederà qui in Libia?». C’è un po’ tutto nello stato d’animo di chi, dalla sponda sud del Mediterraneo, ha seguito gli sviluppi della conferenza di Palermo. Ben inteso, i libici non sono rimasti certo col fiato sospeso davanti alle tv per assistere alle gincane di Khalifa Haftar o alle triangolazioni delle diplomazie. Tutt’altro, a Tripoli ad esempio le banche hanno dovuto fare i conti con le consuete file agli sportelli e i negozi coi soliti problemi di fornitura, mentre la macchina amministrativa proseguiva le attività ai ritmi che la contraddistinguono.
«Troppi boss nel Paese»
Certo però che nei caffè e nelle case della capitale, come tra le tribù della Tripolitania e nel resto del Paese, si è teso un orecchio a quello che rimbalzava da alcune centinaia di chilometri di distanza, visto che di Libia si è parlato. «Di conferenze ne abbiamo avute tante, la nostra situazione politica è complicata, sono in troppi a voler fare i boss o a voler diventare presidente. Credo che sia necessario ancora un percorso di maturazione, quindi del tempo. Ecco perché temo che da Palermo non esca fuori molto».
A parlare è Mustafa Barouni, sindaco di Zintan, quella che da alcuni è considerata una città-stato, realtà fondamentale nella storia politica e militare della Libia post-gheddafiana. Barouni mostra un certo disappunto per non essere stato invitato alla conferenza di Palermo. «Senza dubbio i quattro leader che hanno rappresentato il Paese sono personaggi noti e hanno forza sul campo, senza dubbio potevano, anzi possono, dare un contributo alla soluzione della crisi libica, ma non sono gli unici». Un’osservazione che viene mossa da un’altra «città-stato» ovvero Misurata, delusa per il fatto che il suo principale esponente, il vicepresidente Ahmed Maetig, non sia stato invitato di persona e che, come altri, non abbia trovato la collocazione che meritava. In realtà a Zintan si guarda già oltre, a quella sorta di «Costituente» prevista dal piano Onu ai primi del 2019 e di cui il sindaco ha discusso con Ghassan Salamé alla vigilia del vertice siciliano. Sulle elezioni però frena: «Sarebbe bello farle nel 2019, ma non credo sia possibile, non siamo pronti».
Mentre spera che da Palermo emerga la presa di coscienza da parte del governo di Fayez al Sarraj di «dare sostegno alle amministrazioni locali perché sono le uniche garanti del territorio».
La sicurezza di Tripoli
C’è chi dalla conferenza si attende un passo in avanti sulla sicurezza della capitale: «Dobbiamo favorire quanto più possibile la transizione verso una forza regolare e agevolare l’uscita di scena delle milizie». È il pensiero di Saad Hamali, portavoce della 7° Brigata di Tarhuna, i cosiddetti «insorti» che lo scorso agosto hanno innescato la rivolta contro le formazioni di Tripoli. «La situazione era diventata insostenibile, nelle periferie e nelle zone limitrofe mancava acqua, gas e luce a causa dei taglieggiamenti di certe formazioni che controllano Tripoli. Non c’era pane e non c’erano contanti, le milizie hanno umiliato la Libia ed è ora di cambiare le cose». Per Tarhuna ci sono inoltre formazioni che hanno mantenuto rapporti con i trafficanti illegali di migranti e di carburante: «Ecco perché la soluzione del problema è interesse di tutti, anche dell’Italia».
C’è chi evoca il lavoro avviato dal generale Paolo Serra nella veste di consigliere militare della missione Onu (Unsmil), come Houssam al-Najjar detto «Irish Sam» per le sue origini dublinesi, noto combattente (foreign) della rivoluzione del 2011 di cui racconta le vicende nel libro «I leoni della Tripoli Brigade», la sua formazione. «Per combattere il crimine organizzato, bisogna iniziare dal lavoro di Serra e creare forze di sicurezza istituzionali: così possiamo rifondare Tripoli».
C’è chi, sottolineando il Dna etnico-sociale della società civile libica, spiega che nel Paese vi sono almeno 120 tribù, e quattro leader (i soliti noti) non sono in grado di rappresentarle. Ashraf Shah, membro del dialogo politico libico dal quale sono nati gli accordi di Skhirat, sostiene che la linea inclusiva dell’Onu sia giusta «ma il popolo non appoggia quei leader».
La «Costituente»
Così la soluzione «bottom-up», ovvero di legittimazione dal basso, della «Costituente» di inizio 2019, con oltre 200 rappresentanti della società civile libica riuniti assieme, è guardata di buon grado dalle tribù della Libia. Comprese quelle del Sud, ai margini del palcoscenico palermitano, che dalla conferenza si attendono quanto meno lo sblocco dei piani strategici a partire dalla copertura dell’area di Ghat con una base di sorveglianza dei confini. Il progetto è chiave per le dinamiche locali e regionali, perché dal Fezzan vi sono minacce di fazioni degli Awlad Suleyman volte a sovvertire Tripoli, destabilizzando Ubari e l’equilibrio tribale.
«Da mesi e mesi quel progetto, che avrebbe messo in stallo l’azione francese a sud della Libia è sconsideratamente fermo - spiega Agenfor International, fondazione di analisi globali -. Dal sud passano tutti i traffici e vi è una presenza Tuareg da sempre favorevole all’Italia, dunque per l’asse Roma-Tripoli è un asset più che strategico».