il manifesto 14.11.18
«Valori traditi», Amnesty scarica Aung San Suu-Kyi
Rohingya e Myanmar. E all’Asean a Singapore contro la Lady anche il premier malese Mahatir
di Emanuele Giordana
È
una giornata difficile da dimenticare quella che ha visto ieri
protagonista, in negativo, la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi
cui ogni giorno qualcuno chiude la porta in faccia. E ieri la porta in
faccia gliela hanno chiusa un primo ministro, un Alto commissariato Onu e
Amnesty International. Proprio la più famosa organizzazione di difesa
dei diritti umani e della libertà di espressione – che per anni ha
battagliato per farla uscire dagli arresti domiciliari – ha deciso di
revocarle il premio «Ambasciatore della coscienza», conferitole nel
2009.
LA DECISIONE è stata presa alla luce – spiega un comunicato
della sezione italiana – «del suo vergognoso tradimento dei valori per i
quali una volta si era battuta». «Come Ambasciatrice della coscienza ci
aspettavamo da Lei che continuasse a usare la sua autorità morale per
prendere posizione contro le ingiustizie ovunque le scorgesse, a
iniziare dal Suo paese. Oggi – sostiene il segretario generale Kumi
Naidoo – proviamo profondo sconcerto per il fatto che Lei non
rappresenti più un simbolo di coraggio, di speranza e di imperitura
difesa dei diritti umani. Amnesty International non può più valutare il
Suo comportamento come coerente al riconoscimento assegnatole ed è
pertanto con grande tristezza che ci accingiamo a revocarlo».
IN
SOSTANZA AMNESTY le rimprovera il fatto che, a metà del suo mandato e
otto anni dopo la fine degli arresti domiciliari, la Nobel non abbia
usato la sua autorità politica e morale per salvaguardare i diritti
umani, la giustizia, l’uguaglianza e la libertà di espressione in
Myanmar. Il riferimento ovvio è sia alla questione delle minoranze, tra
cui quella musulmana dei Rohingya, espulsi in massa nell’agosto scorso
in Bangladesh, sia all’arresto e alla condanna di due reporter locali
della Reuters, attirati in una trappola dai militari per impedire loro
di divulgare le notizie relative agli eccidi commessi dall’esercito
contro i Rohingya. Nello stesso giorno in cui Amnesty decide di levare
il riconoscimento – seguendo una strada già intrapresa da altri ma non
ancora dal Comitato dei Nobel – la de facto premier birmana riceve un
altro schiaffo politico da un suo omologo nel Sudest asiatico. Si tratta
di Mahathir Mohamad, l’inossidabile protagonista della vita politica
malaysiana tornato a essere nuovamente primo ministro all’età di 93
anni.
Ieri i due si sono visti alla 33esima sessione dell’Asean
Summit a Singapore. Mahathir ha scelto quella platea (che riunisce la
maggior parte dei Paesi dell’area) per dire come la pensa. Rispondendo a
una domanda sulla questione rohingya il vecchio politico malese ha
detto che Suu Kyi starebbe «cercando di difendere l’indifendibile».
Fu
del resto il suo predecessore, Najib Razak, il primo a usare la parola
«genocidio». L’Asean ha una tradizione di «non ingerenza» negli affari
interni dei partner ma questa volta sta facendo pressioni perché si
faccia luce sulle responsabilità degli eccidi commessi nel Rakhine, il
territorio della paura da cui i Rohingya sono stati espulsi ma dove
hanno paura di tornare.
CHE NON POSSANO TORNARE perché non ci sono
le condizioni di sicurezza adeguate per un rimpatrio sicuro lo ha detto
ieri l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani Michelle Bachelet,
che ha chiesto al Bangladesh di sospendere i piani per il rimpatrio di
oltre 2.200 rifugiati rohingya: rimpatri che violerebbero il diritto
internazionale per i rischi che correrebbero i rimpatriati che infatti
temono per la loro incolumità se dovessero ora far ritorno nel Myanmar.