martedì 13 novembre 2018

La Stampa 13.11.18
La (non) pace della Grande Guerra
Gli sforzi del presidente americano Wilson alla radice di cent’anni di conflitti in tutto il mondo
di Franco Cardini


Ormai, in tempi nei quali la storia viene quasi cacciata dalle scuole e ghettizzata nelle università, mentre fior di ministri (per non parlar d’insegnanti e di genitori degli studenti) affermano dottamente che «non serve a nulla», si potrebbe obiettare ch’essa, stravolta e adulterata, trionfa nelle piazze e sui piccoli schermi tv sotto forma di sagre popolari e di serial. Ma qui viene trattata in modi che costringono molti a chiedersi se non sarebbe meglio che l’oblio totale scendesse su di essa.
Ebbene, no. Sappiate che non bisogna mollare. La storia rappresenta la razionalizzazione della nostra memoria: senza di essa una società civile non può sopravvivere, non tanto perché è impossibile non conoscere il passato, ma perché senza la conoscenza di esso non si comprende il presente e non si progetta nessun possibile futuro.
D’altronde, se la storia è in crisi chi è cosciente della sua importanza deve stare al gioco e accettare la sfida: pur di scendere in lizza con il popolo degli orecchianti e dei maniaci, pur di misurarsi con i semicolti e con i refrattari. Alla gente piacciono le saghe paesane in costume pseudomedievale? Cerchiamo di far rientrare dalla finestra il vero medioevo cacciato dalla porta perché il popolo delle play-station non sa che farsene.
I politici e i media amano la storia a metà tra la retorica e la celebrazione consumistica che è quella fatta «per centenari», per cui il 2018 è stato «magico» in quanto è stato contemporaneamente il centosettantesimo del 1848, il centenario del 1918 e il cinquantesimo del 1968, tre Anni Mirabili? Docenti universitari, autori di libri, case editrici e librai hanno fatto di tutto per avvantaggiarsene: con qualche risultato.
Sarà lo stesso per il 2019? A occhio e croce si direbbe di no: non c’è granché come anniversario in vista, a parte magari l’armistizio di Villafranca del 1859, la Conciliazione tra stato italiano e Chiesa del 1929 e perfino l’infausto inizio della seconda guerra mondiale nel 1939. Ma anche gli anni infausti sono ghiotte occasioni per chi vuole approfittarne.
E non dimentichiamo il centenario del 1919, l’anno delle «paci di Parigi» opera dei vincitori del conflitto del 1914-18 e risultato soprattutto del loro grande Mediatore, il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, giurista e accademico prestato (purtroppo) alla politica.
Perché «purtroppo»? Perché le «paci di Parigi» (al plurale, in quanto furono un pacchetto di trattati fra le potenze vincitrici e i tre imperi vinti, il germanico, l’austroungarico, l’ottomano), contrabbandate nel loro insieme come «una Pace per farla finita una volta per tutte con le guerre», si rivelarono fin dal principio, al contrario, una pace per farla finita una volta per tutte con qualsiasi tipo di pace. È già stato detto fino alla noia che il 1919 fu l’inizio di una specie di «guerra dei Trent’Anni» europea che terminò solo nel 1945: ma ciò non è purtroppo vero. Ad essa si collegò strettamente la «guerra fredda» tra 1948 e 1991 e quindi, tramontata l’Unione Sovietica, l’insorgere sempre più duro di una crisi balcanica che si andava aggiungendo a una vicino-orientale, a una estremo-asiatica, a una latino-americana, a una africana. Crisi che perdurano ancora e che hanno indotto un osservatore autorevole come papa Francesco a parlare di una «terza guerra mondiale» già in atto. Insomma, tra 1919 e oggi c’è stata una «Guerra dei Cento Anni», che non è ancora finita.
Alla radice profonde di questo lunghissimo conflitto c’è un protagonista, un eroe purtroppo negativo: il presidente Wilson. Austero e inflessibile studioso figlio di un pastore protestante e testimone oculare, giovanissimo, della Guerra di Secessione statunitense, Wilson sognava la pace universale ed era convinto che, per arrivarci, fosse necessario battere il colonialismo (ma ciò gli era impossibile dal momento che colonialiste erano le due potenze che con gli Usa avevano vinto la guerra, cioè Gran Bretagna e Francia: a parte l’Italia che non contava nulla e alla quale andarono solo le briciole del bottino dei vincitori) e anche il nazionalismo, che della guerra scoppiata nel ’14 era stata una delle cause. Per far questo, Wilson riteneva che ricetta magica universale fosse il principio che ogni nazione dovesse diventare sovrana e che a ogni nazione spettasse uno Stato libero: quindi tutte le nuove compagini, unite nel «parlamento mondiale» della Società delle Nazioni, avrebbero garantito al mondo pace e giustizia per un tempo illimitato.
Wilson si era trovato alla guida degli Stati Uniti allo scoppio della guerra mondiale, nel ’14. Dopo quattro anni, con il suo partito repubblicano lacerato dalle divisioni interne, fu rieletto presidente: il motto della sua seconda campagna elettorale fu «He kept us out of war», ci ha tenuti fuori dalla guerra. Ottenuta la riconferma il 5 novembre 1916, esattamente dopo cinque mesi egli dichiarò guerra alla Germania, il 6 aprile 1917.
In relazione all’opacità delle motivazioni che portarono all’entrata in guerra del 1917, si è soliti annoverare tra esse l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania da parte di un U-boot tedesco avvenuto il 7 maggio 1915, quindi ben due anni prima della decisione di Wilson, che causò la morte di 123 cittadini americani, forti perplessità sono sorte anche negli Stati Uniti.
Ma il tentativo wilsoniano di metter pace tra i popoli non riuscì. La Germania fu troppo duramente soggetta alla legge delle riparazioni di guerra con pretese di debiti per montagne di sterline oro e pesanti decurtazioni territoriali: causa non ultima del successo del nazionalsocialismo che prometteva la rinascita nazionale sulla base delle rivendicazione della dignità tedesca. I Balcani, che avrebbero dovuto esser protagonisti della liberazione di un mosaico di popoli e di «patrie», furono soggetti all’egemonia dei soli serbi; così come gli slovacchi furono assoggettati ai cechi. Insomma, un fallimento su tutta la linea delle ottime, lodevoli intenzioni del presidente.
Non mi piace firmare un così duro giudizio su un uomo dalla specchiata moralità personale e dalle eccellenti intenzioni. D’altronde, «corruptio optimi pessima».