La Stampa 12.11.18
Reportage. Viaggio in Argentina
Nei barrios di Buenos Aires dov’è nato il populismo
“Ora il Paese è nel baratro”
Nella capitale un terzo dei cittadini vive nella miseria, mancano lavoro e opere pubbliche
Il peronismo nato per dare diritti ha portato tirannia e corruzione fino al crollo economico
di Domenico Quirico
In
avenida Nove di luglio ho visto sfilare un interminabile corteo i
poveri. Non gli operai i contadini i minatori i camionisti gli artigiani
travolti dalla mondializzazione i funzionari impoveriti i piccolo
borghesi con la paura di perdere il decoro i padroncini gli studenti i
laureati senza impiego i commercianti falliti i sindacalizzati gli anti
tutto. No. I poveri e basta, i proletari. Come non li vedevo da decenni
nei cortei d’Europa. Un corteo che si porta addosso come una divisa la
povertà, nei vestiti, perfino nei volti, antropologicamente diversi dai
cittadini che scivolano sui marciapiedi per allontanarsi facendo finta
di non vederli, come se fossero una fastidiosa raffica di pioggia o un
ingombro stradale.
Dilaga, nel mondo, il populismo come nuova vena
di Storia. Uno dei luoghi in cui è nato è qui, in Argentina, nel 1946,
si chiamava «giustizialismo» ed era invenzione di un
presidente-caudillo, Domingo Perón e della sua travolgente moglie e
musa, Evita. E poi quel populismo, un po’ da destra e un po’ da
sinistra, è rimasto appiccicato alla storia di questo Paese. Quale luogo
migliore, dunque, per capire, osservando da un’altra prospettiva, non
ossessivamente eurocentrica? Per scoprire che anche qui il populismo ha
carattere fluido, transitorio, indefinibile, direi rimessaticcio, destra
ma anche sinistra. Eppure, prima di Peron, l’Argentina era un Paese
feudale, proprietà di un pugno di famiglie di latifondisti: la dolce
vita degli iscritti al «jockey club» (andò a fuoco, un po’
misteriosamente, sotto Perón che l’aveva «nazionalizzato», bruciarono
anche la biblioteca e alcuni Goya). Il populismo della «madonna dei
descamisados» ha fatto nascere i diritti, l’istruzione gratuita fino
all’università, le tutele sindacali, l’assistenza sociale, la sanità
pubblica. Un «cambiamento», certo. Ma il peronismo presto ha soffocato i
suoi germi vitali nella tirannia predoneccia, nella corruzione senza
limiti, nella inefficienza approssimativa che portò al crollo della
moneta e al marasma. Che gli eredi, tutti populisti di destra e di
sinistra, Menem con i suoi invasamenti liberisti e i Kirchner, hanno
perfezionato come una dannazione, con il folleggiare sui precipizi
dell’economia creativa, fino ad oggi. Un terzo del Paese rientra nella
categoria dei poveri. La sanzione di un fallimento.
«Fuori il fondo monetario»
Sfilano
i poveri per quartieri, per barrios di questa città di tre milioni di
uomini. Ci sono quelli di Moreno, ben raccolti, decisi e poi quelli di
Ponte Perón e Hurligham. E quelli di Berazategui che hanno messo sugli
striscioni, insieme, Che Guevara e lei, Evita, fissata nella sua eterna,
spezzata giovinezza dei trent’anni. E poi c’è Moreno e Bajo Flores,
Pilar, e ancora San Isidro (ma non era soltanto trent’anni fa un
quartiere residenziale?). La lebbra delle crisi che spilluzzica le
città. Buenos Aires è costruita senza restrizioni di spazio in una terra
sconfinata e carnosa, tra il verde e l’acqua, davvero immensa, una
sensazione di vastità che è insieme naturale e geometrica. Ma il corteo
dei poveri la occupa, la penetra, la consuma palcoscenico, appoggio,
raccordo, emergenza, grido.
«I barrios sono in piedi...», grida lo
striscione immenso che guida la marcia. Tamburi ossessivi, continui
rimbombano nell’architettura salda e visibile della città dei ricchi,
dei padroni, le buone famiglie nascoste dietro le finestre. Progresso
miseria lusinghe perdizioni. L’hotel Sheraton. Il circolo
dell’aviazione. Sembrano vuoti e morti. I cambiavalute che ti braccano
ad ogni angolo: «Cambio cambio…». Dove sono stamane? Spariti. Le donne
cullano i bambini con infinita dolcezza sedute sui marciapiedi. Qualcuna
allatta come fuori dal tempo, un modo furtivo e stupefatto di fare.
Passa il venditore di tortillas. Le bandiere, azzurre, le reggono a
fatica per il vento, innalzate su altissime canne. «Fuori il fondo
monetario», «Fuori il presidente Macri». Tamburi implacabili, densi.
«Lavoro vero non precario». «Opere pubbliche nei quartieri». Una voce di
donna, straziante, comincia a cantare così forte che sovrasta lo
strepito delle auto costrette dal muro umano a piegare nelle vie
laterali, spalancate e furiose. Colgo solo lampi di parole: popolo…
miseria… lavoro. Entro nella massa, smaniando di scoprire chi canta. La
voce rimbalza sull’asfalto, cava la musica dal fondo del corteo,
trasfonde nel suono una strana violenza pittorica, come un desiderio
disperato di colori e di luce. La cerco invano.
La moneta e il crollo
Il
governo argentino ha appena firmato un accordo con il Fondo monetario,
un piano di stabilizzazione, un prestito consistente per evitare un
nuovo crollo della moneta, che ora si è stabilizzata a uno-quaranta con
il dollaro. Già consacrato ai castighi di condizioni dure, risparmi,
tagli all’istruzione, alla sanità ai servizi: per decenni. Che daranno
vigore alle braci populiste. Copione vecchio.
Un amico architetto,
che non è peronista, mi fa domande gravi: «Prima intendiamoci sulla
parola, populismo. Qui è un insulto, populista. Ma poi se guardi con
attenzione ha significato avvento dei diritti, di uno stato sociale. Per
questo, una parte di questo Paese lo odia visceralmente. La rovina
dell’Argentina? Chiedete a Menem che ha svenduto le ricchezze del Paese
agli stranieri. Il problema è che la gente qui pensa in dollari non in
pesos: è ossessionata, accumulare dollari per sopravvivere a ogni
evenienza crollo, crisi…».
Reintegrare le classi sociali
Il
populismo come sistema di transizione che tenta di integrare (o di
reintegrare) le classi popolari nell’ordine politico e sociale con
un’azione volontaria dello Stato. Contraddizione originaria dunque:
mobilitare le classi pericolose ma mantenere il modello di dominio. Di
qui l’aspetto di psicodramma chiassoso e a volte incomprensibilmente
caotico, la violenza verbale che ha un ruolo chiave, la condanna a morte
«simbolica» dei poteri forti, il caos in nome dell’ordine. Una lezione
che forse vale anche da questa parte dell’Atlantico.
Il Medioevo del comizio
Torno
ad Evita, ai suoi virtuosismi populisti primitivi rispetto ad oggi, i
portali Internet le piattaforme (eravamo ancora al Medioevo del comizio,
del balcone della Casa Rosada), ma efficacissimi. Evito il museo al
quartiere Palermo, raggiungo «Regoleta», il cimitero monumentale privato
dei ricchi e dei grandi che tengono in pugno il Paese. Strano cimitero,
più museo che luogo di sepoltura: un sassofonista suona all’ingresso,
gruppi guidati, confusione, strepito. Una tomba di marmo nero: famiglia
Duarte, fiori finti appesi alla grata, targhe in bronzo del «popolo
riconoscente»: «sempre». Una comitiva di studenti distratti ascolta il
racconto del professore. Memoria e dimenticanza. Contraddizioni, ancora.
Ancora
un luogo, che non si può evitare: le città miseria, le bidonville
immonde e con le antenne della televisione che cominciarono a riempirsi
al tempo di Perón e dei suoi tentativi di promuovere
l’industrializzazione e i concentramenti operai. Hanno numeri, non nomi.
Scelgo la numero 31 una delle più vicine che quasi si scioglie nella
città degli «altri». La riva del Plata che immenso fluisce con i suoi
cinquanta chilometri di broda sudicia diluviale. Le tre grandi stazioni
ferroviarie di vago stile staliniano e il terminal dei bus. Ecco la
villa miseria. Entro: bassi strettissimi senza luce in cui non
circolerebbe un’auto, sulla testa pendono intrichi di cavi come serpi,
gli attacchi abusivi all’energia elettrica, il bar «Mara Carla»
impregnato di uomini immobili dagli occhi duri, antri che vendono tutto
sui marciapiedi, cibo, vestiti usati, immondizia e «paco» la droga che
ti spacca il cervello come un colpo di fulmine, e branchi di cani che si
azzannano, e dalle finestre dei tuguri donne lanciano nella strada
indifferenti secchi di acqua sporca. La città si sgonfia in questa crema
lercia, unta del suo cadavere.
Il tassista che si è rifiutato di
portarmi dentro il quartiere mi ha atteso in auto, chiacchierando con
poliziotti annoiati che vigilano sull’entrata del «barrio». Ora che ci
allontaniamo respira e infuria: «Questi sono tutti clandestini, arrivano
dal Perù dal Paraguay dalla Bolivia, ladri, pezzi di merda,
spacciatori… non pagano niente! La luce l’acqua rubano tutto; e il
governo dà loro 5000 pesos al mese per ogni figlio. Con i soldi delle
mie tasse! Sono merda non uomini… li ammazzerei tutti!».