La Stampa 12.11.18
Maya e Aztechi, il gioco fatale
Quando con la palla ci si giocava la vita
di Fabio Sindici
le immagini:
1.
Bottiglia zoomorfa, cultura Nasca, 350 a.C.-550 d.C. 2. Donne morte di
parto, cultura Azteca 1428-1521. 3. Figurina di giocatore di ulama
(gioco della palla), cultura Teotihuacan, 100 a.C.- 650 d.C. 4. Figura
di divinità, cultura Veracruz, 100-900 d.C. 5. Due divinità impegnate
nel gioco della palla, cultura Azteca, 1428-1521
Per
ogni tifoso, il campo di calcio, durante i 90 minuti della partita,
diventa il centro del mondo. Per gli antichi Maya, il gioco della palla
era molto di più: un modo per mantenere l’equilibrio nel cosmo. Le
squadre si affrontavano su un lungo corridoio, delimitato da muri
decorati e dipinti. I giocatori si rilanciavano una sfera di gomma, con
un peso che variava da uno a quattro chili, colpendola con le anche e le
ginocchia. In scena, oltre alla competizione sportiva, andava il mito:
quello degli eroi gemelli che avevano sfidato al gioco i signori di
Xibalba, il mondo sotterraneo, e li avevano battuti. Le partite erano
spesso accompagnate da sacrifici umani. E la vita degli stessi giocatori
era in palio: il capitano della squadra poteva perdere letteralmente la
testa.
Nella selva di oggetti della mostra «Aztechi, Maya, Inca e
le culture dell’Antica America», al Mic (Museo Internazionale della
Ceramica) di Faenza fino al 28 aprile, c’è un giogo di pietra scolpito
che veniva indossato sui fianchi, nei rituali che precedevano le
partite. Sul campo, i pesanti gioghi erano sostituiti da cinture di
legno e pelle, che servivano da protezione e, allo stesso tempo, per
potenziare i colpi al rimbalzo. Il gioco della palla doveva assomigliare
a una danza pelvica, a un flipper sacro e letale.
«Il gioco della
palla era diffuso in tutta la Mesoamerica e ha prodotto arte,
architettura e paraphernalia straordinari», spiega Antonio Aimi, tra i
massimi esperti di culture precolombiane e curatore della mostra con
Antonio Guarnotta. «Si può citare lo sferisterio monumentale di Chichen
Itza, lungo 168 metri e largo 68. O gli affreschi di Tepantitla, nella
metropoli di Teotihuacan sull’altopiano centrale del Messico, dove per
colpire la palla si usavano i piedi o una mazza. Si conoscono molte
varianti, nel corso dei secoli e da cultura a cultura. Pur legato a
rituali, scatenava passioni profane, quali tifo e scommesse, a cui
partecipavano popolo e nobili. Si tratta del più antico gioco di squadra
del mondo: è stato scoperto un campo che risale al 1400 a.C.; l’ulama,
la versione moderna, si pratica ancora oggi».
Nelle culture
dell’America centrale, rappresentava una sorta di koiné
cultural-sportiva. Per gli Aztechi, la sfera di gomma simboleggiava il
sole e le partite propiziavano la pioggia. Una terracotta proveniente
dalle culture del golfo del Messico, in mostra a Faenza, raffigura un
giocatore in apparente riposo, prima della sfida, con le mani appoggiate
sul giogo-cintura. Come se attendesse il fischio di un arbitro.
L’esposizione
faentina è pensata per proiettare i visitatori tra i popoli delle
Americhe prima di Colombo, anche senza l’attivazione di realtà virtuale.
Basta versare dell’acqua nelle bottiglie fischianti di terracotta delle
culture andine Huari e Lambayeque per ascoltare i suoni del passato.
Per gli antichi peruviani la musica era essenziale. Tra i reperti della
civiltà del Norte Chico, che costruì città e piramidi di pietra a
partire dal 3500 a.C. ma non conosceva la ceramica, sono stati ritrovati
flauti e corni di osso. Nelle culture successive la produzione di
terracotta esplose invece in un fuoco d’artificio di stili. Dai
recipienti modellati in figure antropomorfe dei Moche, che possono
richiamare la produzione delle prime civiltà del Mediterraneo e del
Medio Oriente, ai vasi stilizzati dei Nazca che sembrano anticipare le
ceramiche di Picasso. Due culture geograficamente vicine - entrambe
nell’area andina - e contemporanee (tra il 100 e l’800 d.C.).
L’esposizione
del Mic, divisa in sezioni tematiche, porta l’occhio su accostamenti e
differenze. A volte però l’occhio può essere ingannato dall’immersione
in civiltà lontane. «Le rappresentazioni di scene sessuali esplicite
sulle ceramiche, per esempio. Possono far pensare a costumi rilassati.
Sbagliato. Quelle trovate nel corredo funerario di un bambino in una
tomba peruviana non avrebbero senso. Fanno sicuramente parte di un ciclo
mitico», ragiona Aimi.
Tutte le popolazioni precolombiane
vivevano esistenze in cui simboli e rituali accompagnavano l’agire
quotidiano. E tutte le civiltà praticavano sacrifici umani, inclusi
quelli di bambini. Ma anche le differenze sono molte. Come la mancanza
di sistemi di scrittura nell’area delle Ande, presenti invece nella
Mesoamerica. O i misteriosi quipu peruviani, cordicelle intrecciate, i
cosiddetti «nodi parlanti», che servivano per fare calcoli e forse come
sostitutivo della scrittura. Alcuni sono stati ritrovati a Caral, un
sito della cultura Norte Chico che prosperò più di quattromila anni fa.
Fenomenali le yupane, sorta di abachi che permettono una velocità di
calcolo superata solo dai computer.
«I popoli precolombiani sono
famosi come astronomi, ma la loro vera grandezza era nella matematica: i
Maya riuscirono a far coincidere il Conto Lungo, calendario che va dal 6
settembre 3114 a.C. del calendario giuliano al 21 dicembre 2012, con
eventi astronomici rilevanti ai quali ovviamente non avevano potuto
assistere», spiega Aimi. Ci sono stati contatti tra i due poli delle
culture precolombiane, l’America centrale e il Perù? «Certo, e sono
stati importanti. La scienza della metallurgia arriva in Mesoamerica nel
900 d.C., portata dai fabbri che venivano dalle città andine. Dove
avevano imparato a lavorare i metalli con grande abilità almeno due
millenni prima».
Secondo una teoria, uomini e tecniche viaggiarono
per mare, su zattere partite dalla costa dell’Ecuador. Secoli dopo,
sempre dal mare arrivarono gli europei, che dall’oro dei nativi furono
abbagliati e distrussero le civiltà americane nel loro momento di
massimo splendore.