La Stampa 12.11.18
Mary de Rachewiltz
“Mio padre Ezra Pound
in paradiso con Mozart e Ovidio”
di Andrea Colombo
È
un Ezra Pound intimo, familiare, per molti aspetti inedito quello che
emerge dalle conversazioni di Alessandro Rivali con la figlia del poeta
americano, Mary de Rachewiltz. S’intitola Ho cercato di scrivere
paradiso (Mondadori, pp. 266, € 19) ed è un dialogo serrato che non
rinuncia ad argomenti spinosi, come le simpatie politiche dell’autore
dei Cantos. È un’intervista fiume con quella che è considerata con una
certa venerazione il principale punto di riferimento del cultori di
Pound, la sempre vivace e attenta Mary, che dall’alto dei suoi 93 anni
ben portati non ha alcuna intenzione di andare in pensione: «Vivo con i
Cantos», ammette. Ma ci tiene a sottolineare che non vuole avere nulla a
che fare con CasaPound: «Penso abbiano frainteso il messaggio di mio
padre. Non voglio che il suo nome sia messo in mezzo alla politica
italiana. Con me sono stati sgarbati perché hanno avuto la faccia tosta
di dire che non sono figlia di Pound».
Rivali, lui stesso un
poeta, è rimasto folgorato sulla via di Brunnenburg, il castello
tirolese dove vive la de Rachewiltz circondata da cimeli, manoscritti,
memorabilia, libri introvabili, disegni di artisti modernissimi e
reperti etnografici antichi, ideogrammi giganti e manifesti con strani
slogan confuciani, Wunderkammer magica del fantastico mondo poundiano.
Queste
pagine dense di ricordi, nostalgie e aneddoti tracciano il ritratto di
un uomo geniale, ma attraversato da mille contraddizioni. Pound si
definiva un patriota americano, ma fu accusato di tradimento e rinchiuso
per 13 anni in un manicomio criminale statunitense per aver trasmesso
da Radio Roma in tempo di guerra. Bizzarro fan di Mussolini, paragonava
il Duce a Jefferson e non rinunciava al suo pacifismo.
La de
Rachewiltz è figlia della violinista americana Olga Rudge, e non
nasconde i rapporti difficili con la moglie ufficiale di Ezra, la
pittrice inglese Dorothy Shakespeare. Accenna anche, con delicatezza,
alle due giovani fiamme che accompagnarono Pound nei duri anni della
prigionia: la pittrice Sheri Martinelli e la bella segretaria texana
Marcella Spann. Mary da bambina venne affidata e cresciuta quasi di
nascosto da poverissimi contadini tirolesi, poi educata in un rigido
collegio fiorentino, prima di affrontare gli orrori della guerra come
crocerossina in un ospedale militare tedesco. La sua principale impresa
fu quella di tradurre, con l’aiuto del padre, i poderosi Cantos, «poema
epico» scritto sulle orme di Dante, ricco di citazioni, immagini
esotiche, richiami storici, teorie economiche, note musicali, barlumi di
saggezza confuciana. Un compito immane culminato nell’edizione dei
Meridiani del 1985.
La figlia del poeta ricorda che il Pound
economista, spesso ridicolizzato dagli addetti ai lavori, aveva alcune
intuizioni di grande attualità. «Dovrebbe lo Stato creare ricchezza
indebitandosi?» troviamo nel Canto 49, e a rileggerlo oggi sembra un
monito indirizzato ai nostri politici. Inoltre, con l’uso poetico degli
ideogrammi «aveva capito che si andava verso una civiltà dell’immagine
piuttosto che della parola», anticipando in qualche modo l’era degli
emoji. Persino l’ecologia non gli era estranea: in fondo la sua idea di
autarchia era molto simile a quella delle comuni hippy. «Per lui il
mondo ideale era quello agricolo», spiega Mary. «A suo parere ogni uomo
doveva anche essere contadino, doveva saper fare», sporcarsi le mani con
la terra e con lavori manuali.
Pound gettava all’inferno gli
speculatori: «L’usuraio e il nomade», scriveva nel 1958, «attaccano
sempre l’agricoltura. Il nomade vaga, ruba. L’usuraio impone una tassa».
«Nel suo paradiso», dice la de Rachewitz, «mise Mozart, Agassiz, lo
scienziato che studiava i pesci, e Ovidio. Non mise nessun
contemporaneo. Non ha incontrato santi sulla via».
E nella vita di
tutti i giorni? Scopriamo un Pound buongustaio e cuoco: «Amava molto i
dolci, e in particolare la cioccolata. Aveva un occhio speciale per la
frutta. Era bravissimo a preparare le omelette, che farciva con
prosciutto e formaggio». Tennista instancabile, usava la racchetta senza
stile, come un’arma pronta a colpire. Burlone, a volte si lanciava in
imitazioni spassosissime dei suoi amici prediletti, come l’«Opossum»
T.S. Eliot con le sue orecchione a sventola.
Tornato in Italia
dopo la lunga prigionia, negli Anni 60 inaugurò il tempus tacendi: «Non
lavoro più… non faccio nulla», disse a un giornalista nel 1963, «sono
diventato illetterato e analfabeta. Io semplicemente cado in letargo».
Corteggiato dall’intellighenzia che conta, invitato al festival di
Spoleto, osannato da Pasolini e Allen Ginsberg, rispondeva a
monosillabi.
Alla fine, forse, ciò che resterà è il suo grandioso
tentativo poetico di «costruire un paradiso». «Terrestre», ricorda la de
Rachewiltz, «perché diceva che era inutile pensare all’Aldilà dal
momento che nessuno ne sa niente. Voleva che la gente stesse bene su
questo pianeta, perché è bellissimo. Se solo gli uomini fossero meno
ingordi, gelosi, avari, la terra sarebbe un paradiso terrestre».