Internazionale 25.11.18
Malati d’insonnia Simon Parkin, The Guardian, Regno Unito.
La
mancanza di sonno è un disturbo molto diffuso e può rovinare la vita
delle persone. Ma la medicina l’ha ignorata a lungo, considerandola solo
un sintomo di altri problemi. Ora una nuova strategia sta dando
risultati incoraggianti
Viviamo nell’età dell’oro
dell’insonnia. Il ronzio dei lampioni la notte, i telegiornali e i
programmi d’approfondimento in onda ventiquattr’ore su ventiquattro, il
diluvio di contenuti sui social network hanno costruito un mondo ostile
al sonno. La notte non è più chiaramente separata dal giorno. La camera
da letto non è più un rifugio dall’ufficio. Le pareti materiali e
psichiche che un tempo arginavano le ondate di lavoro e d’interazione
sociale sono crollate. Come ha osservato Jonathan Crary, professore alla
Columbia university, l’insonnia è il sintomo inevitabile di un’epoca in
cui siamo incoraggiati a essere sia consumatori incessanti sia creatori
incessanti. A chi non riesce a dormire l’insonnia può sembrare
l’afflizione più solitaria del mondo. Ma si calcola che solo nel Regno
Unito un terzo degli adulti soffra di insonnia cronica, definita come
l’avere adeguate opportunità ma inadeguate capacità di dormire per un
periodo di almeno sei mesi. Gli insonni riservano diligentemente un arco
di circa sette ore al riposo. Fanno il letto. Tirano le tende. Ma
appena appoggiano l’orecchio sul cuscino sono improvvisamente svegli.
Molti hanno cercato aiuto: tra il 1993 e il 2007 il numero di britannici
che sono andati dal medico lamentando la mancanza di sonno è quasi
raddoppiato, mentre secondo i dati del servizio sanitario nazionale
quello delle prescrizioni per la melatonina, l’ormone che regola il
sonno, dal 2008 è aumentato di dieci volte. Gli effetti dell’insonnia
possono essere devastanti. Nel suo best seller Why we sleep (Perché
dormiamo), il neuroscienziato Matthew Walker ha scritto: “La decimazione
del sonno nei paesi industrializzati ha un impatto catastrofico sulla
nostra salute, sulla speranza di vita, sulla sicurezza, sulla
produttività e sull’educazione dei nostri figli”. Un rapporto del 2016
dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc)
statunitensi sostiene che l’insonnia aumenta il rischio d’infarto,
cancro e obesità. Gli insonni hanno molta più probabilità di soffrire di
depressione cronica. L’insonnia è collegata a tutti i maggiori disturbi
psichiatrici, compreso il rischio di suicidio (anche se si discute se
la mancanza di sonno sia la causa o il sintomo). Negli Stati Uniti fino a
1,2 milioni di incidenti automobilistici all’anno sono riconducibili a
guidatori stanchi.
Suggerimenti scontati
Niente di nuovo
per l’insonne, che ciondolando in piedi continua a fare ricerche su
Google e, preoccupato per l’obesità, le patologie cardiache, gli
incidenti e la povertà, viene preso da un’ansia che peggiora
ulteriormente la sua incapacità di dormire. Temendo che il suo problema
sia incurabile o che nessun dottore lo prenda sul serio, spesso non
cerca neanche un parere medico. Nel Regno Unito, dove i medici sono
riluttanti a prescrivere sonniferi per più di una settimana o due, chi
può biasimarlo? Ci sono alcune cliniche del sonno che fanno parte del
sistema sanitario nazionale ed eseguono analisi per i problemi
respiratori che a volte causano l’insonnia, ma le liste d’attesa sono
scoraggianti. Inoltre, nel sistema sanitario britannico l’interesse per
l’insonnia è marginale, tanto che un esperto l’ha definita “la
Cenerentola della medicina”. “Abbiamo pochissimi strumenti a
disposizione”, ammette Clare Aitchison, che fa il medico di base a
Norwich. “Con una visita di dieci minuti è impossibile insegnare ai
pazienti come vincere le cattive abitudini”. Avendo poche alternative, i
medici ricorrono ai consigli scontati. Fate una doccia calda prima di
andare a letto. Mangiate una banana. Spegnete il cellulare. Leggete un
libro. Masturbatevi. Questi suggerimenti spesso hanno qualche base
logica o scientifica. Ma quando l’insonne li ha provati tutti (a volte
nella stessa sera), cosa gli resta? A Londra c’è un centro che ha
ottenuto risultati significativi. Fondato nel 2009 da Hugh Selsick, uno
psichiatra sudafricano, l’Insomnia clinic ha rivoluzionato il
trattamento dei disturbi del sonno nel Regno Unito. Dal momento che è
l’unica struttura del paese specializzata nella cura dell’insonnia, ci
sono passati più di mille pazienti, con un ritmo che si è via via
intensificato raggiungendo i 120 nuovi casi al mese. Secondo i dati del
centro, l’80 per cento dei pazienti riscontra notevoli miglioramenti e
quasi la metà sostiene di essere completamente guarita. Il successo ha
garantito alla struttura una reputazione invidiabile e una lista
d’attesa all’altezza della sua fama: per un consulto si può aspettare
anche due anni. Alla base del metodo Selsick c’è un’affermazione
rivoluzionaria che ha portato a un nuovo approccio terapeutico, molto
diverso dalle storie che, in mancanza di una soluzione medica, tutti gli
insonni conoscono bene: mentre per decenni l’insonnia è stata curata
come il sintomo di un altro problema (se e quando è stata curata),
Selsick sostiene che non sia semplicemente un sintomo, ma un vero e
proprio disturbo. La sua rimane un’opinione non ortodossa, ma per i
pazienti l’approccio non si limita a correggere un errore di
classificazione: offre una soluzione che cambia la vita, una via di
uscita dalla disperazione, un modo per riuscire a dormire.
La cosa peggiore del mondo
Io
sono arrivato a odiare la mia camera da letto. Quello che dovrebbe
essere un luogo di riposo e, in un mese fortunato, di bizzarre zuffe
romantiche, è per me un campo di battaglia psicologico. Dai miei
diciott’ anni, prendere sonno è diventato un processo che s’interrompe
sempre più facilmente. Gli scricchiolii e i cigolii di assestamento
della casa bastano a strappare il mio cervello affaticato dalla sua
lenta discesa. Il rumore di un camion o di una volpe in amore possono
farmi agitare fino alla tre del mattino, l’ora in cui, come dice Ray
Bradbury, noi insonni osserviamo con sguardo cupo “la Luna che rotola,
con la sua faccia idiota”. Nella luce tormentosa della sveglia le
emozioni si acuiscono. Il minimo movimento, sbufo o sussurro della
persona che mi dorme accanto bastano a scatenare un’autentica furia,
mentre vengo di nuovo catapultato in uno stato di veglia forzata. È
questo il paradosso esasperante dell’insonne: più cerchi di dormire,
meno ci riesci. Perciò non posso fare altro che starmene sdraiato,
passando dalla furia allo sgomento ed elencando i vari modi in cui la
giornata successiva sarà rovinata. È impossibile spiegare a chi dorme
bene cosa significa non dormire. eppure scrittori e artisti ci hanno
provato. “La notte è sempre un gigante”, scriveva vladimir Nabokov a
proposito del presentimento di pericolo che provava entrando nella sua
camera da letto (un personaggio insonne di Nabokov desiderava avere un
terzo ianco dopo aver provato, senza riuscirci, ad addormentarsi sui due
che aveva). Chuck Palahniuk, il cui romanzo Fight Club è stato ispirato
dall’insonnia, doveva immaginare di cominciare un combattimento e
perderlo per prendere sonno. Francis Scott Fitzgerald, che non era certo
uno scrittore incline all’iperbole, deiniva l’insonnia con cupo
infantilismo come “la cosa peggiore del mondo”. Negli anni ho messo a
punto rituali e sortilegi: deposito solennemente il telefono in un’altra
stanza, faccio una doccia ustionante, bevo una tisana a base di banana.
Quando il terrore di non dormire si accumula per settimane e mesi, si
consolidano comportamenti ossessivi e quasi superstiziosi. Vincent van
Gogh versava un liquido simile alla trementina sul materasso, un
procedimento che doveva favorire la magia del sonno. W.C. Fields
sosteneva di potersi addormentare solo con il rumore della pioggia, e la
sua devota amante Carlotta Monti dal giardino spruzzava acqua con il
tubo per innaffiare contro la finestra della camera da letto finché lui
prendeva sonno (oggi esistono diverse applicazioni che offrono suoni
rilassanti dello stesso genere). Queste stranezze forse hanno permesso
al resto del mondo di considerare l’insonnia un’afflizione di poco
conto. Così, oltre a sentirsi deriso, l’insonne arriva a sviluppare un
senso di vergogna. Dormire è la cosa più naturale del mondo; non
riuscirci ti rende in un certo senso innaturale. Perciò è stato con le
occhiaie e un senso di angoscia che mi sono infilato nel portone del
Royal London hospital for integrated medicine di Great ormon street, a
Londra, per conoscere il grande maestro degli insonni. Hugh Selsick non
può esserne completamente certo, ma pensa di aver conosciuto più insonni
di chiunque altro nel Regno Unito. eppure, quando entra nella sala
d’aspetto della sua clinica del sonno, non sa dire chi delle persone in
attesa sia lì per lui. La maggior parte degli insonni di lungo periodo
non mostra nessuno dei segnali rivelatori della stanchezza. È una
sofferenza privata, nascosta. Selsick attribuisce una straordinaria
importanza al primo incontro con un paziente. Sa che a volte le persone
che si rivolgono a lui sofrono d’insonnia da decenni, e hanno consultato
vari medici di famiglia ricevendo solo il genere di consigli che si
potrebbero dare a un bambino nervoso: prima di andare a letto fai un
bagno caldo o bevi un bicchiere di latte. Per questo, quando si siede di
fronte al paziente, il primo obiettivo di Selsick è semplicemente
fargli capire che qualcuno vuole prenderlo sul serio.
Legame di fiducia
“Per
anni nessuno li ha capiti”, mi dice nel suo piccolo studio. “Poi a un
tratto qualcuno gli dice: ‘Sì, mi rendo conto che è un problema e, sì,
possiamo curarlo’”. Alcuni pazienti scoppiano a piangere. Altri si
prendono la testa tra le mani, sconvolti e sollevati. A prescindere
dalla loro reazione, Selsick, che parla con garbo, ha gli occhi gentili
ed è pelato come una ghianda, spiega che in quel momento si stabilisce
un legame di fiducia più forte di qualunque altro lui abbia mai
sperimentato nella sua carriera di psichiatra. Nel nostro primo incontro
ho in parte sentito questa intimità emotiva. Per la vergogna, o il
timore che lui pensasse che stavo cercando di saltare la lista d’attesa,
non ho accennato ai miei problemi di sonno. I suoi modi gentili e il
suo chiaro riconoscimento dell’orrore pervasivo dell’insonnia sono stati
sia consolanti sia elettrizzanti. Ma la fama di questa clinica del
sonno non si basa solo sulle buone maniere. Selsick ha messo a punto un
programma di cinque settimane che unisce la terapia cognitivo
comportamentale – usata per spezzare l’associazione negativa con la
camera da letto e con l’intera faccenda del prendere sonno – con quello
che lui definisce “addestramento all’efficienza del sonno”, cioè una
riduzione calibrata della quantità di tempo che il paziente trascorre a
letto. Oggi Selsick e un altro consulente gestiscono la struttura con il
sostegno di un medico di base un giorno alla settimana e di uno
specialista in psichiatria aiutato da un tirocinante. I pazienti vengono
da tutto il paese e circa ottanta di loro frequentano i corsi
settimanali. “Continuiamo a espanderci, ma fatichiamo a soddisfare la
domanda”, spiega Selsick. Come mai un istituto di Londra riesce a curare
con successo una malattia che la medicina non è riuscita ad affrontare
adeguatamente? La risposta sembra radicata nella convinzione di Selsick
che l’insonnia non sia il sintomo di un altro disturbo più importante.
Per decenni i dottori hanno trattato il disturbo primario – diabete,
patologie cardiovascolari, problemi respiratori – aspettandosi che
risolverlo avrebbe aiutato il paziente a dormire. Ma questo succedeva
raramente perché, come dice uno studio, l’insonnia è sostenuta da
“comportamenti, cognizioni e associazioni che i pazienti adottano nel
tentativo di superarla ma che si rivelano controproducenti”. Selsick è
convinto che solo affrontando l’insonnia come un disturbo psichiatrico,
con livelli di gravità che vanno da leggero a cronico, il servizio
sanitario possa sviluppare e prescrivere trattamenti appropriati. È una
visione nuova, motivata non solo dalla curiosità scientifica ma anche
dall’esperienza personale. Hugh Selsick diventò insonne nel 1993, quando
aveva 19 anni e si trovava in un kibbutz nel deserto, in Israele. Non
era solo il caldo a provocare la mancanza di sonno, era anche la routine
costruita intorno al caldo. Con temperature che raggiungono i 40 gradi,
gli abitanti del deserto in genere dormono dalle 11 di sera alle 3 del
mattino, poi si mettono a lavorare e continuano inché è abbastanza
fresco. All’ora di pranzo, quando il caldo è al culmine, fanno un
sonnellino. era un’abitudine a cui la mente di Selsick si opponeva: il
pomeriggio restava a letto sveglio, sfinito ma vigile. Quando tornò in
Sudafrica per cominciare il primo anno di medicina all’università di
Johannesburg, l’insonnia si aggravò. “È quasi impossibile descrivere
com’è a qualcuno che non l’ha mai avuta”, mi dice. Un giorno nel campus
vide un annuncio in cui si cercavano volontari per uno studio sul sonno.
Selsick si presentò con la speranza di capire cosa gli stava
succedendo. Lo studio puntava ad accertare l’eventuale effetto
dell’apporto calorico sulla capacità delle persone di addormentarsi.
Ogni esperimento durava quattro giorni, durante i quali Selsick e gli
altri volontari trascorrevano la notte nella clinica del sonno con la
testa attaccata a un monitor e un sensore inserito nel retto per
controllare la temperatura corporea. Dovevano seguire una dieta
particolare: una settimana digiunavano per ventiquattr’ore, e quella
successiva triplicavano il loro apporto calorico abituale. Poi venivano
monitorati per vedere l’effetto dell’alimentazione sul sonno. “Risultò
che non faceva nessuna differenza”, ricorda. Scarso interesse Ispirato
dal professore che conduceva lo studio, Selsick cominciò un dottorato in
fisiologia e si mise a studiare le funzioni del sonno Rem (una fase che
si veriica sporadicamente nel corso della notte, caratterizzata dal
movimento oculare rapido); poi svolse ricerche sull’impatto del
riscaldamento sulla qualità del sonno. La temperatura ideale per dormire
è più bassa di quanto potreste immaginare: 18 gradi. È uno dei motivi
per cui l’insonnia ha un’incidenza molto maggiore nelle case di riposo,
dove il riscaldamento attivo giorno e notte impedisce al corpo umano di
raffreddarsi per prepararsi al sonno. All’epoca affidarsi alla
psicoterapia per curare l’insonnia non era comune. Secondo Selsick i
terapeuti hanno cominciato a seguire corsi di formazione per applicare i
risultati delle ricerche al trattamento dell’insonnia solo nel 2005.
Alla fine degli anni novanta, quando arrivò a Londra per specializzarsi
al Royal college of psychiatrists, Selsick non soffriva più d’insonnia.
eppure rimase stupito nel constatare quanto poco interesse questo
disturbo suscitasse negli ambienti della psichiatria. “Prova a chiedere a
un paziente con un problema psichiatrico cosa lo preoccupa”, dice. “Il
sonno è quasi sempre al primo posto”. Selsick avviò una mailing list per
tutti gli psichiatri interessati al sonno e organizzò una conferenza in
cui i partecipanti poterono condividere le loro scoperte. Il gruppo
attirò l’attenzione della supervisora di Selsick, Charlotte Feinmann,
una psichiatra che lavorava come consulente al Royal London hospital.
Feinmann riconobbe il nome del suo specializzando e gli mandò un
messaggio chiedendogli se era interessato a fondare un centro per il
sonno dentro l’ospedale. “In quel periodo nessuno curava l’insonnia”,
ricorda Selsick. “Le unità di salute mentale non accettavano pazienti
che ne erano afetti; i centri sui disturbi del sonno non la trattavano,
anche perché erano gestiti da specialisti dell’apparato respiratorio
interessati alle apnee notturne, che non avevano le competenze
necessarie”. Un paziente che non soffriva di apnea notturna veniva
“sballottato qua e là” dice Feinmann. I medici erano consapevoli del
problema, spiega Selsick, ma sapevano che se avessero accettato di
curare l’insonnia sarebbero stati inondati di richieste. Selsick accettò
la proposta di Feinmann, e nel novembre del 2009 i primi due pazienti
entrarono nella struttura. Cominciò con un pomeriggio alla settimana.
“Non avevo idea di cosa stessi facendo”, ricorda. In effetti, nei primi
mesi le visite di Selsick offrivano poco più dei soliti consigli per un
buon riposo notturno, per esempio limitare il consumo di cafè (“non
efficace”), e una generica modifica al dosaggio dei medicinali che il
paziente stava già assumendo (“non molto efficace”). Poi, qualche mese
dopo, Selsick cominciò a esplorare la terapia cognitivo comportamentale.
Per chi soffre di insonnia, la camera da letto è talmente associata
all’incapacità di addormentarsi che la semplice azione di entrarci lo
risveglia, proprio come entrare nello studio di un dentista rende
immediatamente ansiosi. La terapia cognitivo comportamentale, che
all’epoca stava cominciando a essere usata in Nordamerica per trattare
l’insonnia, serve a cambiare questa associazione automatica per
sostituirla con camera da letto e sonno. “I nostri risultati
migliorarono enormemente”, ricorda il medico. Non tutti credevano nel
nuovo programma. Il Royal London hospital in passato era noto come Royal
London homeopathic hospital, un discusso centro che offriva terapie
alternative. Il farmacologo David Colquhoun una volta ha definito questo
ospedale “un grande imbarazzo nazionale”. Secondo Selsick questa
reputazione ha spinto alcuni medici a non mandargli i loro pazienti
insonni. “Quando spieghiamo che il nostro è un servizio di tipo
psichiatrico che pratica una medicina basata su prove scientifiche,
queste riserve di solito svaniscono”, spiega. Chi riesce a superare il
portone viene sottoposto a una valutazione iniziale per capire cosa, tra
una miriade di possibilità, gli provochi l’insonnia. Selsick controlla
l’eventuale presenza di disturbi del sonno, come la cosiddetta sindrome
della gamba senza riposo, che colpisce dal 2 al 10 per cento delle
persone, le apnee notturne o altri problemi respiratori. Ma questo è
solo il primo passo. Una volta escluse queste cause, Selsick fa al
paziente un lungo elenco di domande, sia pratiche (“A che ora va a
letto?”, “Quanto tempo ci mette ad addormentarsi?”) sia esplorative
(“Cosa stava succedendo nella sua vita quando ha cominciato a sofrire di
insonnia?”). Idealmente, le risposte del paziente tracciano uno schema
che può portare alla diagnosi. A volte si tratta di narcolessia,
epilessia notturna o sonnambulismo. In altri casi si tratta
semplicemente di insonnia psichiatrica.
Il mito delle otto ore
Quando
aveva 13 anni, Zehavah Handler prese una penna e scarabocchiò un punto
sulla parete della sua camera. Sdraiata sul letto, riusciva appena a
distinguere il segno alla luce biancastra della lampada. e così, mentre
il resto della famiglia andava a letto, lei s’imponeva di fissare il
segno il più a lungo possibile senza battere le palpebre. Il gioco
diventò un rituale e alla fine lei si convinse che quello era l’unico
modo per prendere sonno, anche se spesso faceva le quattro del mattino
prima di addormentarsi. Da adulta Handler, che oggi ha 40 anni e quattro
figli, continuava a soffrire d’insonnia. Si alzava alle sette per
accompagnare i figli a scuola e poi si sdraiava sul tappeto della camera
da letto, con il cuore che palpitava per la stanchezza, e fissava il
soffitto fino a metà pomeriggio, quando arrivava il momento di andare a
riprendere i figli. Dopo la cena e il bagno dei bambini, se ne andava a
letto, dove restava sdraiata per dodici ore riuscendo a dormire solo
un’oretta prima che spuntasse l’alba e ricominciasse la sua spossante
routine. Quando ha cominciato ad avvertire irritabilità e perdita di
memoria, Handler è andata dal medico di famiglia, e dopo un’attesa di
diciotto mesi è entrata nello studio di Selsick. “era la prima volta che
incontravo un professionista veramente comprensivo e disposto a
riconoscere il problema”. Handler è stata ricoverata nella struttura per
monitorare l’eventuale presenza di apnee notturne. Ha passato la prima
notte in un nido di ili, come un androide che ricarica le batterie, ed è
rimasta sveglia chiedendosi se tutte quelle macchine avrebbero capito
che stava solo fingendo di dormire. Ma i risultati erano chiari: non
aveva problemi respiratori né spasmi muscolari. Selsick ha concluso che
Handler era una dei tanti pazienti per cui l’insonnia non è un sintomo
di qualche altro disturbo, ma il disturbo. Nel maggio del 2016 Handler è
stata inserita nel corso di cinque settimane insieme ad altri nove
pazienti ansiosi. Gli incontri si tenevano in una stanzetta nel cuore
dell’ospedale. Handler ricorda che nessuno parlava e pochi cercavano il
contatto visivo, paralizzati dalla vergogna segreta dell’insonne.
“eravamo tutti molto a disagio”, ricorda. “Ci chiedevamo come avrebbe
funzionato e quanto avremmo dovuto rivelare di noi stessi”. “La prima
cosa che faccio”, mi dice Selsick, “è sfatare il mito che ci sia un
certo numero di ore di sonno necessarie. C’è questa convinzione che si
debba dormire otto ore a notte. Non è vero”. Proprio come cambiano le
misure delle scarpe, dice, cambiano le ore di sonno a seconda
dell’individuo. “A certe persone bastano sei ore e mezzo, ad altre ne
servono nove e mezzo e questo non signiica che uno sia meno normale di
un altro.” Per capire di quanto sonno hanno bisogno, a tutti i pazienti
del corso viene chiesto di tenere un diario, registrando a che ora vanno
a letto, a che ora si alzano, quanto tempo ci mettono ad addormentarsi e
quante volte si sono svegliati durante la notte. Poi Selsick demolisce
la loro idea che debbano andare a letto sempre a una certa ora. In
genere gli insonni tendono ad andare a letto prima o a rimanerci più a
lungo per aumentare la possibilità di dormire. Sembra un ragionamento
logico – se non dormo abbastanza, passo più tempo a letto – ma l’ansia
finisce invariabilmente con l’aggravare il problema. Invece i pazienti
di Selsick devono fissare un orario rigido per la sveglia. “Gli diciamo
di alzarsi sempre alla stessa ora ogni giorno, indipendentemente da
quanto hanno dormito, da che ora sono andati a letto e da quello che
devono fare quel giorno”. Non devono assolutamente indugiare a letto o
fare dei pisolini (la gomma da masticare, aggiunge Selsick, aiuta a non
appisolarsi). La teoria è che se ti alzi alla stessa ora ogni mattina
cominci ad avere sonno alla stessa ora ogni sera, e con il passare delle
settimane diventerà una cosa naturale. “Riduciamo il tempo che passano a
letto in modo che il sonno diventi più profondo e compatto”, spiega
Selsick. Un paziente potrebbe cominciare con l’obiettivo di sei ore di
sonno: se deve alzarsi alle 7 per andare al lavoro, signiica che ha il
divieto assoluto di mettere piede in camera da letto prima dell’una di
notte. Quando un paziente si accorge di dormire il 90 per cento del
tempo che passa a letto può anticipare l’ora in cui va a dormire di un
quarto d’ora alla volta. Questa tecnica comportamentale è chiamata
efficienza del sonno, e malgrado la sua disarmante semplicità i pazienti
riconoscono risultati stupefacenti. “È stata molto dura”, ha commentato
Laurell Turner, una studente di medicina che ha completato il programma
nel 2016. “Alla fine del corso ero esausta. Ma nonostante il mio
scetticismo, l’effetto è stato immediato.” Quando gli insonni vanno a
letto, spesso temono di dover restare lì sdraiati, e questo li rende
ancora più frustrati e irritati. Il semplice fatto di andare a dormire
li tiene svegli. La camera da letto diventa l’elemento scatenante della
veglia e perino della paura. Per combattere il fenomeno, Selsick
raccomanda ai pazienti di lasciare la stanza dopo un quarto d’ora se non
riescono ad addormentarsi. A parte il sesso e il sonno, in camera da
letto è vietata ogni attività. I pazienti devono perfino cambiarsi in
un’altra stanza. “Prima andavo a dormire nel pomeriggio e restavo in
camera per dodici ore”, racconta Handler. “Facevo lì tutte le mie
telefonate, lavoravo al computer, mangiavo e guardavo la tv a letto. Ora
non più: saluto la mia stanza alle 7.20 del mattino e non la rivedo ino
all’una e mezza di notte, quando vado a dormire”. Questa tecnica può
sembrare illogica: le prime notti, quando i pazienti si trascinano
avanti e indietro tra soggiorno e camera da letto ogni quindici minuti,
spesso dormono peggio. “È incredibilmente difficile”, dice Handler. Ma
dopo circa cinque settimane, l’associazione negativa tra camera da letto
e mancanza di sonno è spezzata e sostituita da connessioni nuove e
positive. Selsick sostiene che usando queste tecniche insieme alla
riduzione di stimolanti come la cafeina, otto pazienti su dieci hanno
dei miglioramenti, e la metà va avanti ino alla “remissione completa”.
Una pillola da ingoiare
Gli
studi confermano che la terapia cognitivo comportamentale a lungo
termine è il trattamento più efficace per l’insonnia. Ma perché sia
efficace, occorre che il paziente instauri una routine e la mantenga.
Per i pazienti che cambiano regolarmente fuso orario, che dormono spesso
in albergo o non possono crearsi un rituale notturno per motivi di
lavoro, il piano di Selsick è un obiettivo impossibile. Questi pazienti
non hanno bisogno di un orario a cui attenersi, ma di una pillola da
ingoiare. Può sorprendere che a dirlo sia uno strenuo sostenitore della
terapia cognitivo comportamentale per la cura dell’insonnia. eppure
Selsick è convinto che nel Regno Unito i sonniferi andrebbero prescritti
molto più spesso. “Il sistema sanitario britannico è incredibilmente
conservatore in materia di farmaci per il sonno”, commenta. Buona parte
delle preoccupazioni si concentrano sulla dipendenza da benzodiazepine.
Secondo il neuroscienziato Matthiew Walker, i sonniferi non garantiscono
un “sonno naturale”, possono “nuocere alla salute” e “accrescere il
rischio di malattie potenzialmente mortali”. “Questi farmaci, come
qualunque altro, non sono privi di rischi”, dice Selsick. “Ma anche
rinunciare a curare l’insonnia comporta dei rischi”. Selsick ha
conosciuto pazienti che a causa dell’insonnia hanno dovuto lasciare il
lavoro e rinunciare alla carriera. “Ho avuto pazienti che avevano
distrutto i loro matrimoni, che avevano perso la custodia dei figli
perché erano così stanchi che non riuscivano a prendersene cura
adeguatamente”. Per questo la politica di non prescrivere farmaci per il
sonno, afferma, è un disservizio per i pazienti. “Certo, prima di
ricorrere ai farmaci bisognerebbe tentare la terapia cognitivo
comportamentale, ma in molti luoghi non è prevista, e poi non ha effetto
su tutti i pazienti.”
Quattromila ricette
Ogni epidemia
garantisce opportunità commerciali. Nel 2006 l’azienda produttrice del
sonnifero Ambien, che non contiene benzodiazepine, calcolò che il
farmaco era stato assunto 12 miliardi di volte in tutto il mondo e aveva
prodotto solo negli Stati Uniti due miliardi di dollari di ricavi
all’anno. Le compagnie farmaceutiche che sperano di emularne il successo
sono impegnate in una gara per mettere a punto un nuovo sonnifero che
non abbia efetti collaterali. Nel 1998 la scoperta dell’oressina, un
ormone che agisce sostanzialmente come una sveglia per il cervello,
aveva trasformato la lunga marcia per sviluppare un nuovo tipo di
sonnifero in una vera e propria corsa. Da quindici anni Jean-Paul Clozel
– un cardiologo diventato farmacologo che nel 1997 fondò insieme alla
moglie Martine l’azienda biotecnologica svizzera Actelion – lavora a
quello che sostiene essere un sonnifero privo di controindicazioni: “La
maggior parte dei sonniferi sono benzodiazepine e inducono quello che
sembra sonno ma in realtà è più vicino a una sedazione anestetica” (le
benzodiazepine sono usate spesso dagli anestesisti). La pillola di
Clozel, che lui spera di lanciare sul mercato nel 2020, e che va sotto
il nome generico di Nemorexant, agisce in modo diverso, limitando la
produzione di oressina, l’ormone che tiene svegli gli insonni o li fa
svegliare alla minima occasione. Il Nemorexant non è il primo sonnifero a
prendere di mira l’oressina. Dall’agosto del 2014, oltre un decennio
dopo l’inizio degli studi per sviluppare il farmaco, i medici
statunitensi possono prescrivere il Belsomra, conosciuto anche come
Suvorexant, che agisce sullo stesso ormone. A un mese dal suo lancio sul
mercato, si registrava una media di quattromila ricette alla settimana.
Ma il farmaco non è privo di rischi. Un rapporto della Food and drug
administration sulla sicurezza del Belsomra, che ha una stretta
relazione con il farmaco di Clozel, riferiva di una paziente che “si
svegliava più volte sentendosi incapace di muovere gambe e braccia e
senza riuscire a parlare”. Ciò nonostante, in un paese che sembra
lontano anni luce dall’avviare programmi nazionali di terapia cognitivo
comportamentale per curare l’insonnia, Selsick è favorevole al
Nemorexant. “Dal momento che agisce seguendo un percorso completamente
diverso da quello di altri ipnotici, sarebbe bello averlo per i pazienti
che non rispondono ai trattamenti standard”. Nel frattempo il Regno
Unito rimane poco preparato e, a quanto sembra, poco disposto ad
afrontare la crescente epidemia di insonnia. Noi vittime di questa
Cenerentola della medicina, dolorosamente ignorata, ci aggrappiamo a
qualunque cosa sostenga di essere una cura e restiamo impantanati nelle
pratiche popolari, e in consigli coloriti ma contraddittori. Nessun
sonnifero può essere usato a lungo, e a parte la struttura di Selsick
solo una manciata di centri privati ofrono la terapia cognitivo
comportamentale per trattare l’insonnia. Il progetto di aprire un centro
mirato presso il Guy’s hospital di Londra è stato accantonato per il
timore che le richieste fossero eccessive. “Temevano che la domanda
sarebbe stata così alta da non riuscire a far fronte alle liste
d’attesa, e questo avrebbe danneggiato economicamente l’ospedale”,
spiega Selsick. La conseguenza perversa è che più cresce la domanda di
trattamenti per l’insonnia, più diminuisce la probabilità che sia
soddisfatta. A maggio, per allentare la pressione sul suo centro
sommerso di richieste, Selsick ha autorizzato il primo programma di
formazione per medici di famiglia, in modo che siano loro a gestire, nei
loro ambulatori locali, sessioni di terapia cognitivo comportamentale
simili a quelle che si tengono nella sua struttura, almeno per i casi
meno gravi. Selsick vorrebbe organizzare tre corsi, aperti anche a
infermieri, psicologi, terapisti occupazionali ed esperti di igiene
mentale, due volte l’anno, e accrescere così la capacità del sistema
sanitario di affrontare il problema dell’insonnia su scala nazionale.
Quella di Selsick è l’unica struttura sanitaria a vedere un costante
lusso di pazienti. e la costanza, dice il medico, è la chiave di tutto.
“La terapia non è niente di trascendentale”, dice. “Davvero. Il nostro
lavoro principale, come terapeuti, non è tanto dire ai pazienti cosa
devono fare – per questo basterebbe distribuire un opuscolo – ma
convincerli a tenere duro abbastanza a lungo perché possa funzionare”.
In sintonia con l’universo Per i pazienti che completano con successo il
programma di Selsick, riuscire a riposare bene signiica trasformare
radicalmente la propria vita. Ricominciare a dormire signiica sentirsi
di nuovo in sintonia con l’universo e con i suoi impercettibili ritmi.
“Sono più contenta”, mi ha detto Handler della sua nuova vita
post-insonnia. “I miei rapporti interpersonali sono migliorati. Sono più
paziente. Non vivo più in una sorta di nebbia perenne. Sono
disponibile”. C’è qualche ricaduta, ammette Handler, di solito provocata
da un cambiamento di routine – una vacanza, Natale – ma mettendo la
sveglia all’ora stabilita, lasciando la camera da letto dopo un quarto
d’ora se non riesce a prendere sonno e mettendo in atto tutti i rituali
che ha imparato alla clinica del sonno, basta qualche notte per
ripristinare il ritmo. Gli effetti sulla sua vita sono stati così
evidenti che Handler ha deciso di chiudere la sua agenzia turistica e,
con l’appoggio di Selsick, si è formata per diventare una consulente del
sonno. Aver imparato a dormire di nuovo l’ha talmente cambiata che
vuole dedicare la sua vita ad aiutare gli altri a superare lo stesso
problema. Prevede di aprire il suo centro contro l’insonnia l’anno
prossimo.