Internazionale 25.11.18
Visti dagli altri
Non dipende dall’euro se l’economia italiana è in difficoltà
Di Valentina Romei, Financial Times, Regno Unito
Perché
il paese non cresce? Il quotidiano britannico lo ha chiesto ad alcuni
economisti italiani. Le risposte e i dati dimostrano che i problemi
dell’Italia sono strutturali
Perché l’economia
italiana è così malaticcia? E, soprattutto, il nuovo governo ha trovato
la cura? Mentre Roma si scontra con Bruxelles sulla legge di bilancio,
respinta dalla Commissione europea perché infrange le regole dell’Unione
europea, il Financial Times ha consultato alcuni importanti economisti
italiani, professori universitari e industriali per capire quali sono le
cause della lentezza della crescita del paese. Le risposte degli
esperti, su temi che vanno dalla cultura industriale al debito pubblico,
non sembrano confermare l’ipotesi che il piano del governo di portare
il deficit al 2,4 per cento del pil possa favorire la ripresa dopo anni
di risultati deludenti. La sida che deve affrontare l’esecutivo guidato
da Giuseppe Conte è far uscire l’Italia dalla trappola della crescita
lenta o inesistente in cui è caduta all’inizio di questo secolo. La
produzione economica rimane ancora il 5 per cento più bassa rispetto al
picco registrato nel 2008, prima della crisi. Oggi l’Italia e la Grecia
sono gli unici paesi dell’Unione europea che non sono riusciti a tornare
ai livelli di dieci anni fa. Ma i problemi di Roma sono ancora più
seri: il suo pil pro capite, al netto dell’inflazione, è inferiore a
quello del 2000.
Produttività
Questi dati evidenziano la
mediocre performance economica del paese dall’introduzione dell’euro,
negli anni tra il 1999 e il 2002. Gli euroscettici, alcuni vicini alla
coalizione di governo, spesso attribuiscono la colpa dei mali
dell’economia italiana alla moneta unica, sostenendo che una
svalutazione potrebbe dare nuovo impulso alle esportazioni. Ma tra gli
economisti è opinione diffusa che i problemi dell’Italia siano dovuti
alle carenze strutturali, non all’euro. Quindi perché l’economia va così
male? Ecco le risposte degli esperti che abbiamo consultato, partendo
dalle possibili cause citate più spesso. Il modello economico italiano
si basa soprattutto su aziende a conduzione familiare che in genere sono
più piccole e meno produttive delle loro equivalenti in altri paesi.
Questo problema è andato peggiorando negli ultimi decenni. “Negli anni
settanta e nei primi anni ottanta il modello industriale italiano basato
sulle piccole e medie imprese trainava la crescita”, dice Silvia
Ardagna, economista della Goldman Sachs. Ma molte di quelle aziende “non
hanno investito in ricerca e sviluppo e non hanno avuto le capacità
manageriali e il capitale umano necessari per diventare competitive su
scala globale”. Secondo l’osservatorio della Commissione europea sulle
piccole e medie imprese, il 95 per cento delle aziende italiane ha meno
di dieci dipendenti e, dai dati dell’Organizzazione per la cooperazione e
lo sviluppo economico (Ocse), emerge che queste imprese hanno livelli
di produttività del lavoro più bassi delle loro equivalenti di altri
paesi. Nel frattempo, le aziende più grandi non si rinnovano, a causa di
una gestione familiare tradizionale restia ai cambiamenti o perché
hanno difficoltà a ottenere prestiti. Dall’ultimo studio dell’Ocse
sull’economia italiana risulta che, contrariamente a quanto è stato
rilevato nella maggior parte degli altri stati dell’Unione europea, la
produttività sta diminuendo più rapidamente. Nonostante l’iniziativa
lanciata dal governo nel 2016 per incoraggiare le aziende ad aumentare
la loro presenza su internet, meno di un’impresa su dieci, escluse
quelle finanziarie, vende online. Eurostat, l’ufficio statistico
dell’Unione europea, colloca l’Italia al terzultimo posto nell’Unione in
questo settore: fanno peggio solo Romania e Bulgaria. La legge di
bilancio proposta dal governo non stanzia risorse sufficienti per
affrontare questi problemi. Per il 2019 non prevede alcun aumento dei
fondi per aiutare le aziende a entrare nell’economia digitale e solo per
il 2020 è previsto un piccolo incentivo. Gli esperti mettono le carenze
del sistema dell’istruzione al secondo posto dopo quelle della cultura
industriale e della modernizzazione. “Il sistema educativo altamente
centralizzato e sindacalizzato dà scarsi risultati in termini di
competenze reali”, sostiene Massimo Bassetti, economista di
FocusEconomics.
Istruzione
Meno di un italiano su tre fra i
25 e i 34 anni ha una laurea. Una percentuale molto al di sotto del 44
per cento della media Ocse. E secondo il rapporto Pisa (Program for
international student assessment) dell’Ocse, i quindicenni italiani
hanno competenze inferiori alla maggior parte dei loro coetanei, in
matematica, scienze e capacità di lettura. L’Italia ha anche uno dei più
alti tassi di abbandono scolastico dell’Ocse, e circa un italiano su
quattro tra i 15 e i 34 anni non lavora né studia: la percentuale più
alta dell’Unione europea. La legge di bilancio italiana prevede riforme
che mirano a estendere la scuola materna, a modificare il sistema di
reclutamento degli insegnanti e a ridurre l’abbandono scolastico. Ma per
queste misure non è previsto un significativo aumento dei
finanziamenti. Il punteggio dell’Italia è piuttosto basso anche per
quanto riguarda l’efficienza dello stato e dei servizi pubblici. Secondo
l’indice della Banca mondiale sulla facilità di avviare o sviluppare
un’attività imprenditoriale, l’Italia è al 111° posto su 190 nazioni nel
mondo per la capacità d’imporre il rispetto dei contratti. La sua
burocrazia per risolvere le insolvenze, pagare le tasse e ottenere
permessi a edificare è abbastanza farraginosa, e il sistema di giustizia
civile è al penultimo posto tra i paesi ad alto reddito presi in
considerazione dal world justice project. “In Italia ci vuole molto più
tempo che negli altri paesi industrializzati per concludere un processo
civile o penale”, e questo influisce sul contesto imprenditoriale, dice
l’economista dell’Ocse Mauro Pisu. “L’inefficienza della pubblica
amministrazione costituisce un ulteriore costo per le aziende, frena gli
investimenti e la crescita”, sostiene Ardagna. Per Bassetti, “il
complesso sistema fiscale italiano, il bizantinismo delle sue norme e
l’inefficienza della pubblica amministrazione” costituiscono un
ostacolo. Inoltre secondo Andrea Colli, docente di storia economica
all’università Bocconi di Milano, questi problemi impediscono alle
aziende straniere d’investire in Italia. L’economia italiana è più
grande di quella spagnola ma, secondo il database fDi Markets, dal 2003 a
oggi ha attirato meno della metà dei nuovi investimenti stranieri.
Nella sua lettera a Bruxelles il ministro dell’economia Giovanni Tria ha
scritto che le riforme strutturali previste dalla legge di bilancio,
compresa quella del codice civile, “stimoleranno la crescita economica
garantendo la sostenibilità a lungo termine delle inanze pubbliche
italiane”. La coalizione di governo italiana sostiene che il suo piano
di spesa contribuirà ad alimentare la crescita, ma molti degli esperti
da noi consultati dicono il contrario: il debito alto frena già la
crescita obbligando il governo a usare fondi per contenerlo. Fondi che
diversamente potrebbero essere destinati a investimenti più produttivi.
“Il debito pubblico italiano limita da tempo le risorse investite nel
settore produttivo”, dice Ardagna. Interessi costosi L’Italia, che è al
secondo posto nel l’Unione europea per rapporto debito-pil, spende il
3,7 per cento del suo prodotto interno lordo per pagare gli interessi
sul debito, il doppio della media dell’Unione. Secondo le ultime
previsioni della Commissione europea, a causa del maggiore rendimento
dei titoli di stato e dell’aumento dei tassi d’interesse, entro il 2020
l’Italia arriverà a spendere il 3,9 per cento del suo pil. “Il debito
dell’Italia assorbe una grande quantità di risorse economiche riducendo i
fondi per le infrastrutture e per gli investimenti industriali”, spiega
Bassetti. Anche se la bozza della legge di bilancio prevede che
l’Italia nel 2019 dedicherà un altro 0,2 per cento del pil agli
investimenti pubblici e uno 0,3 nel 2020, gli analisti non si aspettano
un grande miglioramento rispetto alle debolezze strutturali. “La nostra
idea è che il governo non garantirà all’economia le riforme per
aumentare la produttività”, dice Nicola Nobile di Oxford economics.