lunedì 26 novembre 2018

Internazionale 25.11.18
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Non dipende dall’euro se l’economia italiana è in difficoltà
Di Valentina Romei, Financial Times, Regno Unito
Perché il paese non cresce? Il quotidiano britannico lo ha chiesto ad alcuni economisti italiani. Le risposte e i dati dimostrano che i problemi dell’Italia sono strutturali


Perché l’economia italiana è così malaticcia? E, soprattutto, il nuovo governo ha trovato la cura? Mentre Roma si scontra con Bruxelles sulla legge di bilancio, respinta dalla Commissione europea perché infrange le regole dell’Unione europea, il Financial Times ha consultato alcuni importanti economisti italiani, professori universitari e industriali per capire quali sono le cause della lentezza della crescita del paese. Le risposte degli esperti, su temi che vanno dalla cultura industriale al debito pubblico, non sembrano confermare l’ipotesi che il piano del governo di portare il deficit al 2,4 per cento del pil possa favorire la ripresa dopo anni di risultati deludenti. La sida che deve affrontare l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte è far uscire l’Italia dalla trappola della crescita lenta o inesistente in cui è caduta all’inizio di questo secolo. La produzione economica rimane ancora il 5 per cento più bassa rispetto al picco registrato nel 2008, prima della crisi. Oggi l’Italia e la Grecia sono gli unici paesi dell’Unione europea che non sono riusciti a tornare ai livelli di dieci anni fa. Ma i problemi di Roma sono ancora più seri: il suo pil pro capite, al netto dell’inflazione, è inferiore a quello del 2000.
Produttività
Questi dati evidenziano la mediocre performance economica del paese dall’introduzione dell’euro, negli anni tra il 1999 e il 2002. Gli euroscettici, alcuni vicini alla coalizione di governo, spesso attribuiscono la colpa dei mali dell’economia italiana alla moneta unica, sostenendo che una svalutazione potrebbe dare nuovo impulso alle esportazioni. Ma tra gli economisti è opinione diffusa che i problemi dell’Italia siano dovuti alle carenze strutturali, non all’euro. Quindi perché l’economia va così male? Ecco le risposte degli esperti che abbiamo consultato, partendo dalle possibili cause citate più spesso. Il modello economico italiano si basa soprattutto su aziende a conduzione familiare che in genere sono più piccole e meno produttive delle loro equivalenti in altri paesi. Questo problema è andato peggiorando negli ultimi decenni. “Negli anni settanta e nei primi anni ottanta il modello industriale italiano basato sulle piccole e medie imprese trainava la crescita”, dice Silvia Ardagna, economista della Goldman Sachs. Ma molte di quelle aziende “non hanno investito in ricerca e sviluppo e non hanno avuto le capacità manageriali e il capitale umano necessari per diventare competitive su scala globale”. Secondo l’osservatorio della Commissione europea sulle piccole e medie imprese, il 95 per cento delle aziende italiane ha meno di dieci dipendenti e, dai dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), emerge che queste imprese hanno livelli di produttività del lavoro più bassi delle loro equivalenti di altri paesi. Nel frattempo, le aziende più grandi non si rinnovano, a causa di una gestione familiare tradizionale restia ai cambiamenti o perché hanno difficoltà a ottenere prestiti. Dall’ultimo studio dell’Ocse sull’economia italiana risulta che, contrariamente a quanto è stato rilevato nella maggior parte degli altri stati dell’Unione europea, la produttività sta diminuendo più rapidamente. Nonostante l’iniziativa lanciata dal governo nel 2016 per incoraggiare le aziende ad aumentare la loro presenza su internet, meno di un’impresa su dieci, escluse quelle finanziarie, vende online. Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, colloca l’Italia al terzultimo posto nell’Unione in questo settore: fanno peggio solo Romania e Bulgaria. La legge di bilancio proposta dal governo non stanzia risorse sufficienti per affrontare questi problemi. Per il 2019 non prevede alcun aumento dei fondi per aiutare le aziende a entrare nell’economia digitale e solo per il 2020 è previsto un piccolo incentivo. Gli esperti mettono le carenze del sistema dell’istruzione al secondo posto dopo quelle della cultura industriale e della modernizzazione. “Il sistema educativo altamente centralizzato e sindacalizzato dà scarsi risultati in termini di competenze reali”, sostiene Massimo Bassetti, economista di FocusEconomics.
Istruzione
Meno di un italiano su tre fra i 25 e i 34 anni ha una laurea. Una percentuale molto al di sotto del 44 per cento della media Ocse. E secondo il rapporto Pisa (Program for international student assessment) dell’Ocse, i quindicenni italiani hanno competenze inferiori alla maggior parte dei loro coetanei, in matematica, scienze e capacità di lettura. L’Italia ha anche uno dei più alti tassi di abbandono scolastico dell’Ocse, e circa un italiano su quattro tra i 15 e i 34 anni non lavora né studia: la percentuale più alta dell’Unione europea. La legge di bilancio italiana prevede riforme che mirano a estendere la scuola materna, a modificare il sistema di reclutamento degli insegnanti e a ridurre l’abbandono scolastico. Ma per queste misure non è previsto un significativo aumento dei finanziamenti. Il punteggio dell’Italia è piuttosto basso anche per quanto riguarda l’efficienza dello stato e dei servizi pubblici. Secondo l’indice della Banca mondiale sulla facilità di avviare o sviluppare un’attività imprenditoriale, l’Italia è al 111° posto su 190 nazioni nel mondo per la capacità d’imporre il rispetto dei contratti. La sua burocrazia per risolvere le insolvenze, pagare le tasse e ottenere permessi a edificare è abbastanza farraginosa, e il sistema di giustizia civile è al penultimo posto tra i paesi ad alto reddito presi in considerazione dal world justice project. “In Italia ci vuole molto più tempo che negli altri paesi industrializzati per concludere un processo civile o penale”, e questo influisce sul contesto imprenditoriale, dice l’economista dell’Ocse Mauro Pisu. “L’inefficienza della pubblica amministrazione costituisce un ulteriore costo per le aziende, frena gli investimenti e la crescita”, sostiene Ardagna. Per Bassetti, “il complesso sistema fiscale italiano, il bizantinismo delle sue norme e l’inefficienza della pubblica amministrazione” costituiscono un ostacolo. Inoltre secondo Andrea Colli, docente di storia economica all’università Bocconi di Milano, questi problemi impediscono alle aziende straniere d’investire in Italia. L’economia italiana è più grande di quella spagnola ma, secondo il database fDi Markets, dal 2003 a oggi ha attirato meno della metà dei nuovi investimenti stranieri. Nella sua lettera a Bruxelles il ministro dell’economia Giovanni Tria ha scritto che le riforme strutturali previste dalla legge di bilancio, compresa quella del codice civile, “stimoleranno la crescita economica garantendo la sostenibilità a lungo termine delle inanze pubbliche italiane”. La coalizione di governo italiana sostiene che il suo piano di spesa contribuirà ad alimentare la crescita, ma molti degli esperti da noi consultati dicono il contrario: il debito alto frena già la crescita obbligando il governo a usare fondi per contenerlo. Fondi che diversamente potrebbero essere destinati a investimenti più produttivi. “Il debito pubblico italiano limita da tempo le risorse investite nel settore produttivo”, dice Ardagna. Interessi costosi L’Italia, che è al secondo posto nel l’Unione europea per rapporto debito-pil, spende il 3,7 per cento del suo prodotto interno lordo per pagare gli interessi sul debito, il doppio della media dell’Unione. Secondo le ultime previsioni della Commissione europea, a causa del maggiore rendimento dei titoli di stato e dell’aumento dei tassi d’interesse, entro il 2020 l’Italia arriverà a spendere il 3,9 per cento del suo pil. “Il debito dell’Italia assorbe una grande quantità di risorse economiche riducendo i fondi per le infrastrutture e per gli investimenti industriali”, spiega Bassetti. Anche se la bozza della legge di bilancio prevede che l’Italia nel 2019 dedicherà un altro 0,2 per cento del pil agli investimenti pubblici e uno 0,3 nel 2020, gli analisti non si aspettano un grande miglioramento rispetto alle debolezze strutturali. “La nostra idea è che il governo non garantirà all’economia le riforme per aumentare la produttività”, dice Nicola Nobile di Oxford economics.