Il Sole Domenica 4.11.18
Milano. Il Mudec (Museo delle culture)
ospita una rassegna di lavori del grande maestro che evidenziano i suoi
interessi per l’etnografia e per le civiltà preclassiche e
anticlassiche
Le fonti «primitive» di Klee
di Ada Masoero
Paul Klee. Alle origini dell’arte. Milano, Mudec Museo delle Culture, fino al 3 marzo
Figlio
di due musicisti, Paul Klee (1879-1940) era a sua volta un ottimo
violinista, ma anche un poeta e un eccellente disegnatore e incisore, a
lungo incerto sulla strada da prendere. Fu solo durante il viaggio in
Tunisia del 1914, che fece la sua scelta. Sul diario scrisse che lì,
immerso in quella luce, si sentì dominato dal colore: «Non ho bisogno di
tentare d’afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il
senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore».
Se
la folgorazione del colore fu per lui inattesa, quel viaggio era invece
stato programmato per conoscere da vicino una cultura visiva diversa da
quella, forbita, lustra e antiquata, diffusa allora in Europa dalle
Accademie. Gli artisti più radicali (quelli che avrebbero dato vita alle
avanguardie del primo ’900, ma già qualche pioniere della generazione
precedente) andavano in cerca di uno sguardo fresco, non inquinato dalla
nostra tradizione. E se pochi di loro, come Gauguin, che arrivò sino
alle Isole Marchesi (dove morì nel 1903) o Kandinskij, che si spinse a
centinaia di chilometri da Mosca, fra popolazioni di cultura finnica,
poterono compiere viaggi tanto rischiosi, tutti invece andavano “in
pellegrinaggio” nei musei etnografici delle loro città, dal Musée du
Trocadéro di Parigi, la cui sezione africana era battuta da Picasso e
dagli altri cubisti, ai non meno celebri musei delle città tedesche, di
cui gli espressionisti germanici erano frequentatori assidui. I reperti
di arte africana, polinesiana, precolombiana, oltre ai libri su quelle
culture che, in epoca coloniale, uscivano sempre più numerosi, offrivano
loro codici visivi incontaminati, definiti allora “primitivi”. E il
“primitivismo” divenne lo strumento per creare un’arte radicalmente
nuova.
Quanto a Klee, che conosceva bene la storia dell’arte
europea, concepì una sorta di “primitivismo” dilatato, esteso anche ai
linguaggi preclassici, o anticlassici, dell’arte occidentale, come le
miniature dei codici bizantini e medievali o le stesse incisioni di
Dürer: la sua fu dunque la ricerca di un “primordio” espressivo più che
di un “primitivismo” etnografico (che comunque esercitò anche su di lui
un’intensa fascinazione).
Da quest’assunto si sono mossi Michele
Dantini e Raffaella Resch, curatori della mostra che il Comune di Milano
e 24 Ore Cultura-Gruppo 24 Ore gli dedicano al Mudec, il museo delle
culture del mondo. Un compito arduo, il loro, per la polisemia e la
stratificazione simbolica di cui Klee intesseva i suoi lavori, che
talora rendono sfuggente (ma forse anche più stimolante) l’accostamento
alle fonti.
Nell’allestimento di Cesare Mari-Panstudio (che evoca
con eleganza quello di Carlo Scarpa per la prima monografica italiana di
Klee, alla Biennale di Venezia del 1948), un centinaio di sue opere,
alcune delle quali mai esposte in Italia, divise in quattro sezioni e
accompagnate da edizioni coeve di libri sulle arti “primitive” che
sicuramente egli lesse, dai disegni che acquistò in Tunisia (fonti
evidenti delle sue future, volatili Città) e da preziosi pezzi delle
collezioni etnografiche del Mudec, permettono di rileggere il cammino,
meditato ma tutt’altro che lineare, che egli percorse nel suo
personalissimo omaggio alle arti non europee e ai linguaggi occidentali
eterodossi e antiaccademici, come la caricatura e il grottesco. Ed è
proprio con le caricature del ciclo delle Inventionen, con le maschere
deformi, con i dèmoni e le figure chimeriche realizzate in gioventù, che
si apre la mostra. Di qui ci s’inoltra nel periodo dell’«illustratore
cosmico», quando, all’approssimarsi della Grande guerra, Klee (come
altri intellettuali monacensi) volle incarnare il ruolo di mistico e
veggente, ponendosi come tramite tra il reale e la dimensione
spirituale. Gli vennero allora in soccorso le miniature bizantine e
medievali e le incisioni di Albrecht Dürer di cui, in un autoritratto a
matita, cita la Melancholia, mentre si moltiplicano i temi prediletti
dell’occhio veggente e dell’angelo annunziatore. Dalle antiche civiltà
Klee trasse anche alfabeti, reali o d’invenzione, e figurette ridotte a
semplici sigle, con cui compose un proprio alfabeto cifrato ed
enigmatico, oggetto della terza sezione. Da ultimo, ecco il confronto
con i reperti del Mudec, fra i quali un raro drappo peruviano intessuto
di piume di pappagallo, del VI-VIII secolo, e preziose maschere
africane, del tutto simili a quelli che Klee vide nei musei tedeschi,
sui libri, o sulle pagine dell’«Almanacco del Cavaliere Azzurro», cui
collaborò. Così come, su quelle stesse pagine, condivise l’adesione a
un’altra fonte di arte “primaria” qual è il disegno infantile.
Accompagnate da una videoinstallazione di camerAnebbia (nelle sale
precedenti si aprono invece tre “finestre animate”, di Storyville), ecco
allora le marionette che l’artista realizzò per il figlio Felix con i
materiali più umili e disparati. Il percorso si chiude però con i lavori
astratti per cui tutti lo conosciamo. E qui la mostra cala autentici
assi, allineando una serie di opere non solo magnifiche ma raramente, o
mai, viste in Italia.