lunedì 5 novembre 2018

Corriere 5.11.18
Così Santoro tratta per far ripartire «l’Unità»
di Claudio Bozza


In tv manca da quasi due anni, ma Michele Santoro potrebbe tornare alla ribalta. Con un colpo di scena e ripartendo dal suo primo amore: la carta stampata. Il giornalista sta infatti portando avanti una delicata trattativa per riaprire l’Unità, dove iniziò a fine anni 70, e riportarla in edicola. La pubblicazione del quotidiano fondato da Antonio Gramsci è cessata il 3 giugno 2017, con la società oppressa da circa 10 milioni di debiti. Santoro, da settimane, si sta confrontando con Guido Stefanelli, amministratore delegato della società editrice, per cercare un punto d’incontro. Tra le varie condizioni che il giornalista avrebbe posto ci sarebbe quella di non essere dipendente della società editrice, di cui vorrebbe bensì acquistare una parte di quote. Da tempo, infatti, il Pd (che deteneva il 20% delle azioni tramite Democratica Srl) ha ceduto le quote al gruppo Pessina, di cui Stefanelli è appunto rappresentante. Il piano editoriale di Santoro, in un momento di forte successo di Lega e M5S, confiderebbe nell’appeal di una linea di sinistra.

Corrriere 5.11.18
Dove sono i difensori della Carta
di Angelo Panebianco ,Andrea Pertici


Caro direttore,
in un editoriale del 2 novembre, Angelo Panebianco torna a chiedersi dove sono tutti quanti i difensori della Costituzione, con riferimento soprattutto ai critici dell’ultima riforma costituzionale. Sembra siano sfuggiti i ripetuti interventi dei costituzionalisti a difesa delle prerogative del presidente della Repubblica, così come le aspre critiche a misure di dubbia costituzionalità, come il decreto sicurezza.
D’altronde, sulle riforme costituzionali, il contratto di governo ha un approccio minimalista e il ministro Fraccaro ha ribadito che esse, consegnate a un ampio confronto parlamentare, saranno limitate a ridurre i parlamentari e a un ragionevole rafforzamento di istituti di democrazia diretta. Un approccio molto diverso e ben più rispettoso della Costituzione. Ma le argomentazioni di Panebianco potrebbero essere rovesciate.
Nella scorsa legislatura, i parlamentari del Pd in dissenso dal segretario sono stati rimossi dalle commissioni parlamentari, mentre con la riforma costituzionale si intendeva ridurre il Parlamento a strumento di ratifica della volontà del governo.
Allora dove erano tutti quanti gli attuali difensori del Parlamento e del divieto di mandato imperativo?
Professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Pisa
I «ripetuti interventi dei costituzionalisti» sono soltanto, nelle condizioni presenti, flatus vocis. È bizzarro che il professor Pertici polemizzi con me anziché occuparsi di quanto vanno proponendo in materia costituzionale i leader del partito di maggioranza relativa. Non è necessario essere dei geni politici per collegare l’approccio del ministro Fraccaro alla questione della democrazia diretta, approccio — stando a quanto dice l’esimio costituzionalista — «rispettoso della Costituzione» (al pari del «contratto di governo»), con le posizioni — non precisamente minimaliste — espresse sullo stesso argomento dai capi dei 5Stelle, nonché capi del medesimo Fraccaro. Per spiegare certi imbarazzanti silenzi ho parlato di «affinità elettive». Confermo.

Repubblica 5.11.18
Se il governo ha paura della cultura
di Dario Olivero


«Quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola». Che lo abbia detto Goebbels come si tramanda o il suo altrettanto devoto collega di partito Von Schirach, la sentenza rende in modo diretto la considerazione che il nazismo aveva della cultura. Altri tempi, altre condizioni, come si affrettano a dire professionisti del distinguo, esegeti delle circostanze, chiosatori di filosofia della storia. Che nel merito del dettaglio trovano sicuramente le loro ragioni e poco importa che dall’America, Brasile compreso, alla Russia alla fu laica Turchia fino alla falda balcanica la forma di governo che si sta affermando assomigli sempre più a una autocrazia sancita dalla sacralità del voto che il termine populismo quasi nobilita. Il governo italiano, molto più che semplice spettatore in questa sfilata dello spirito del tempo, ha tagliato le risorse per la cultura. Senza mettere mano alla pistola ma alle forbici, e non avendo ancora la forza per rivendicarlo, lo ha quasi nascosto sotto un articolo della manovra dal titolo "ulteriori tagli di spesa". Come raccontato da Repubblica, i tagli riguardano, in questo piuttosto democraticamente, crediti di imposta per librerie, case editrici, cinema, agevolazioni per i musei privati, una drastica riduzione delle assunzioni previste per far fronte alla cronica carenza di personale nei beni culturali e un deciso assottigliamento dei fondi per il bonus cultura degli under 18.
Insomma, in questo modo e in un colpo solo vengono messi in difficoltà i settori economici che si occupano di "consumi culturali", concetto diverso da quello di cultura ma che, rispetto a quest’ultimo, ha il vantaggio per lo Stato di essere individuato, quantificato e, appunto, colpito.
Perché?
In tempi recenti, ma ormai di una diversa era geologica della politica, si sarebbe detto perché con la cultura non si mangia e ben altri sono i settori in cui investire per il rilancio dell’economia. Ma in questo caso non si fatica a scorgere una nuova concezione del mondo e del futuro che erutta a volte brutalmente contro studiosi, accademici, professori, editori, professionisti, giornalisti, insomma i cosiddetti intellettuali trasformati spesso in macchiette al servizio di chi vuole il male del popolo, come avrebbe detto il ribelle Jack Cabe di Shakespeare. L’ultimo esempio è il livore leghista che si è abbattuto sul festival dell’economia di Trento, un vero gioiello. Un evento, come tanti nell’Italia dei mille festival culturali, che rappresenta e incarna ciò che non è amato da questa maggioranza: voglia di sapere, bisogno di risposte, ricerca di qualcosa che non sia "clicca e consuma". Perché i cosiddetti consumi culturali, a differenza delle altre categorie merceologiche, possono trasformarsi, in modi tortuosi, indiretti, faticosi ma comunque utili in cultura. Colpisci i primi, colpirai la seconda. La cultura serve a emanciparsi, a uscire da condizioni di partenza svantaggiate, a formare nuove élite (sì, non è una brutta parola se si diventa tali con lo studio e il lavoro duro), legge eticamente nelle storie umane un’unica storia, trova compagni di viaggio in artisti ormai morti e parole di rabbia o di consolazione in scrittori antichi quanto profetici. È contro questo che si abbattono gli "ulteriori tagli di spesa" decisi dal governo. La storia lo insegna: ogni volta che si manomette la cultura, si finisce per sentire parlare di pistole.

Repubblica 5.11.18
Cinque stelle al buio
di Piero Ignazi

L’inversione dei rapporti di forza tra 5Stelle e Lega mette in tensione l’alleanza di governo. Come giustamente sottolineava Massimo Giannini, il M5S è un taxi che la Lega ha utilizzato per andare a Palazzo Chigi, e dal quale può scendere quando vuole. Non subito, perché gli interessa logorare il più possibile il proprio partner facendogli ingoiare ogni giorno un bel rospo. Dichiarazioni velenose e sfottenti a mezza bocca a Roma ma a squarciagola nei territori del Nord-Est, norme sulla sicurezza fatte apposta per far venire l’orticaria alla componente legalitaria dei pentastellati, emendamenti a pioggia per annacquare il progetto di legge anticorruzione, dubbi e perplessità distillati ogni giorno sul reddito di cittadinanza per rimandarlo e renderlo il più possibile confuso e impraticabile. Una strategia chiara quella della Lega, che passa dalla demolizione dei compagni di strada bollati come incapaci e confusionari, e dalla riproposizione a tutto tondo della propria agenda securitaria, xenofoba e scassa- finanze, a favore della constituency dei lavoratori autonomi di ogni tipo e genere, bastione elettorale leghista da sempre. A questa linea politica coerente e ben orchestrata il M5S non riesce a fare argine. Onestà, trasparenza, innovazione, ambientalismo e cura del territorio sono stati tutti immolati sull’altare del contratto di governo da onorare o travolti dalla cattiva coscienza (si veda, su tutti, il condono esteso a Ischia) e dalla impreparazione della classe dirigente colta in fallo su quasi ogni provvedimento. Insomma, un effetto Raggi a livello nazionale. Al M5S non rimane che il totem del reddito di cittadinanza, unico faro con cui illuminare la sua opaca attività di governo. Ma ben difficilmente andrà in porto. La resistenza passiva della burocrazia e le oggettive difficoltà di implementazione di un progetto così ambizioso lo ridimensionerà.
È comunque straordinario come i pentastellati vadano incontro alla catastrofe apparentemente compatti come una "testuggine romana", salvo qualche sporadico dissenso. Da questa sorte, al momento ineluttabile, possono uscire, pur con danni, adottando due svolte, molto diverse tra loro, che portano entrambe a una ridefinizione del sistema partitico nazionale.
La prima uscita di sicurezza può essere attivata da un intervento salvifico del redivivo Di Battista che riattivi tutto l’armamentario retorico di stampo populista e barricadiero, un po’ appannato in questi mesi ( salvo improvvisi balzi d’umore come i festeggiamenti dal balcone). Innestare questa marcia significa rompere con la Lega, uscire dal governo e rilanciare il " movimento" su tutte le tradizionali battaglie anti-establishment. Sarebbe il riconoscimento della esplicita difficoltà, e della implicita capacità, a governare. Il M5S, pur mantenendo un suo capitale elettorale, ancora cospicuo benché ridotto rispetto ai fasti del 4 marzo, si relegherebbe, di nuovo, ad un ruolo di opposizione radicale. La Lega subirebbe qualche contraccolpo perché anche nel suo elettorato vi sono ampie aree "anti-sistemiche" sulle quali un M5S all’attacco morderebbe, e il Pd potrebbe recuperare quelle componenti deluse dal renzismo ma indisposte a seguire il Movimento in questa deriva e inclini piuttosto a tornare su un partito connotato (di nuovo) a sinistra.
La seconda segue in parte lo stesso schema ma con un protagonista diverso ( Roberto Fico) e con prospettive "più politiche". In questo caso la rottura con la Lega non si dirige verso un incremento del tasso di alterità rispetto al " sistema" bensì si inclina verso un maggiore pragmatismo e una potenziale apertura alla sinistra. A fronte della ricostituzione, ormai già in atto, dell’alleanza storica di "centro destra" — ma è tempo di chiamarla di destra tout court, visto il dominio salviniano — non potrà esserci altro che uno schieramento alternativo di pentastellati e democratici, in senso stretto e lato. Ad oggi sembra fantapolitica ma la rapidità con cui mutano gli orientamenti dell’opinione pubblica induce a contemplare anche questa ipotesi. Che, in realtà, è l’unica alternativa reale a un governo Salvini. Di pop corn ne abbiamo già mangiati abbastanza in questi mesi per doverne fare una indigestione grazie a Matteo (Salvini).

Repubblica 5.11.18
Il militare che ha denunciato
Il carabiniere in sala per il film su Cucchi " Non potevo più tacere"
di Giuliano Foschini


Di che cosa stiamo parlando
Il caso di Stefano Cucchi, il geometra romano morto nel 2009 mentre era in custodia cautelare per spaccio, si riapre nel 2015 con la testimonianza di Riccardo Casamassima: l’appuntato dell’Arma rivela di aver raccolto la confidenza di un collega sul pestaggio di Cucchi da parte di tre carabinieri. La svolta l’11 ottobre scorso quando, durante un’udienza al processo, il carabiniere Francesco Tedesco ammette il pestaggio e accusa dell’aggressione i colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo.

ANDRIA Sono qui perché spero che riflettiate. Questo film è un invito a pensare: vi racconta che un ragazzo è stato massacrato di botte senza un perché. E che chi lo ha fatto, non ha mantenuto la promessa di chi porta quella divisa. I carabinieri non sono loro». Riccardo Casamassima è seduto su un palco parrocchiale della sua città, Andria. È arrivato in Puglia da Roma raccogliendo l’invito di un gruppo di ragazzi dell’associazione IdeAzione: avevano deciso di far vedere il film di Alessio Cremonini, Sulla mia pelle, che racconta cosa è accaduto a Stefano Cucchi. È venuto a parlarne lui, il primo carabiniere a rompere il muro di omertà attorno al pestaggio.
Nessuno meglio di questo carabiniere che, per primo, davanti ai magistrati ha detto: «Nell’ottobre 2009 il mio collega, il maresciallo Roberto Mandolini,si è presentato in caserma: mi confidò che c’era stato un casino perché un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi, e quando si riferì ai "ragazzi" l’idea era che erano stati quelli che lo avevano arrestato».
«Per le mie parole, mi sono già stati aperti parecchi procedimenti disciplinari», dice Casamassima, quando le luci della sala sono ancora alte, riferendosi ad alcune interviste rilasciate in questi mesi. "Non potrò parlare del processo, ma sono qui per dire che ho scelto di fare il carabiniere perché credevo e credo ancora nell’Arma. Noi non siamo quelli che raccontano in quello schermo. Un ragazzo viene massacrato di botte senza un perché, e questo è inaccettabile.
Chi entra nelle mani dello Stato deve poter tornare a casa. E invece Stefano Cucchi è entrato sano in una caserma ed è uscito morto".
Casamassima ha parlato però dopo sei anni. Tardi, tardissimo.
«Ho deciso di testimoniare quando mi sono reso conto che erano state condannate persone innocenti. Quando da questa città, la mia, sono andato via per fare il carabiniere l’ho fatto perché credevo di stare dalla parte giusta. E allora dovevo dire quello che sapevo: dovevamo dare una verità a una famiglia che la stava cercando in maniera disperata». Casamassima racconta che la sua scelta ha avuto un costo, non soltanto umano. «Mi hanno trasferito, per danneggiarmi. Sono stato demansionato. Ancora oggi non sono stato messo nelle condizioni di fare il mio lavoro». La sala è piena, zeppa. Ci sono ragazze e ragazzi, molte persone anziane.
Fuori piove, i ragazzi dell’organizzazione giurano di essere apartitici e apolitici ma qualcuno in sala assicura che ci sono molte persone che abitualmente votano per il centrodestra. «È la prova che non è questione di bandiere. La storia di Stefano appartiene a tutti», dicono mentre ormai ci sono soltanto posti in piedi.
Casamassina continua: «Mi sono convinto di aver fatto la scelta giusta quando al termine del primo processo ho sentito la madre di Stefano dire: "Adesso torniamo a casa e troviamo nostro figlio"». Le luci si spengono.
Un’ora e ventotto minuti dopo sullo schermo c’è un carabiniere seduto davanti a Milvia Mirigliano, l’attrice che interpreta la mamma di Stefano, Rita. Le dice: «Signora ho una brutta notizia da darle: suo figlio Stefano è deceduto».

Il Fatto 5.11.18
Il populismo raccontato dai fatti senza giudizi né sentimenti
Maurizio Molinari analizza il vuoto lasciato dalle vecchie forze politiche
di Furio Colombo


Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, ha scritto in modo rapido e preciso l’articolo che forse si aspetta sempre dai suoi colleghi redattori: niente sentimenti e molti fatti ben connessi tra loro, in modo da dimostrare quel che è accaduto senza sostare sul prima, sul dopo e sul giudizio.
Molinari, con la sua passione per un giornalismo che è soprattutto reporting, non ama il populismo, che viaggia in un fumo di leggende e di storie inventate e installa continuamente un nuovo tribunale per dimostrare o ripetere la colpa degli altri. Ma non ha scritto un libro breve e nervoso per giudicare.
Lo scopo è ricostruire il percorso perché il lettore sappia come ci siamo arrivati.
Proprio per la sua freddezza, per la sua narrazione priva di enfasi, l’autore offre un manuale molto utile al lettore. Impedisce che vengano dimenticati passaggi essenziali (lo spazio vuoto lasciato da ogni altra forza politica alla calata ed espansione del nuovo verbo, unica eccezione, nelle loro modeste dimensioni, i Radicali). E suggerisce di non inchinarsi ad alcun miracolo: c’era uno spazio vuoto, e quel posto è stato occupato, anche se il fervore della vittoria inaspettatamente rapida ed eccessiva, ha provocato trionfalismi e aspettative fuori misura.
Leggendo e scrivendo del libro di Molinari (Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa, La nave di Teseo), mi trovo d’accordo e in disaccordo.
L’accordo è sulla persuasione che tutto ciò non passa presto (io aggiungo: l’insediamento di credenze e superstizioni, fino ai vaccini, in un territorio liberato dalla Resistenza europea, ha messo subito radici ed è in grado di resistere e di durare).
Il disaccordo è sul considerare ciò che è avvenuto una sorta di fenomeno spontaneo.
In questo modo si negano le mosse coordinate di una destra del mondo che si è presa gli Usa, il Regno Unito, l’Austria, i Paesi di Visegrad, l’Ungheria, la Turchia, l’Egitto, l’Arabia Saudita e ora il Brasile. L’Italia, in poche settimane, si è spostata a destra al di là di ogni speranza o tentativo estremista, nonostante la sua Costituzione e la resistenza del presidente della Repubblica. Sembra evidente che “non è che un inizio”.

Il Fatto 5.11.18
Populismo, arriva la risposta delle élite: democrazia rigida
L’economista Dambisa Moyo indica dieci riforme per arginare il caos e garantire crescita: mandati più lunghi agli eletti, voto obbligatorio ma solo per chi se lo merita, argine ai finanziamenti privati
di Stefano Feltri


Prima o poi doveva succedere: dopo due anni di shock, tra Brexit e vittoria di Donald Trump, è iniziata la riscossa culturale dell’establishment di fronte all’avanzata dei movimenti populisti. L’Economist riscopre i grandi pensatori liberali, da Mill a Tocqueville, ora arriva in Italia il libro dell’economista Dambisa Moyo, uscito da poco negli Usa, che offre una serie di ricette pratiche per salvare la democrazia dai suoi elettori e dall’assenza di crescita che sta mimando un contratto sociale fondato sulla redistribuzione della nuova ricchezza generata. Sono proposte che affrontano un problema che sarebbe sbagliato sottovalutare, cioè la scarsa capacità decisionale (percepita e reale) delle democrazie liberali che sembrano troppo farraginose e dispersive per affrontare le sfide della globalizzazione e per rispondere a una rabbia popolare che sfocia nell’invocazione di leader decisionisti, modello Vladimir Putin o Xi Jinping. Ma pare un po’ perverso proporre di correggere la “miopia della democrazia” – i politici hanno incentivi a fare scelte troppo di breve termine per produrre crescita – riducendo il potere degli elettori e cercando di avvicinarsi a quella figura teorica che gli economisti nei loro modelli chiamano il “dittatore benevolente”.
“La necessità di riconfermarsi alle elezioni impedisce l’effettiva allocazione delle risorse da parte dei rappresentanti eletti, troppo spesso i mandati elettorali tengono i politici legati agli individui e agli interessi aziendali che contribuiscono a finanziare la loro campagna e ai capricci dei sondaggi”, scrive Dambisa Moyo in “Sull’orlo del caos – rimettere a posto la democrazia per crescere” (Egea). La Moyo incarna le promesse realizzate del capitalismo: è nata in Zambia nel 1969, ha studiato chimica in patria e all’American University, master ad Harvard, dottorato in Economia a Oxford. Oggi siede in vari consigli di amministrazione come Barclays (una grande banca) e Chevron (petrolio) e gira il mondo a dispensarei consigli strategici. Le sue tesi si possono quindi considerare un buon indicatore degli umori di una certa élite cosmopolita.
L’idea di fondo della Moyo è che bisogna rendere la democrazia più lungimirante, con alcuni correttivi che riducano la propensione alla “veduta corta”, come la chiamava Tommaso Padoa- Schioppa. Alcune misure proposte dalla Moyo sono la semplice trasposizione in politica di dinamiche da azienda: pagare di più i politici, per evitare che chi ha talento resti lontano da incarichi rischiosi e poco remunerati (il premier di Singapore guadagna 1,7 milioni di euro all’anno). Difficile immaginare una misura meno popolare, anche se nello schema della Moyo serve a evitare che i politici in carica facciano scelte pensando di monetizzarle dopo (per esempio con leggi a favore di qualche grande impresa che poi li assumerà come consulenti), per questo l’economista propone anche limiti alle porte girevoli tra pubblico e privato e un argine all’interferenza dei finanziamenti privati nella dinamica democratica, problema molto americano e non ancora italiano, anche se l’abolizione del contributo pubblico ci espone a nuovi rischi. Sempre in questa logica, la Moyo suggerisce anche il limite dei mandati, come quello professato dai Cinque Stelle, per evitare che i politici pensino soltanto a costruirsi una carriera di “ri-eletti di professione” invece che preoccuparsi del bene del Paese.
Le proposte che la stessa Dambisa Moyo sa essere più divisive sono quelle che puntano a ridurre il peso degli umori degli elettori sulle decisioni. Mandati elettorali più lunghi (tradotto: meno elezioni), vincoli alle decisioni future con accordi e impegni che impediscano ai politici di domani di rimettere tutto in discussione. Si tratta di estendere pratiche che già in uso, basti pensare all’accordo intergovernativo tra Italia, Albania e Grecia che nel 2013 ha vincolato i tre Paesi a costruire il gasdotto Tap e ora, ha ammesso il governo Conte, è impossibile fare diversamente. La Moyo poi recupera idee che albergano nelle zone d’ombra del liberalismo fin dai tempi di John Stuart Mill: il filtro alle candidature, richiedendo ai candidati “esperienze lavorative al di fuori della politica, non solo nel mondo degli affari ma in una serie di lavori da mondo reale” (addio Di Maio), ma anche il filtro agli elettori. Voto obbligatorio, come sperimentato in Australia, per evitare che vadano alle urne solo le minoranze arrabbiate, combinato con un “test di educazione civica” per verificare la capacità degli elettori di capire le implicazioni delle scelte di Parlamenti e governi sul lungo termine. L’applicazione di queste misure avrebbe reso impossibile l’elezione di Donald Trump negli Usa e in Italia la nascita del governo Conte.
Salvare i principi della democrazia liberale ripristinando una capacità decisionale che sembra compromessa è la grande sfida culturale di questi anni. Ma se la disinvoltura dei movimenti populisti (e dei loro elettori) nel rimettere in discussione pilastri come la separazione dei poteri e i meccanismi della delega si salda con la richiesta di governi quasi autoritari che arriva dalle élite, allora è il momento di iniziare a preoccuparsi davvero.

La Stampa 5.11.18
I grillini del Nord in pressing su Di Maio
“La Lega ci porterà via tutti i voti”
di  I. Lomb.


Quando Matteo Salvini in uno svogliato comunicato dice che si farà il «reddito di reinserimento al lavoro» crea una voragine nelle certezze del M5S. Perché ribattezzare in quel modo il provvedimento principe del M5S che invece è intitolato alla cittadinanza, e che di solito Salvini evita proprio del tutto di citare, vuol dire portare in superficie i dubbi che lacerano i gialloverdi, e le preoccupazioni che in casa grillina agitano la i parlamentari del Nord.
I sondaggi strozzano il respiro quando il crollo è evidente come quello che nell regioni settentrionali ha subito in appena cinque mesi di governo il M5S. Le rilevazioni segnano un meno 8 per cento su un calo generale di circa il 4-5 per cento. Un travaso di voti, tra l’altro, a tutto favore dell’alleato. Ed è anche per questo che è scattato l’allarme che ha innescato la voglia di rivalsa dei grillini. «Dobbiamo piantare bandiere e recuperare le nostre battaglie storiche» è stata la riflessione di Di Maio, prima che l’emendamento sulla prescrizione spuntasse senza alcuna condivisione con la Lega.
Il vicepremier ha discusso a lungo con i suoi collaboratori della fuga degli elettori del Nord e ha ascoltato alcuni suggerimenti giunti dai parlamentari settentrionali, spaventati dai segnali di stanchezza e scetticismo lanciati dal mondo produttivo. Sulla manovra, sugli effetti del decreto dignità, sulle grandi opere (vedi Tav), sul condono edilizio. Ad aver molto impressionato i grillini sono state le dichiarazioni del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, che ha definito il governo «antindustriale» e «ostile come mai prima d’ora» alle imprese. Non a caso ieri il M5S ha scelto di far parlare Stefano Buffagni, Il sottosegretario è l’uomo del Nord tra i grillini, e fu lui a sdoganare Di Maio tra gli imprenditori. Un consiglio su tutti è arrivato a al leader: bisogna far capire che il reddito di cittadinanza è una misura di politica attiva. O comunque renderlo il più possibile tale. «Perché non sembri davvero una misura meramente assistenzialista». Solo così diventa digeribile per gli elettori settentrionali e meno attaccabile dagli alleati.
Ai leghisti il reddito grillino non è mai piaciuto e vorrebbero mutarne la natura, come ha detto apertamente il sottosegretario Armando Siri. Nei 5 Stelle qualcuno nutre il sospetto che la Lega voglia sfruttare un’eventuale crisi sulla norma per spingere Di Maio a far saltare il governo e tornare a votare. Ecco perché, dicono fonti del Carroccio, il grillino preferirebbe affidare il reddito a un decreto. Più veloce e più vincolante per la maggioranza. Salvini continua a smentire queste ipotesi e dal Carroccio fanno sapere che è più probabile come scenario dopo le Europee, quando il leader della Lega avrà calcato - spera da vincitore - il palcoscenico del sovranismo internazionale. Per farlo, gli serve l’alleanza strategica con il M5S, per sterilizzarne la maggiore forza che avrebbe se fosse alla sua opposizione.
Il momento di debolezza, certo, non aiuta Di Maio: stretto in un paradosso. Se non porta a casa il reddito di cittadinanza fallisce la sua principale battaglia. Se lo porta a casa, spaventa una fetta di elettorato che potrebbe cercare subito riparo sotto la Lega. Da qui l’idea del restyling nel faticoso cammino della riforma, uscita dal dalla manovra e rinviata a una legge ad hoc. «E’ una misura di politica attiva» ribadiva mercoledì alla Camera il sottosegretario Manlio Di Stefano, rifiutando il paragone con gli 80 euro di Matteo Renzi. Basterà a convincere il Nord? I. Lomb.

Il Fatto 5.11.18
“Siamo studenti, vogliamo la luna”
di Lorenzo Giarelli

Se i sondaggi hanno ragione, essere in piazza contro il governo, oggi, significa essere in piazza contro i propri genitori. Lega e Movimento 5 Stelle avanzano inarrestabili nei consensi nel mondo dei grandi, di quelli che votano, mentre gli studenti si danno alla protesta più antica che esista – alla faccia di sbandierati cambiamenti – riempiendo le strade con striscioni, megafoni e cori di indignazione. Hanno iniziato a ottobre, coordinando oltre 50 piazze in Italia nella grande manifestazione di venerdì 12, e andranno avanti, giurano, ancora per settimane. A muovere i ragazzi non sono i problemi dei singoli istituti (il termosifone che non funziona, la palestra inagibile, il distributore del caffè guasto) e neanche solo i temi legati all’istruzione – i pochi fondi, l’alternanza scuola lavoro che non funziona – ma un malessere più generale nei confronti della politica.
E guai a chi pensa che la piazza sia ormai un rito stanco: “L’unica prassi mi sembrano i tagli che ogni autunno i diversi governi fanno all’istruzione – accusa Gianmarco Manfreda, 23 anni, padre nobile, si fa per dire, delle proteste dei liceali come coordinatore della rete degli studenti medi – Quando finirà questa consuetudine magari anche le proteste non saranno più un rito autunnale”.
A portare in piazza gli studenti del liceo sono collettivi locali, centri sociali, auto-organizzati o organizzati da associazioni nazionali. Sono quasi tutti apartitici, ma rivendicano l’appartenenza a sinistra, a costo di sembrare fuori tempo massimo nella griglia delle ideologie: “I nostri modelli oggi sono nella società civile – dice Manfreda – quindi Legambiente, Libera, Cgil, Arci”. I 5 Stelle? Storia (già) passata: “Hanno rappresentato una speranza per i giovani, con quella voglia di eliminare la mediazione e avvicinare i cittadini alla politica, ma sono finiti vittime delle loro contraddizioni”.
Anche l’Unione degli studenti, la grande associazione dei liceali, si smarca dai partiti italiani. Il modello, al massimo, è il laburismo inglese di Jeremy Corbyn. Ma ogni piazza è una storia a sé, purché si compatti attorno ai valori dell’integrazione, della lotta al precariato, della battaglia al neoliberismo (“la divisione in sfruttati e sfruttatori”, lo definisce una ragazza torinese). A Milano la manifestazione più grande l’ha organizzata la Rete Studenti insieme a Casc Lambrate, un centro sociale appena sgomberato. Tra i più attivi c’è Matteo Cimbal, 18 anni di cui 5 passati a far politica a scuola, prima a Venezia e ora all’ombra del Duomo. Per capire le proteste, dice lui, bisogna mettersi in testa di non giudicare i ragazzi con le stesse categorie applicate al resto del mondo. Più Trap e meno talk show, più Ghali e meno editoriali: “Il trap – per chi ignora: un nuovo genere musicale diffusissimo tra gli under20 – oggi rappresenta meglio di qualsiasi altra cosa il disagio che vivono tanti ragazzi nei quartieri periferici di Milano”, spiega Matteo. “A differenza dell’hip hop di una ventina d’anni fa non c’è denuncia politica diretta, ma emerge un malcontento sociale in cui ci riconosciamo”. E per portare in piazza i ragazzi, per farli interessare alla politica, si deve partire da lì: “Tu parti da un testo di Ghali sull’immigrazione e vedrai che gli studenti ti seguono, metti un pezzo Trap in corteo e sono tutti gasatissimi”.
Su come esprimere il disagio, poi, non c’è una linea unitaria. Difficile compattarsi già solo a sinistra, figurarsi mettere d’accordo anche gli “indipendenti”. Le proteste di piazza di Torino sono state quelle più mediatiche, ma non per i contenuti della manifestazione. I titoli di giornale se li è presi un gesto di alcuni militanti del Kollettivo studenti organizzati, che hanno dato alle fiamme due manichini raffiguranti i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Sono finiti indagati in cinque, tra cui due minori, per vilipendio, mentre la facile indignazione del mondo politico stigmatizzava il gesto violento.
“Il problema è che la nostra generazione è totalmente deconflittualizzata – si lamenta Sebastiano, 17 anni, di Roma, membro dell’Opposizione studentesca d’alternativa (Osa) – e quindi un gesto simbolico del genere passa per chissà quale violenza”. Colpa, secondo lui, del G8 di Genova del 2001, anche se la sua età gli permette di parlarne solo come storia e non più come cronaca: “Da lì si è dato per scontato che la piazza fosse per forza violenta e che la violenza non portasse a niente, inibendo ogni grosso movimento di protesta”.
Anche Alessandro Personé, 19 anni, animatore delle piazze liceali di Lecce per l’Uds e ora universitario a Roma, non ci vede scandali: “La cosa grave è che ci si preoccupi dei manichini e non delle politiche devastanti dei governi”.
Questione di scelte. Si può forzare la mano per avere visibilità, ma si rischia di compromettere l’efficacia del messaggio della protesta: “Il problema dei manichini bruciati – dice Manfreda di Rete degli studenti medi – è che personifica il disagio nei confronti di Di Maio e Salvini, mentre il disagio è per quello che rappresentano. E poi succede che si presta il fianco alla loro risposta vittimistica, vanificando il merito della piazza”.
Del disagio dei ragazzi del Ksa parla Sara. Ha solo sedici anni e studia a Torino: “Il governo dà risposte sbagliate a problemi reali. Hanno ragione, c’è un problema di povertà e di sicurezza, ma non mi possono dire che la soluzione è la stretta sull’immigrazione”. Da qui la piazza, ancora una volta slegata dai problemi strettamente scolastici. Certo, anche su quelli lo scontro c’è, tanto che i giovani di Rete conoscenza, l’organizzazione che unisce gli studenti medi agli universitari di Link, hanno chiesto e ottenuto un incontro con Di Maio. “Una novità assoluta – ammette Giacomo Cossu, coordinatore della Rete – ma che è finita per essere l’ennesimo spot per il governo. Di Maio ha risposto in modo vago e vedendo la manovra economica ci pare di capire che siamo rimasti inascoltati. È inutile riceverci se serve soltanto a sbandierare sui social di aver incontrato gli studenti”. Le richieste, in fin dei conti, battono sempre sui fondi da stanziare all’istruzione. Troppo pochi, dicono i ragazzi, insufficienti per garantire il diritto allo studio e per avviare un piano efficace per l’edilizia scolastica, proprio nel Paese in cui metà delle scuole non ha neanche il certificato di agibilità. E poi c’è il tema dell’alternanza scuola-lavoro, su cui persino i giovani della piazza si dividono. Qualcuno, come la Rete degli studenti medi, ne vorrebbe una versione “formativa”, riqualificata rispetto a quella delle storture della buona scuola renziana. Altri invece, come il 17enne Sebastiano, la vorrebbero eliminare del tutto, per lasciare l’istruzione alla scuola e il lavoro alle fabbriche, agli uffici, alle attività commerciali. Anche nel mondo delle proteste giovanili la sinistra ci mette poco a dividersi, ma è così da sempre. A Bologna gli studenti in piazza ce li ha portati il Fronte della gioventù comunista. Da un lato, spiega Gianluca Evangelisti, attivista di 19 anni, “il gruppo ha scelto di non portare in corteo la falce e martello”, quasi a volersi aprire a chi non se la sentiva di sfilare sotto un simbolo così impegnativo. Dall’altro, la convivenza con gli altri collettivi è rimasta difficile: “Abbiamo avuto contatti con vari gruppi, ma alla fine hanno preferito non andare tutti insieme in piazza. I contenuti di un’opposizione al governo possono anche essere gli stessi, poi però dipende come si declina l’alternativa”.
Su questo è d’accordo anche Sebastiano, che guarda con simpatia a Potere al popolo e che critica la Rete degli studenti medi perché “troppo istituzionalizzata”, “vicino ai sindacati che ormai stanno coi potenti”, e infantile pure sulle modalità di protesta: “Io in piazza canto Bella Ciao, ma mica perché è di moda adesso”. Il riferimento è alla riscoperta dell’inno partigiano come colonna sonora de La Casa di Carta, amatissima dai giovani. Proprio ispirandosi a quella serie tv Rete degli studenti medi e Rete conoscenza hanno deciso di vestire alcuni ragazzi in piazza con l’abito tipico dei rapinatori-eroi di Netflix: tuta rossa e maschera di Salvador Dalì, nemesi beffarda del volto del film V per Vendetta con cui tredici anni fa, i giovani di allora, speravano nel cambiamento.

Repubblica Roma 5.11.18
L’occupazione
Virgilio, sgombero all’alba " Ma allarmi erano infondati"
Il liceo chiama la polizia d’accordo coi genitori. Studenti in piazza, tensione con gli agenti
di Lorenzo D’Albergo


Avevano promesso. Avrebbero sciolto le righe oggi. Al più tardi martedì. Ma a interrompere l’occupazione dei ragazzi del Virgilio, il liceo classico di via Giulia, questa volta è arrivata la polizia. Una misura inedita, che non era scattata neppure davanti alle polemiche innescate dalla più pesante dimostrazione dello scorso anno. Alle sette di ieri mattina, invece, oltre 20 tra agenti e carabinieri hanno fatto scattare il blitz. All’interno dell’istituto hanno trovato 71 ragazzi (23 maggiorenni e 48 minorenni) ancora nei sacchi a pelo, qualche bottiglia di birra e di alcolici.
Al termine dello sgombero, partito con qualche istante di tensione, con gli studenti che si sono rifiutati di aprire ai poliziotti, è partito un breve sopralluogo delle forze dell’ordine. Un po’ per sincerarsi delle condizioni dello stabile. Un po’ per assicurarsi che all’interno non fosse rimasto davvero nessuno. Il risultato della prima visita a sorpresa — oggi ci sarà un nuovo controllo delle forze dell’ordine, mentre gli organizzatori della protesta rischiano la denuncia — è contenuto nella nota diramata in tarda mattinata dalla polizia: « Appare confermata la infondatezza delle considerazioni e degli allarmi diffusi nei giorni scorsi».
Qualche frizione in più c’è stata in serata. I ragazzi del Collettivo autorganizzato Virgilio, riaffidati ai genitori tra i mugugni, nel pomeriggio hanno convocato un’assemblea in vicolo della Moretta, a pochi passi dal liceo. Lì si sono riuniti in più di 200, sfiorando in un paio di occasioni il contatto con gli agenti a protezione dell’istituto per evitare una nuova occupazione. Caschi antisommossa da una parte, cori dall’altra. Ma alla fine non si è arrivati allo scontro.
Il confronto aperto resta allora quello tra gli studenti e gli adulti. Un braccio di ferro che contrappone gli adolescenti che si sono impadroniti della scuola l’altra domenica per organizzare una sette giorni di incontri con registi, scrittori e artisti, e parte del corpo docente. Quei professori che, supportati dai genitori contrari a un’occupazione più lunga, hanno chiesto e ottenuto lo sgombero. Anche per paura degli «esterni», Come si legge nella nota formulata sabato dall’ufficio di gabinetto della questura, la polizia è entrata in azione «al fine di evitare ulteriori problematiche relative all’eventuale partecipazione all’occupazione di persone vicine ad ambienti o movimenti estremisti». A richiedere l’intervento, con il preside in malattia, è stato il suo vice, Pasquale Spinelli: « Non ci sono state criticità, gli studenti sono usciti tranquillamente. Esterni? Questa mattina ( ieri, ndr) non lo so. Domenica 28, giorno dell’occupazione, c’erano. Penso che la loro presenza fosse allarmante. Ma non posso parlare».
Per i genitori, invece, c’è la presidente del consiglio d’istituto, Daniela Buongiorno: « La denuncia viene sempre presentata dal preside, è una prassi. C’è stato il tentativo di mediare con i ragazzi. Abbiamo parlato molto. Se si fosse trovato un punto d’incontro, non saremmo arrivati a questo. Il Mamiani aveva dato una data di fine occupazione. Il nostro preside, Giuseppe Baldassarre, aveva chiesto di finirla domenica. Poi è intervenuto. La differenza rispetto agli scorsi anni è che questa volta c’è stato lo sgombero ». Sul blitz della polizia niente da ridire: « Non ci sono stati problemi. I ragazzi sono stati responsabili ed educati. Il dialogo non si è mai interrotto». Alla fine, però, la trattativa si è chiusa con l’arrivo delle forze dell’ordine. E la politica? Per il Pd attacca Enzo Foschi: « Si sgombera il Virgilio, a quando lo stesso trattamento per CasaPound?».

Repubblica Roma 5.11.18
I giovani all’attacco "Questa scuola è la nostra casa cacciati a causa del vento leghista"
di Marina de Ghantuz Cubbe


Lo sgombero del Virgilio dimostra la forza degli studenti. Ne sono convinti e lo rivendicano a gran voce, i ragazzi e le ragazze che, cacciati all’alba da scuola, nel pomeriggio si sono radunati in piazza della Moretta. «Siamo arrabbiati — ha detto una giovane studentessa durante l’assemblea — perché la scuola è un luogo di formazione e non di repressione, questa scuola è la nostra casa e non possono cacciarci». Z. P. è una delle candidate a diventare presidente d’istituto e pensa che « con uno sgombero con così tanta polizia vogliono dimostrare cosa si devono aspettare gli studenti di Roma questo inverno. Questo è il risultato — ha aggiunto — delle politiche del ministro Salvini».
La stagione delle occupazioni e delle manifestazioni sembra essere appena iniziata: « Abbiamo vinto, hanno paura di noi — ha detto S. M. a pochi centimetri dalla polizia che intanto aveva indossato i caschi e preso i manganelli — Stiamo protestando perché hanno voluto far tacere persone che avevano qualcosa da dire». Ma promettono di non rimanere in silenzio. E per oggi alle 11 hanno convocato un’altra assemblea, probabilmente con l’intervento del sindacalista Aboubakar Soumahoro, che i ragazzi avrebbero voluto incontrare dentro la scuola, durante l’occupazione.
Sostiene Riccardo: «Per noi i rapporti col preside si sono rotti. Certo, ci parleremo se ne avremo l’occasione, ma siamo rimasti senza parole perché — ha continuato il ragazzo — ha dato il via a uno sgombero sproporzionato, mettendo in difficoltà soprattutto i più giovani».
I genitori degli studenti minorenni sono stati chiamati in mattinata per riprendere i figli a scuola e in molti ragazzi, ancor prima che arrivassero i parenti, si sono chiesti: «E adesso come facciamo a dire ai nostri che ci devono identificare? » . Qualche genitore si è arrabbiato, racconta F.T., al primo anno di liceo: «Mia madre si è preoccupata, mio padre invece ridacchiava quando mi è venuto a prendere e penso — continua il ragazzo — che i nostri genitori ci sostengano, infatti questa sera siamo qui, ci hanno fatto venire».
Gli studenti del liceo di via Giulia avrebbero voluto continuare la protesta e volevano « trasformarla in giornate in cui a essere coinvolti fossero anche i professori — ha spiegato A. R. — facendo lezione fuori dalla scuola e organizzando dei flash mob » . La proposta doveva diventare ufficiale questa mattina, ma lo sgombero di ieri ha fermato tutto. Tra le idee emerse durante l’assemblea, anche quella di organizzare una manifestazione per venerdì 9. «Noi non ci fermiamo — ha detto Z. P. E, citando Antonio Gramsci, ha aggiunto: «Perché siamo contro questo governo e odiamo gli indifferenti».

Repubblica 5.11.18
Verso il referendum Atac
Al banchetto day i dubbi dei romani
Giornata di mobilitazione dei promotori per il voto di domenica
di Salvatore Giuffrida

«La verità è che noi romani non siamo capaci di governare » . Mauro, 50 anni, sta per entrare con moglie e figli al mercato di San Teodoro al Circo Massimo in una normale domenica di pioggia, ma si ferma al banchetto dei Radicali sul referendum Atac dell’ 11 novembre: la discussione, tra chi vuole liberalizzare o meno il trasporto pubblico, è accesa. «Se lo diamo ai privati non rischiamo un altro caso come il ponte Morandi? I privati ci vorranno guadagnare e il prezzo del biglietto aumenterà», dice Pietro Bollino, 45 anni, in sella alla sua bicicletta. «Non è vero» rispondono in coro i due ragazzi del banchetto: « Il servizio rimarrà pubblico, si metterà a bando solo la concessione, la gestione del trasporto sarà affidata al miglior offerente e il Comune controllerà che il contratto sia rispettato. O preferisce rimanere così?».
Il referendum è solo consultivo ma ha già raggiunto un risultato: il futuro di Atac appassiona i romani. Da una parte chi vuole liberalizzare la concessione con una gara pubblica, dall’altra chi è contrario; tutti contro la privatizzazione ma d’accordo sulla necessità di fare qualcosa perché così il trasporto pubblico proprio non va. Tutti sanno del referendum ma molti non sanno dove si vota: «Nei seggi elettorali, come per le politiche » , rispondono i ragazzi del banchetto. E aggiungono: « Il Comune non ha divulgato il referendum in modo adeguato. E meno male che loro sono per la democrazia diretta».
Intanto il dibattito prosegue, qualcuno evoca le liberalizzazioni di Margareth Thatcher: « Che però hanno finito per svendere il Paese », esclama Pietro. Stessi concetti negli altri banchetti a Porta Portese, Conca d’Oro, largo Sempione, Cavour. La pioggia non ferma i romani e il mercato di San Teodoro, con i suoi profumi e colori, stimola il dibattito. « Mettere a bando la concessione farebbe aumentare la competitività e l’efficacia del servizio — spiega Alfonso, 22 anni, studente di Economia a Roma Tre — altrimenti la concessione non sarà rinnovata » . I dubbi continuano: liberalizzare, ma come? Maddalena Martuccini, casalinga, coglie il punto: « Sarebbe un’opportunità per dare un segnale diverso a un monopolio che finora non ha funzionato. Ma bisogna capire come. E il trasporto deve rimanere pubblico » . Come voterà, signora? « Sto valutando » , sorride e scompare tra i banchi del mercato. « Al di là del risultato, il referendum è un modo per coinvolgere i cittadini » , continua Pietro, studente. «Sì, ma è stato tenuto segreto » , replica Antonio Fazio, 45 anni, impiegato: « Atac ha mezzi inadeguati e noi utenti ne soffriamo i problemi. Quanti bus sono andati a fuoco, dieci? » . Di più, signor Fazio: almeno 21 dall’inizio del 2018.

La Stampa 5.11.18
Per la rinascita del nazionalismo panrusso
Putin, la carta delle repubbliche fantasma per la rinascita del nazionalismo panrusso
di Gianni Vernetti 


Attraverso il sostegno ad una rete di micro-nazioni, non riconosciute dalla comunità internazionale, il Cremlino ridisegna i confini. L’obiettivo strategico è fomentare le minoranze russofone per destabilizzare i Paesi che vogliono avvicinarsi all’Ue e alla Nato
La storia
Un nuovo fantasma si aggira per l’Europa e questa volta si tratta di Stati che non esistono, nuove «Zone Grigie» che un po’ alla volta stanno ridisegnando confini ritenuti intangibili dalla Seconda Guerra Mondiale. Con l’annessione russa della Crimea e l’intervento militare nel Donbass (Donetsk e Luhansk), sono nate altre tre entità non riconosciute che si vanno ad aggiungere alle quattro già esistenti da alcuni anni: la Transnistria, l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud e il Nagorno-Karabakh.
Sono veri e propri «Stati fantasma» che vivono in una sorta di limbo: hanno governi, parlamento, ministeri, esercito e valuta propri; rilasciano passaporti; instaurano relazioni politiche e diplomatiche con Paesi terzi. Ma nonostante ciò sono tagliati fuori dal resto del mondo: nei loro territori non funzionano le carte di credito internazionali, le assicurazioni le considerano aree off-limits, gli accordi e le regole internazionali non vengono applicati. Si tratta di fatto dei protettorati della Federazione Russa che, in ognuno di essi, conserva basi militari e truppe e rappresentano uno dei motivi di maggiore attrito fra l’occidente e la Russia Sono dunque entità statuali totalmente al di fuori della legalità internazionale e rappresentano una minaccia per la stabilità di una vasta area fra il confine orientale dell’Unione Europea, il Mar Nero e il Caucaso. Si tratta di fatto dei protettorati della Federazione Russa che, in ognuno di essi, conserva basi militari e truppe e rappresentano uno dei motivi di maggiore attrito fra l’occidente e la Russia.
Come ama ripetere spesso Vladimir Putin «la dissoluzione dell’Unione sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo». Come ama ripetere spesso Vladimir Putin «la dissoluzione dell’Unione sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo». Questa considerazione è stata la stella polare che ha ispirato una parte rilevante delle sue scelte in politica estera degli ultimi quindici anni. Così si spiegano molte iniziative per riconquistare lo spazio sovietico perduto: la Comunità degli Stati Indipendenti, che unisce nove delle quindici ex Repubbliche sovietiche; la Shanghai Cooperation Organisation, nata per tentare di includere anche la Cina in uno spazio comune di sicurezza; la più recente Unione Economica Euroasiatica (con Kazakhstan, Kirghizistan, Bielorussia e Armenia); l’Eastern Economic Forum di Vladivostock.
Ma, accanto a queste iniziative di carattere politico-diplomatico, gli anni di presidenza Putin sono stati anche caratterizzati da azioni politico-militari molto aggressive, con lo scopo a destabilizzare le componenti più inquiete dell’ex spazio sovietico a cominciare da Georgia e Ucraina per finire alla Moldavia e all’Azerbaijan.
La retorica e la propaganda utilizzate di Mosca per giustificare gli interventi armati ha quasi sempre richiamato l’urgenza di difendere gli interessi delle minoranze russe: una retorica che ricorda la vicenda dei Sudeti, quando la Germania nazista giustificò l’aggressione della Cecoslovacchia con le presunte vessazioni subite dalla minoranza tedesca.
La guerra dimenticata 
Poco dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica iniziarono le prime operazioni militari oltre confine: nel 1990 la quattordicesima armata dell’esercito russo nell’Est della Moldavia, combatté contro le truppe moldave e romene in una guerra europea poco conosciuta, che in due anni provocò oltre 5.000 morti e la nascita della piccola Repubblica della Transnistria, oramai indipendente de-facto da quasi trent’anni. La vera prima prova di forza fra Mosca e l’occidente fu nell’agosto del 2008, quando le truppe russe invasero la Georgia, il cui governo aveva l’obiettivo di portare il Paese nell’Ue e poi nella Nato 
Fra il ’92 e il ’94 fu la volta del conflitto fra Armenia ed Azerbaijan con la nascita della Repubblica del Nagorno-Karabakh (oggi ribattezzata Artsakh). Ma la vera prima prova di forza fra Mosca e l’occidente fu nell’agosto del 2008, quando le truppe russe invasero la Georgia, il cui governo aveva l’obiettivo di portare il Paese nell’Ue e poi nella Nato. La breve guerra provocò la nascita delle repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud, subito riconosciute da Russia, Venezuela e Nicaragua.
Ma il caso più eclatante è rappresentato dalla regione del Donbass, nell’Ucraina orientale. In prospettiva una possibile adesione di Kiev all’Alleanza Atlantica, Putin ordinò l’invasione della Crimea e la promozione di un referendum per l’annessione alla Russia. Ma il progetto era ancora più ambizioso: dilaniare l’Ucraina promuovendo la nascita della «Novorossiya», un nuovo Stato nel quale ospitare tutta la componente russofona dell’Ucraina. Per raggiungere l’obiettivo, la Federazione Russia non ha lesinato mezzi economici e militari ai governi delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e di Luhansk. 
Il progetto della Novorossjya è fallito grazie all’inaspettata reazione militare ucraina, che ha confinato le forze russe nella parte orientale del Paese, unitamente alla reazione di Usa ed Europa che hanno promosso un regime di sanzioni senza precedenti nei confronti della Russia. Oltre 1,5 milioni di profughi e più di 10.000 vittime, fanno del Donbass un pericoloso conflitto europeo che ha già prodotto più di una tragedia «collaterale»: il 17 luglio un missile terra-aria SA-11 di fabbricazione russa e lanciato dalle milizie di Donetsk, colpì l’aereo della Malaysia Airlines in volo fra Amsterdam e Kuala Lumpur uccidendo 298 civili, perlopiù famiglie di turisti olandesi.
Il conflitto senza fine 
Nonostante gli accordi di Minsk, nel Donbass si muore ancora: anche se è un conflitto a bassa intensità, ogni giorno si registrano vittime civili e militari da entrambe le parti e a fine agosto il Presidente dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, Alexander Zakharchenko, ha perso la vita in un attentato nel centro della città.

La Stampa 5.11.18
Da Torino a Varese
Il filo che unisce l’ultradestra a Mosca
di Andrea Palladino


Tirava un cupo vento dell’Est ieri in piazza Duomo, a Milano. Le porte del Palazzo Reale si sono aperte al convegno «Cent’anni dopo… Eurasia! L’arte incontra Aleksandr Dugin». Padrone di casa era la cooperativa Arnia, presieduta da Ines Pedretti, già candidata nel piccolo Comune di Casaleggio (Novara) per il Nsab, Nationalsozialistische arbeiter bewegung, il «Movimento nazionalista e socialista dei lavoratori». Partitino apertamente revisionista e filo nazista. Arnia è il gestore dell’Associazione culturale «La corte dei Brut» di Gavirate, in provincia di Varese - dove Dugin è stato pochi mesi fa ospite – enclave della destra radicale animata da Rainaldo Graziani. Figlio di Clemente, il fondatore di Ordine nuovo, era a capo di Meridiano zero, il gruppo della destra neofascista attivo negli Anni 90. È solo l’ultimo tassello di una alleanza strettissima tra l’ultradestra italiana ed europea con la Russia di Putin, legame che passa attraverso la figura di Dugin, la vera anima della svolta tradizionalista e reazionaria di Mosca, ispiratore del fronte delle autoproclamate repubbliche caucasiche, dall’Ossezia del Sud fino al Donbass in Ucraina, passando per la Crimea. È la geopolitica espansionista che sta attirando attorno a sé il mondo della destra neofascista, affascinata dalla «quarta teoria politica» del filosofo russo, apertamente ispirata ad Julius Evola e René Guenon. Incontri, convegni, centri studi. Ma anche simboli, come la sinistra lampada di Yule, la Julleuchter, prodotta e usata dalle SS: un oggetto che la cooperativa Arnia ha dato in dono ad Aleksandr Dugin lo scorso giugno, in una cerimonia nella Corte dei Brut. Un rapporto stretto, evocativo, che ieri ha avuto come palco il cuore nobile di Milano. Un punto di partenza di una iniziativa ampia e nazionale con il filosofo russo, racconta su Facebook Rainaldo Graziani.
Da Varese a Torino, da Milano a Riva del Garda. Due nomi legati alla cooperativa Arnia portano verso il Piemonte. La vicepresidente Nicoletta Cainero era la compagna di Giovan Battista Ceniti, l’esponente della destra della Val d’Ossola condannato in via definitiva per l’omicidio del cassiere di Mokbel Silvio Fanella. Insieme a lui è stato condannato Egidio Giuliani, ex Nar, che nella cooperativa occupava il posto della Cainero fino a quattro anni fa. Le indagini della Squadra mobile romana dell’epoca parlano poi di legami con l’area del neofascismo sul Lago di Garda.
Il filo che unisce la destra italiana con la Russia ha tanti fronti. A Torino opera l’ufficio di rappresentanza dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk. Il responsabile, Maurizio Marrone, il 6 settembre scorso si è fatto ritrarre in camicia nera, con alle spalle la bandiera del Donbass e la foto di Aleksandr Zakharchenko, presidente dei separatisti supportati da Putin, ucciso in un attentato il 31 agosto scorso. Lo stesso clima, un po’ meno marziale, c’era due giorni dopo a Verona. Il nome di Zakharchenko lo ha pronunciato il 6 settembre Vito Comencini, deputato della Lega, segretario della commissione Esteri a Montecitorio: «Un modo per rendergli onore», scrive su Facebook. Anima dell’Associazione Veneto-Russia, impegnato in vari tour nel Donbass secessionista, Comencini fa coppia fissa con Andrea Bacciga sotto inchiesta per un saluto romano diretto al gruppo delle donne «Non una di meno» in Consiglio comunale. E quando Bacciga dona un libro dell’ex SS Leon Degrelle alla biblioteca, il deputato leghista non ha dubbi: «Un bel gesto», commenta. Simboli, evocazioni, segnali politici che legano la passione per Putin e Dugin, passando per le autoproclamate repubbliche ucraine e giorgiane, con l’area della destra radicale.

Il Fatto 5.11.18
Amare un tedesco era reato: la Norvegia chiede perdono
di Siri Nergaard


Finalmente. Finalmente le donne che sono state condannate per aver amato un soldato tedesco ricevono le scuse. Finalmente il governo norvegese chiede scusa per aver punito, arrestato, rasato, espulso e internato migliaia di donne che avevano avuto relazioni con soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Finalmente il governo norvegese ammette di non essersi comportato come un Stato di diritto quando ha tolto la cittadinanza alle donne che si erano sposate con uomini tedeschi.
Dal 1940 al 1945 la Norvegia fu occupata dai nazisti. Dopo pochi mesi dall’occupazione capitolò, al governo si insediò Quisling e tutta l’amministrazione del Paese passò in mano ai tedeschi. Durante i cinque anni dell’occupazione la presenza di soldati tedeschi nel risultò massiccia, soldati a cui la Wehrmacht aveva dettato regole di comportamento precise: “Non siete lì per occupare, ma per proteggere, i norvegesi sono pacifici e riservati, abbiate tatto e non avanzate con troppa fretta”. Con questi soldati alcune donne norvegesi fecero conoscenza, qualcuna si innamorò, qualcuna si sposò. Ma queste storie e questi grandi amori sarebbero stati condannati come violazioni non solo di loro stesse, ma come tradimento alla nazione. Nella primavera del 1945, nel clima di grande festa per la liberazione, molte di queste donne furono punite pubblicamente con la rasatura dei capelli. E migliaia di donne, alcune ancora ragazze, altre mamme, vennero arrestate con il soprannome di puttana tedesca (tyskertøs). Perfino la legge sui matrimoni fu modificata per rendere illegali le unioni con uomini tedeschi celebrati dopo il 9 aprile 1940 – giorno dell’occupazione – e in pieno conflitto con la Costituzione con validità anche retroattiva. E a queste donne fu tolta la cittadinanza e vennero espulse dalla Norvegia. Agli uomini sposati con donne tedesche non fu riservata la stessa legge. I numeri sono incerti, ma si parla di 30-50 mila donne sospettate e accusate, 3-5 mila internate, e 10-12 mila bambini tedesco-norvegesi registrati. A dimostrazione del fatto che molte verità devono ancora essere svelate, sta la grande varietà di numeri, che alcuni sostengono essere molto più alti.
L’occasione per le scuse è l’anniversario dei 70 anni dalla dichiarazione universale dei diritti umani a Parigi nel 1948, ed è la prima ministra norvegese, Erna Solberg, che a nome del governo chiede scusa a tutte le donne che dopo la seconda guerra mondiale vennero punite per le loro relazioni con soldati tedeschi. “Come furono tutelati i diritti universali di queste donne dopo la guerra?”, domanda la prima ministra nel suo discorso. Una commissione istituita dal Centro Holocaust di Oslo ha concluso che queste donne furono oggetto di trattamenti inumani, e che in molti aspetti lo Stato di diritto nei loro confronti fu violato. Erna Solberg ringrazia tutti quelli che hanno contribuito a fare luce su questa macchia nella storia norvegese ed esprime un particolare riconoscimento alle donne che hanno avuto la forza di raccontare le loro storie di discriminazione e stigmatizzazione. Poche di queste donne sono ancora in vita, per loro le scuse arrivano in ritardo, ma possono essere altrettanto significative per il figli, vittime quanto le madri, cresciuti con lo stigma, con la vergogna, con il razzismo.
Uno di loro, Reidar Gabler, nato nel campo in cui fu internata sua mamma dopo la guerra, racconta alla televisione norvegese, Nrk, che si sente sollevato dalle parole della prima ministra Solberg. “Mia mamma non era una criminale, la sua colpa era solo di essersi innamorata di mio padre, un soldato tedesco”: Reidar vuole raccontare, vuole testimoniare, per il valore della conoscenza e della memoria. La mamma, Else, aveva 22 anni quando incontrò Erich Gabler, un amore durato tutta la vita e per cui pagò un prezzo alto. Finita la guerra, Erich venne arrestato e Else lo andava a trovare nella prigione di nascosto. Restava con lui anche per giorni, rifugiandosi in un buco sotto il pavimento durante le ispezioni. Ma fu scoperta e internata nel campo in cui fece nascere Reidar. Poi seguì l’espulsione dalla Norvegia, gli anni in una Germania devastata dove soffrirono la fame. Negli anni 50 a Else e ai figli fu concessa la possibilità di visitare la Norvegia, il marito tedesco temeva che non sarebbero più tornati. Ma Else tornò dal suo Erich a visse a Berlino fino alla sua morte. Il figlio Reidar decise di rientrare in Norvegia da adulto – senza la mamma – ma lei ne era lieta, il cerchio si era chiuso. Ma lo stigma lo seguì, alla Nrk Reidar racconta come la dura punizione ha segnato profondamente la sua vita e quella della sua famiglia, per generazioni: “Mio suocero, attivo nella resistenza durante la guerra ebbe fatica ad accettarmi come genero, e mio figlio venne additato come nazista a scuola”. Ci sono voluti più di 70 anni per esprimere queste scuse. Più di 70 anni di vergogna, memoria e trauma per le donne e i loro figli che hanno subito umiliazioni profonde. Sono stati troppi gli anni di attesa per queste scuse.
La Norvegia, che si reputa tra i primi per eguaglianza tra i generi e diritti delle donne, non avrebbe dovuto aspettare tanto. Ora, dopo queste scuse, che indubbiamente sono di grande valore simbolico, ci aspettiamo che certi archivi ancora chiusi vengano aperti, che la storia di queste donne sia finalmente risarcita.

Corriere 5.11.18
Il mistero della freccia del tempo
Lo scienziato Eugenio Coccia, rettore del Gran Sasso Science Institute«Einstein ci ha liberato da pregiudizi che erano passati inosservati per secoli»
Cosa c’è tra la teoria della relatività e la meccanica quantistica?
Nuove sfide nella terra di nessuno
di Giovanni Caprara


«La relatività di Einstein ha cambiato tutto. Ha liberato lo spazio e il tempo da pregiudizi che erano passati inosservati nel corso dei secoli. Li ha portati a essere protagonisti di una nuova teoria fisica accessibile all’osservazione», spiega Eugenio Coccia, rettore del Gran Sasso Science Institute, la nuova scuola universitaria superiore a L’Aquila.
«Con Einstein — continua lo scienziato — lo spazio e il tempo non sono più delle variabili rigidamente separate e quello che abbiamo imparato a chiamare spazio-tempo si deforma in presenza di masse ed energia. Lo aveva previsto nella sua teoria della relatività generale ed era stato dimostrato nel celebre esperimento del 1919 quando l’astronomo britannico Arthur Eddington misurò, con una spedizione rimasta celebre alle isole Sao Tomé e Principe, la deformazione dei raggi di luce di stelle lontane durante un’eclissi di Sole. In particolare, per quanto riguarda il tempo, il suo ruolo come parametro fondamentale nei fenomeni naturali è stato compreso soltanto nel tardo Medioevo».
Prima del grande genio era intervenuto Galileo Galilei a cambiare radicalmente la prospettiva cosmica, la descrizione della natura, abbattendo l’immutabile sfera di cristallo celeste immaginata dal grande Aristotele. La sua scoperta delle quattro lune intorno a Giove, dedicate ai Medici, non è solo l’individuazione di nuovi corpi celesti. «È la scoperta dell’ignoranza — nota Coccia —, la dimostrazione che tutto quello che si poteva sapere non era già stato scritto nei libri e che non c’erano verità indiscutibili. La scoperta di Galileo nasceva dal dovere di dubitare e dalla necessità di osservare direttamente per verificare con gli esperimenti la natura delle cose».
Galileo è stato il primo a dare un ruolo alla nozione scientifica del tempo garantendogli una misura precisa. Lo ha dimostrato facendo ricorso all’acqua che esce in un «cannellino» da un secchio d’acqua calcolando i tempi al decimo di secondo, oppure misurando lo scorrere di sfere lungo un piano inclinato arrivando a stabilire la legge del moto. E ancora, osservando le oscillazioni del lampadario appeso nel duomo di Pisa, ha evidenziato un principio che sarà alla base della teoria delle relatività generale di Einstein.
«Per Galileo, inoltre — continua Coccia —, il piano inclinato è uno strumento di indagine per forzare la natura e coglierne i suoi segreti. Quindi lo possiamo considerare come il progenitore degli attuali acceleratori con i quali si compie lo stesso tipo di esplorazione. Non possiamo ignorare, però, che uno spirito scientifico, in senso naturalistico, emerge anche nelle visioni di Dante descritte nella Divina Commedia quando immagina ai limiti estremi del cosmo un punto identificabile con l’origine dell’universo: oggi ci appare come un’affasciante intuizione poetica di quanto abbiamo capito solo nel secolo scorso con la scoperta del big bang».
Ma ora la fisica dello spazio e del tempo quale sfida ha davanti? «Tra la teoria della relatività e la meccanica quantistica — continua il rettore del Gran Sasso Science Institute — esiste una terra di nessuno che ancora non si è riusciti a decifrare. C’è un gap fondamentale che oggi rappresenta la nostra sfida più ardua, perché non possono esistere due descrizioni inconciliabili della realtà. Entrambe sono necessarie ma deve esistere un modo per unirle assieme. I fisici teorici hanno proposto varie ipotesi, dalla teoria delle stringhe alla loop quantum gravity ma ancora non si è riusciti a trovare qualche indizio di conferma nelle prove sperimentali».
Qui esiste un limite nella tecnologia a disposizione, perché negli esperimenti bisognerebbe raggiungere un’energia molto più elevata di quella offerta dagli attuali acceleratori, anche potenti, come il Large Hadron Collider Lhc del Cern di Ginevra.
«Infine c’è il mistero della freccia del tempo — conclude Eugenio Coccia — che va in una sola direzione: sempre avanti. Qui possiamo pensare di allacciare questo andamento a due altri fenomeni, pure loro unidirezionali: il primo è l’espansione dell’Universo, il secondo è legato all’aumento inevitabile dell’entropia, cioè alla tendenza naturale dei fenomeni naturali alla dispersione e al disordine».
La fisica, insomma, è un’avventura che continua.

Repubblica 5.11.18
Capolavori
Un viaggio all’inferno con la plebe di Belli
di Alberto Asor Rosa


Riuniti in quattro volumi gli oltre duemila sonetti del grande poeta romano. La cui opera molti assimilano alla "Commedia" dantesca
Capita talvolta di veder usare dal critico-recensore il termine «monumentale» a proposito di questa o quella impresa libraria. Non credo, però, che questo sia mai stato così adeguato all’oggetto come nel caso che da qui in poi tenterò di descrivere: una «monumentale», appunto, edizione de I sonetti di Giuseppe Gioachino Belli, critica e commentata, a cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, in quattro giganteschi volumi (nella collana dei «Millenni» Einaudi ). Le dimensioni della pubblicazione sono del resto adeguate a quella dell’opera: si tratta di ben 2.279 sonetti, per complessivi 32.208 versi, più del doppio della Commedia di Dante: opera, del resto, alla quale quella del Belli è stata più volte accostata, assumendo talvolta il titolo, surrettizio, ma non inappropriato, di Commedione.
Gli apparati critici, biografici e bibliografici sono tutti di altissimo livello, e a misura dell’opera. Nella sua introduzione, intitolata (non a caso, come abbiamo visto) Belli, moderno Dante, Pietro Gibellini, che senza ombra di dubbio è il migliore conoscitore oggi dell’opera belliana, ne traccia un profilo articolato in tutte le sue parti e corrispondenze. Una lettura di questo testo apre le porte a una visione più chiara della caleidoscopica, vivente, eloquente, e spesso brutale, irridente e scatenata realtà popolare romana, in un momento particolarmente critico, vale la pena di precisarlo, della sua storia. M’interessa da qui in poi sottolineare alcuni punti. Il primo riguarda l’alta coscienza che il Belli, modesto impiegato dell’amministrazione pontificia, rivela nel compiere tali scelte, impegnativissime. Il Belli ha premesso alla sua raccolta sebbene non nutrisse alcuna intenzione di pubblicarla, evidentemente non avrebbe potuto farlo se non a rischio di finire nelle segrete di Castel Sant’Angelo - una introduzione d’impressionante lucidità. Innanzi tutto la singolarità estrema, ai limiti dell’isolamento più assoluto, di quella che era destinata a diventare la protagonista assoluta della sua poesia dialettale: «In lei (plebe) sta un certo tipo di originalità… tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene (mantiene) una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo» (I. p.7). E cioè: che Belli abbia torto o ragione, inequivocabilmente lui afferma l’«originalità» e l’«inconfondibilità» assolute del soggetto principale - anzi unico della sua poesia, e cioè il popolo romano.
Se questo è il suo rapporto con il soggetto principale, anzi unico, della sua poesia, ne consegue da parte sua un atteggiamento interpretativo e rappresentativo perfettamente coerente con l’identità popolare, che dovrebbe da lui essere rappresentata e interpretata. Se quella è assolutamente unica e sola impressionante! - solo una «verità assoluta» si rivelerà in grado di rappresentarla e interpretarla veritieramente. Niente può essere lasciato alla pura invenzione (in questo senso Belli è anche poco romantico; per scoprirne il segreto e profondo romanticismo, bisognerebbe cercare altrove).
Infatti, così suonano le dieci parole di esordio della sua Introduzione: «Io ho deliberato di lasciare un momento di quello che oggi è la plebe di Roma». Se fosse ancora necessario, Belli continua di seguito a insistere e a chiarire: «Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma ma il popolo è questo: e questo io ricopro, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento» (I. p.11).
Se le cose stanno così, - e io, naturalmente, non dubito che stiano così - due domande si pongono. La prima: com’è possibile che l’unico scrittore italiano nato e vissuto a Roma sia un poeta dialettale? (l’unico? E chi altri, se no? Metastasio? Nel Novecento la situazione cambia un po’: ma Moravia è scrittore all’altezza del Belli? E la cubana-parigina De Cespedes può definirsi stricto sensu una scrittrice romana?). La seconda domanda: è mai possibile che nel novero dei quindici-venti scrittori italiani più alti di tutti i tempi un poeta dialettale come Belli occupi un posto di tanto rilievo?
Queste domande, e le loro eventuali risposte, sono secondo me decisive per valutare a pieno grandezza e ruolo di Belli. C’è un enigma da sciogliere nella collocazione storica di Giuseppe Gioachino Belli, da cui in un certo senso dipende tutto il resto. Al centro del problema ci sono Roma, la sua (cosiddetta) plebe e il linguaggio della sua plebe. Roma, dopo milleduecento anni di dominazione pontificia - una misura incredibile, rara se non unica nel resto del mondo -, appare come un buco scavato dolorosamente nel fondo del modo d’essere umano. Belli, potenzialmente un intellettuale risorgimentale di prim’ordine, ma represso e scagliato anche lui laggiù in fondo, avrebbe potuto usare l’italiano forbito degli Arcadi e degli illuministi per descrivere veritieramente e al tempo stesso poeticamente quest’abisso senza fondo?
Evidentemente no; e perciò sceglie come suo protagonista la plebe, il veicolo della verità (che Riccardo Merolla chiamava giustamente "il protagonismo plebeo"), e di quelle plebe adotta in pieno il linguaggio (il dialetto romanesco, che io preferisco chiamare romano), che è la forma espressiva esemplare di quella verità e infatti riflette in ogni sua sfumatura - dal ridicolo al tragico, dal sudicio all’appassionato - quel mondo.
Torniamo su di un punto già toccato. A questo Belli giunge semplicemente (semplicemente!) per la forza trascinante della sua vocazione poetica. Infatti: la verità alla quale Giuseppe Gioachino senza remore né limiti si ispira, non è una categoria intellettuale né tanto meno etica: è una legge fisico-esistenziale, è la forza trascinante non del cervello ma del corpo quando decide di agire e di farsi sentire, e a cui non si può in nessun caso sfuggire, ammesso che lo si voglia. Belli non potrebbe esser più chiaro e definitivo: «la verità è ccom’è la cacarella /Che cquanno te viè ll’impito e tte scappa /hai tempo, fijja, de serrà la chiappa /E stòrcete e ttremà ppe rritenella…» ( La Verità II, p. 1993).
Questo è il dogma fondativo dell’intera poesia belliana: questo è il valico per andare ancora di più in profondità.
Dal documentario all’esistenziale, dalla rappresentazione veritiera al grandioso. Questo è l’ultimo passaggio. La grandezza di Belli consiste infatti nel rispettare la verità senza cedimenti di nessuna natura: ma consiste al tempo stesso nel non limitarsi a fissare ossessivamente un aspetto particolare della condizione umana (anche se c’è anche questo, come abbiamo detto più volte). Va al di là di questo: scopre, e ci fa scoprire, che si tratta invece di un aspetto universale della condizione umana, lì celato, e da lui riscoperto, al quale comunque, quale che ne siano le premesse esistenziali, nessuno può sfuggire. In conclusione: tra i grandi scrittori italiani Belli è inequivocabilmente quello che va più a fondo nel rappresentare la irrimediabile sconfitta dell’uomo di fronte al proprio destino (anche il grande, grandissimo Dante, così esperto nel rappresentare i mali dell’uomo, ha tuttavia in serbo una riserva finale, quella teologica, e dunque la sempre possibile salvazione, che Belli ha ab imis e per sempre cancellato).
Due sono le condizioni negative irrimediabili della vita umana: la feroce disuguaglianza, come permea il modo stesso d’essere dell’uomo e lo strizza fino in fondo ( Li dù ggener’umani III, p. 2603); e, ancor più radicalmente, la vita umana in sé, che non lascia scampo alcuno a chi la vive e si trasforma inevitabilmente in una condanna ( La vita dell’Omo; II, p.
1749). Come avrebbe potuto Belli arrivare a queste ultime, fulminanti conclusioni, se non si fosse spinto anche lui nel fondo dell’abisso?

Repubblica 5.11.18
L’America che verrà, su La7 in esclusiva " Fahrenheit 11/ 9" di Michael Moore


Serata evento su La7: alle 21.15 andrà in onda in esclusiva tv Fahrenheit 11/ 9 di Michael Moore. Il film evento, che sarà presentato e introdotto da Enrico Mentana, ripercorre con sguardo provocatorio le elezioni presidenziali e i primi 2 anni di mandato del 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, a partire proprio dal 9 novembre 2016, giorno della sua elezione. Già premio Oscar e Palma d’oro, il regista segna con il consueto stile sarcastico e il suo spirito del "politicamente scorretto" un nuovo documentario d’inchiesta, 14 anni dopo Fahrenheit 9/ 11 (campione d’incassi con 222 milioni di dollari in tutto il mondo). Moore torna a osservare la politica americana e l’inquilino della Casa Bianca, indagando sui fenomeni che hanno portato all’elezione del tycoon e sui possibili scenari futuri negli Stati Uniti. Tra le curiosità del film rivelate da Moore una riguarda Cesar Sayoc, il presunto Unabomber accusato di aver spedito 14 pacchi bomba ad avversari politici di Trump (tra cui Barack Obama e Hillary Clinton). Sembra che proprio Sayoc compaia casualmente in un filmato di Fahrenheit 11/ 9 girato da una troupe durante le riprese. La7 nel segno degli Stati Uniti anche domani: a mezzanotte torna la #maratonamentana, dedicata alle attese elezioni del Midterm Usa.

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