Corriere 5.11.18
Così Santoro tratta per far ripartire «l’Unità»
di Claudio Bozza
In
tv manca da quasi due anni, ma Michele Santoro potrebbe tornare alla
ribalta. Con un colpo di scena e ripartendo dal suo primo amore: la
carta stampata. Il giornalista sta infatti portando avanti una delicata
trattativa per riaprire l’Unità, dove iniziò a fine anni 70, e
riportarla in edicola. La pubblicazione del quotidiano fondato da
Antonio Gramsci è cessata il 3 giugno 2017, con la società oppressa da
circa 10 milioni di debiti. Santoro, da settimane, si sta confrontando
con Guido Stefanelli, amministratore delegato della società editrice,
per cercare un punto d’incontro. Tra le varie condizioni che il
giornalista avrebbe posto ci sarebbe quella di non essere dipendente
della società editrice, di cui vorrebbe bensì acquistare una parte di
quote. Da tempo, infatti, il Pd (che deteneva il 20% delle azioni
tramite Democratica Srl) ha ceduto le quote al gruppo Pessina, di cui
Stefanelli è appunto rappresentante. Il piano editoriale di Santoro, in
un momento di forte successo di Lega e M5S, confiderebbe nell’appeal di
una linea di sinistra.
Corrriere 5.11.18
Dove sono i difensori della Carta
di Angelo Panebianco ,Andrea Pertici
Caro direttore,
in
un editoriale del 2 novembre, Angelo Panebianco torna a chiedersi dove
sono tutti quanti i difensori della Costituzione, con riferimento
soprattutto ai critici dell’ultima riforma costituzionale. Sembra siano
sfuggiti i ripetuti interventi dei costituzionalisti a difesa delle
prerogative del presidente della Repubblica, così come le aspre critiche
a misure di dubbia costituzionalità, come il decreto sicurezza.
D’altronde,
sulle riforme costituzionali, il contratto di governo ha un approccio
minimalista e il ministro Fraccaro ha ribadito che esse, consegnate a un
ampio confronto parlamentare, saranno limitate a ridurre i parlamentari
e a un ragionevole rafforzamento di istituti di democrazia diretta. Un
approccio molto diverso e ben più rispettoso della Costituzione. Ma le
argomentazioni di Panebianco potrebbero essere rovesciate.
Nella
scorsa legislatura, i parlamentari del Pd in dissenso dal segretario
sono stati rimossi dalle commissioni parlamentari, mentre con la riforma
costituzionale si intendeva ridurre il Parlamento a strumento di
ratifica della volontà del governo.
Allora dove erano tutti quanti gli attuali difensori del Parlamento e del divieto di mandato imperativo?
Professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Pisa
I
«ripetuti interventi dei costituzionalisti» sono soltanto, nelle
condizioni presenti, flatus vocis. È bizzarro che il professor Pertici
polemizzi con me anziché occuparsi di quanto vanno proponendo in materia
costituzionale i leader del partito di maggioranza relativa. Non è
necessario essere dei geni politici per collegare l’approccio del
ministro Fraccaro alla questione della democrazia diretta, approccio —
stando a quanto dice l’esimio costituzionalista — «rispettoso della
Costituzione» (al pari del «contratto di governo»), con le posizioni —
non precisamente minimaliste — espresse sullo stesso argomento dai capi
dei 5Stelle, nonché capi del medesimo Fraccaro. Per spiegare certi
imbarazzanti silenzi ho parlato di «affinità elettive». Confermo.
Repubblica 5.11.18
Se il governo ha paura della cultura
di Dario Olivero
«Quando
sento parlare di cultura, metto mano alla pistola». Che lo abbia detto
Goebbels come si tramanda o il suo altrettanto devoto collega di partito
Von Schirach, la sentenza rende in modo diretto la considerazione che
il nazismo aveva della cultura. Altri tempi, altre condizioni, come si
affrettano a dire professionisti del distinguo, esegeti delle
circostanze, chiosatori di filosofia della storia. Che nel merito del
dettaglio trovano sicuramente le loro ragioni e poco importa che
dall’America, Brasile compreso, alla Russia alla fu laica Turchia fino
alla falda balcanica la forma di governo che si sta affermando assomigli
sempre più a una autocrazia sancita dalla sacralità del voto che il
termine populismo quasi nobilita. Il governo italiano, molto più che
semplice spettatore in questa sfilata dello spirito del tempo, ha
tagliato le risorse per la cultura. Senza mettere mano alla pistola ma
alle forbici, e non avendo ancora la forza per rivendicarlo, lo ha quasi
nascosto sotto un articolo della manovra dal titolo "ulteriori tagli di
spesa". Come raccontato da Repubblica, i tagli riguardano, in questo
piuttosto democraticamente, crediti di imposta per librerie, case
editrici, cinema, agevolazioni per i musei privati, una drastica
riduzione delle assunzioni previste per far fronte alla cronica carenza
di personale nei beni culturali e un deciso assottigliamento dei fondi
per il bonus cultura degli under 18.
Insomma, in questo modo e in un
colpo solo vengono messi in difficoltà i settori economici che si
occupano di "consumi culturali", concetto diverso da quello di cultura
ma che, rispetto a quest’ultimo, ha il vantaggio per lo Stato di essere
individuato, quantificato e, appunto, colpito.
Perché?
In tempi
recenti, ma ormai di una diversa era geologica della politica, si
sarebbe detto perché con la cultura non si mangia e ben altri sono i
settori in cui investire per il rilancio dell’economia. Ma in questo
caso non si fatica a scorgere una nuova concezione del mondo e del
futuro che erutta a volte brutalmente contro studiosi, accademici,
professori, editori, professionisti, giornalisti, insomma i cosiddetti
intellettuali trasformati spesso in macchiette al servizio di chi vuole
il male del popolo, come avrebbe detto il ribelle Jack Cabe di
Shakespeare. L’ultimo esempio è il livore leghista che si è abbattuto
sul festival dell’economia di Trento, un vero gioiello. Un evento, come
tanti nell’Italia dei mille festival culturali, che rappresenta e
incarna ciò che non è amato da questa maggioranza: voglia di sapere,
bisogno di risposte, ricerca di qualcosa che non sia "clicca e consuma".
Perché i cosiddetti consumi culturali, a differenza delle altre
categorie merceologiche, possono trasformarsi, in modi tortuosi,
indiretti, faticosi ma comunque utili in cultura. Colpisci i primi,
colpirai la seconda. La cultura serve a emanciparsi, a uscire da
condizioni di partenza svantaggiate, a formare nuove élite (sì, non è
una brutta parola se si diventa tali con lo studio e il lavoro duro),
legge eticamente nelle storie umane un’unica storia, trova compagni di
viaggio in artisti ormai morti e parole di rabbia o di consolazione in
scrittori antichi quanto profetici. È contro questo che si abbattono gli
"ulteriori tagli di spesa" decisi dal governo. La storia lo insegna:
ogni volta che si manomette la cultura, si finisce per sentire parlare
di pistole.
Repubblica 5.11.18
Cinque stelle al buio
di Piero Ignazi
L’inversione
dei rapporti di forza tra 5Stelle e Lega mette in tensione l’alleanza
di governo. Come giustamente sottolineava Massimo Giannini, il M5S è un
taxi che la Lega ha utilizzato per andare a Palazzo Chigi, e dal quale
può scendere quando vuole. Non subito, perché gli interessa logorare il
più possibile il proprio partner facendogli ingoiare ogni giorno un bel
rospo. Dichiarazioni velenose e sfottenti a mezza bocca a Roma ma a
squarciagola nei territori del Nord-Est, norme sulla sicurezza fatte
apposta per far venire l’orticaria alla componente legalitaria dei
pentastellati, emendamenti a pioggia per annacquare il progetto di legge
anticorruzione, dubbi e perplessità distillati ogni giorno sul reddito
di cittadinanza per rimandarlo e renderlo il più possibile confuso e
impraticabile. Una strategia chiara quella della Lega, che passa dalla
demolizione dei compagni di strada bollati come incapaci e confusionari,
e dalla riproposizione a tutto tondo della propria agenda securitaria,
xenofoba e scassa- finanze, a favore della constituency dei lavoratori
autonomi di ogni tipo e genere, bastione elettorale leghista da sempre. A
questa linea politica coerente e ben orchestrata il M5S non riesce a
fare argine. Onestà, trasparenza, innovazione, ambientalismo e cura del
territorio sono stati tutti immolati sull’altare del contratto di
governo da onorare o travolti dalla cattiva coscienza (si veda, su
tutti, il condono esteso a Ischia) e dalla impreparazione della classe
dirigente colta in fallo su quasi ogni provvedimento. Insomma, un
effetto Raggi a livello nazionale. Al M5S non rimane che il totem del
reddito di cittadinanza, unico faro con cui illuminare la sua opaca
attività di governo. Ma ben difficilmente andrà in porto. La resistenza
passiva della burocrazia e le oggettive difficoltà di implementazione di
un progetto così ambizioso lo ridimensionerà.
È comunque
straordinario come i pentastellati vadano incontro alla catastrofe
apparentemente compatti come una "testuggine romana", salvo qualche
sporadico dissenso. Da questa sorte, al momento ineluttabile, possono
uscire, pur con danni, adottando due svolte, molto diverse tra loro, che
portano entrambe a una ridefinizione del sistema partitico nazionale.
La
prima uscita di sicurezza può essere attivata da un intervento
salvifico del redivivo Di Battista che riattivi tutto l’armamentario
retorico di stampo populista e barricadiero, un po’ appannato in questi
mesi ( salvo improvvisi balzi d’umore come i festeggiamenti dal
balcone). Innestare questa marcia significa rompere con la Lega, uscire
dal governo e rilanciare il " movimento" su tutte le tradizionali
battaglie anti-establishment. Sarebbe il riconoscimento della esplicita
difficoltà, e della implicita capacità, a governare. Il M5S, pur
mantenendo un suo capitale elettorale, ancora cospicuo benché ridotto
rispetto ai fasti del 4 marzo, si relegherebbe, di nuovo, ad un ruolo di
opposizione radicale. La Lega subirebbe qualche contraccolpo perché
anche nel suo elettorato vi sono ampie aree "anti-sistemiche" sulle
quali un M5S all’attacco morderebbe, e il Pd potrebbe recuperare quelle
componenti deluse dal renzismo ma indisposte a seguire il Movimento in
questa deriva e inclini piuttosto a tornare su un partito connotato (di
nuovo) a sinistra.
La seconda segue in parte lo stesso schema ma con
un protagonista diverso ( Roberto Fico) e con prospettive "più
politiche". In questo caso la rottura con la Lega non si dirige verso un
incremento del tasso di alterità rispetto al " sistema" bensì si
inclina verso un maggiore pragmatismo e una potenziale apertura alla
sinistra. A fronte della ricostituzione, ormai già in atto,
dell’alleanza storica di "centro destra" — ma è tempo di chiamarla di
destra tout court, visto il dominio salviniano — non potrà esserci altro
che uno schieramento alternativo di pentastellati e democratici, in
senso stretto e lato. Ad oggi sembra fantapolitica ma la rapidità con
cui mutano gli orientamenti dell’opinione pubblica induce a contemplare
anche questa ipotesi. Che, in realtà, è l’unica alternativa reale a un
governo Salvini. Di pop corn ne abbiamo già mangiati abbastanza in
questi mesi per doverne fare una indigestione grazie a Matteo (Salvini).
Repubblica 5.11.18
Il militare che ha denunciato
Il carabiniere in sala per il film su Cucchi " Non potevo più tacere"
di Giuliano Foschini
Di che cosa stiamo parlando
Il
caso di Stefano Cucchi, il geometra romano morto nel 2009 mentre era in
custodia cautelare per spaccio, si riapre nel 2015 con la testimonianza
di Riccardo Casamassima: l’appuntato dell’Arma rivela di aver raccolto
la confidenza di un collega sul pestaggio di Cucchi da parte di tre
carabinieri. La svolta l’11 ottobre scorso quando, durante un’udienza al
processo, il carabiniere Francesco Tedesco ammette il pestaggio e
accusa dell’aggressione i colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di
Bernardo.
ANDRIA Sono qui perché spero che riflettiate. Questo
film è un invito a pensare: vi racconta che un ragazzo è stato
massacrato di botte senza un perché. E che chi lo ha fatto, non ha
mantenuto la promessa di chi porta quella divisa. I carabinieri non sono
loro». Riccardo Casamassima è seduto su un palco parrocchiale della sua
città, Andria. È arrivato in Puglia da Roma raccogliendo l’invito di un
gruppo di ragazzi dell’associazione IdeAzione: avevano deciso di far
vedere il film di Alessio Cremonini, Sulla mia pelle, che racconta cosa è
accaduto a Stefano Cucchi. È venuto a parlarne lui, il primo
carabiniere a rompere il muro di omertà attorno al pestaggio.
Nessuno
meglio di questo carabiniere che, per primo, davanti ai magistrati ha
detto: «Nell’ottobre 2009 il mio collega, il maresciallo Roberto
Mandolini,si è presentato in caserma: mi confidò che c’era stato un
casino perché un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi, e
quando si riferì ai "ragazzi" l’idea era che erano stati quelli che lo
avevano arrestato».
«Per le mie parole, mi sono già stati aperti
parecchi procedimenti disciplinari», dice Casamassima, quando le luci
della sala sono ancora alte, riferendosi ad alcune interviste rilasciate
in questi mesi. "Non potrò parlare del processo, ma sono qui per dire
che ho scelto di fare il carabiniere perché credevo e credo ancora
nell’Arma. Noi non siamo quelli che raccontano in quello schermo. Un
ragazzo viene massacrato di botte senza un perché, e questo è
inaccettabile.
Chi entra nelle mani dello Stato deve poter tornare a
casa. E invece Stefano Cucchi è entrato sano in una caserma ed è uscito
morto".
Casamassima ha parlato però dopo sei anni. Tardi, tardissimo.
«Ho
deciso di testimoniare quando mi sono reso conto che erano state
condannate persone innocenti. Quando da questa città, la mia, sono
andato via per fare il carabiniere l’ho fatto perché credevo di stare
dalla parte giusta. E allora dovevo dire quello che sapevo: dovevamo
dare una verità a una famiglia che la stava cercando in maniera
disperata». Casamassima racconta che la sua scelta ha avuto un costo,
non soltanto umano. «Mi hanno trasferito, per danneggiarmi. Sono stato
demansionato. Ancora oggi non sono stato messo nelle condizioni di fare
il mio lavoro». La sala è piena, zeppa. Ci sono ragazze e ragazzi, molte
persone anziane.
Fuori piove, i ragazzi dell’organizzazione giurano
di essere apartitici e apolitici ma qualcuno in sala assicura che ci
sono molte persone che abitualmente votano per il centrodestra. «È la
prova che non è questione di bandiere. La storia di Stefano appartiene a
tutti», dicono mentre ormai ci sono soltanto posti in piedi.
Casamassina
continua: «Mi sono convinto di aver fatto la scelta giusta quando al
termine del primo processo ho sentito la madre di Stefano dire: "Adesso
torniamo a casa e troviamo nostro figlio"». Le luci si spengono.
Un’ora
e ventotto minuti dopo sullo schermo c’è un carabiniere seduto davanti a
Milvia Mirigliano, l’attrice che interpreta la mamma di Stefano, Rita.
Le dice: «Signora ho una brutta notizia da darle: suo figlio Stefano è
deceduto».
Il Fatto 5.11.18
Il populismo raccontato dai fatti senza giudizi né sentimenti
Maurizio Molinari analizza il vuoto lasciato dalle vecchie forze politiche
di Furio Colombo
Maurizio
Molinari, direttore de La Stampa, ha scritto in modo rapido e preciso
l’articolo che forse si aspetta sempre dai suoi colleghi redattori:
niente sentimenti e molti fatti ben connessi tra loro, in modo da
dimostrare quel che è accaduto senza sostare sul prima, sul dopo e sul
giudizio.
Molinari, con la sua passione per un giornalismo che è
soprattutto reporting, non ama il populismo, che viaggia in un fumo di
leggende e di storie inventate e installa continuamente un nuovo
tribunale per dimostrare o ripetere la colpa degli altri. Ma non ha
scritto un libro breve e nervoso per giudicare.
Lo scopo è ricostruire il percorso perché il lettore sappia come ci siamo arrivati.
Proprio
per la sua freddezza, per la sua narrazione priva di enfasi, l’autore
offre un manuale molto utile al lettore. Impedisce che vengano
dimenticati passaggi essenziali (lo spazio vuoto lasciato da ogni altra
forza politica alla calata ed espansione del nuovo verbo, unica
eccezione, nelle loro modeste dimensioni, i Radicali). E suggerisce di
non inchinarsi ad alcun miracolo: c’era uno spazio vuoto, e quel posto è
stato occupato, anche se il fervore della vittoria inaspettatamente
rapida ed eccessiva, ha provocato trionfalismi e aspettative fuori
misura.
Leggendo e scrivendo del libro di Molinari (Perché è successo
qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa, La
nave di Teseo), mi trovo d’accordo e in disaccordo.
L’accordo è
sulla persuasione che tutto ciò non passa presto (io aggiungo:
l’insediamento di credenze e superstizioni, fino ai vaccini, in un
territorio liberato dalla Resistenza europea, ha messo subito radici ed è
in grado di resistere e di durare).
Il disaccordo è sul considerare ciò che è avvenuto una sorta di fenomeno spontaneo.
In
questo modo si negano le mosse coordinate di una destra del mondo che
si è presa gli Usa, il Regno Unito, l’Austria, i Paesi di Visegrad,
l’Ungheria, la Turchia, l’Egitto, l’Arabia Saudita e ora il Brasile.
L’Italia, in poche settimane, si è spostata a destra al di là di ogni
speranza o tentativo estremista, nonostante la sua Costituzione e la
resistenza del presidente della Repubblica. Sembra evidente che “non è
che un inizio”.
Il Fatto 5.11.18
Populismo, arriva la risposta delle élite: democrazia rigida
L’economista
Dambisa Moyo indica dieci riforme per arginare il caos e garantire
crescita: mandati più lunghi agli eletti, voto obbligatorio ma solo per
chi se lo merita, argine ai finanziamenti privati
di Stefano Feltri
Prima
o poi doveva succedere: dopo due anni di shock, tra Brexit e vittoria
di Donald Trump, è iniziata la riscossa culturale dell’establishment di
fronte all’avanzata dei movimenti populisti. L’Economist riscopre i
grandi pensatori liberali, da Mill a Tocqueville, ora arriva in Italia
il libro dell’economista Dambisa Moyo, uscito da poco negli Usa, che
offre una serie di ricette pratiche per salvare la democrazia dai suoi
elettori e dall’assenza di crescita che sta mimando un contratto sociale
fondato sulla redistribuzione della nuova ricchezza generata. Sono
proposte che affrontano un problema che sarebbe sbagliato sottovalutare,
cioè la scarsa capacità decisionale (percepita e reale) delle
democrazie liberali che sembrano troppo farraginose e dispersive per
affrontare le sfide della globalizzazione e per rispondere a una rabbia
popolare che sfocia nell’invocazione di leader decisionisti, modello
Vladimir Putin o Xi Jinping. Ma pare un po’ perverso proporre di
correggere la “miopia della democrazia” – i politici hanno incentivi a
fare scelte troppo di breve termine per produrre crescita – riducendo il
potere degli elettori e cercando di avvicinarsi a quella figura teorica
che gli economisti nei loro modelli chiamano il “dittatore
benevolente”.
“La necessità di riconfermarsi alle elezioni impedisce
l’effettiva allocazione delle risorse da parte dei rappresentanti
eletti, troppo spesso i mandati elettorali tengono i politici legati
agli individui e agli interessi aziendali che contribuiscono a
finanziare la loro campagna e ai capricci dei sondaggi”, scrive Dambisa
Moyo in “Sull’orlo del caos – rimettere a posto la democrazia per
crescere” (Egea). La Moyo incarna le promesse realizzate del
capitalismo: è nata in Zambia nel 1969, ha studiato chimica in patria e
all’American University, master ad Harvard, dottorato in Economia a
Oxford. Oggi siede in vari consigli di amministrazione come Barclays
(una grande banca) e Chevron (petrolio) e gira il mondo a dispensarei
consigli strategici. Le sue tesi si possono quindi considerare un buon
indicatore degli umori di una certa élite cosmopolita.
L’idea di
fondo della Moyo è che bisogna rendere la democrazia più lungimirante,
con alcuni correttivi che riducano la propensione alla “veduta corta”,
come la chiamava Tommaso Padoa- Schioppa. Alcune misure proposte dalla
Moyo sono la semplice trasposizione in politica di dinamiche da azienda:
pagare di più i politici, per evitare che chi ha talento resti lontano
da incarichi rischiosi e poco remunerati (il premier di Singapore
guadagna 1,7 milioni di euro all’anno). Difficile immaginare una misura
meno popolare, anche se nello schema della Moyo serve a evitare che i
politici in carica facciano scelte pensando di monetizzarle dopo (per
esempio con leggi a favore di qualche grande impresa che poi li assumerà
come consulenti), per questo l’economista propone anche limiti alle
porte girevoli tra pubblico e privato e un argine all’interferenza dei
finanziamenti privati nella dinamica democratica, problema molto
americano e non ancora italiano, anche se l’abolizione del contributo
pubblico ci espone a nuovi rischi. Sempre in questa logica, la Moyo
suggerisce anche il limite dei mandati, come quello professato dai
Cinque Stelle, per evitare che i politici pensino soltanto a costruirsi
una carriera di “ri-eletti di professione” invece che preoccuparsi del
bene del Paese.
Le proposte che la stessa Dambisa Moyo sa essere più
divisive sono quelle che puntano a ridurre il peso degli umori degli
elettori sulle decisioni. Mandati elettorali più lunghi (tradotto: meno
elezioni), vincoli alle decisioni future con accordi e impegni che
impediscano ai politici di domani di rimettere tutto in discussione. Si
tratta di estendere pratiche che già in uso, basti pensare all’accordo
intergovernativo tra Italia, Albania e Grecia che nel 2013 ha vincolato i
tre Paesi a costruire il gasdotto Tap e ora, ha ammesso il governo
Conte, è impossibile fare diversamente. La Moyo poi recupera idee che
albergano nelle zone d’ombra del liberalismo fin dai tempi di John
Stuart Mill: il filtro alle candidature, richiedendo ai candidati
“esperienze lavorative al di fuori della politica, non solo nel mondo
degli affari ma in una serie di lavori da mondo reale” (addio Di Maio),
ma anche il filtro agli elettori. Voto obbligatorio, come sperimentato
in Australia, per evitare che vadano alle urne solo le minoranze
arrabbiate, combinato con un “test di educazione civica” per verificare
la capacità degli elettori di capire le implicazioni delle scelte di
Parlamenti e governi sul lungo termine. L’applicazione di queste misure
avrebbe reso impossibile l’elezione di Donald Trump negli Usa e in
Italia la nascita del governo Conte.
Salvare i principi della
democrazia liberale ripristinando una capacità decisionale che sembra
compromessa è la grande sfida culturale di questi anni. Ma se la
disinvoltura dei movimenti populisti (e dei loro elettori) nel rimettere
in discussione pilastri come la separazione dei poteri e i meccanismi
della delega si salda con la richiesta di governi quasi autoritari che
arriva dalle élite, allora è il momento di iniziare a preoccuparsi
davvero.
La Stampa 5.11.18
I grillini del Nord in pressing su Di Maio
“La Lega ci porterà via tutti i voti”
di I. Lomb.
Quando
Matteo Salvini in uno svogliato comunicato dice che si farà il «reddito
di reinserimento al lavoro» crea una voragine nelle certezze del M5S.
Perché ribattezzare in quel modo il provvedimento principe del M5S che
invece è intitolato alla cittadinanza, e che di solito Salvini evita
proprio del tutto di citare, vuol dire portare in superficie i dubbi che
lacerano i gialloverdi, e le preoccupazioni che in casa grillina
agitano la i parlamentari del Nord.
I sondaggi strozzano il respiro
quando il crollo è evidente come quello che nell regioni settentrionali
ha subito in appena cinque mesi di governo il M5S. Le rilevazioni
segnano un meno 8 per cento su un calo generale di circa il 4-5 per
cento. Un travaso di voti, tra l’altro, a tutto favore dell’alleato. Ed è
anche per questo che è scattato l’allarme che ha innescato la voglia di
rivalsa dei grillini. «Dobbiamo piantare bandiere e recuperare le
nostre battaglie storiche» è stata la riflessione di Di Maio, prima che
l’emendamento sulla prescrizione spuntasse senza alcuna condivisione con
la Lega.
Il vicepremier ha discusso a lungo con i suoi collaboratori
della fuga degli elettori del Nord e ha ascoltato alcuni suggerimenti
giunti dai parlamentari settentrionali, spaventati dai segnali di
stanchezza e scetticismo lanciati dal mondo produttivo. Sulla manovra,
sugli effetti del decreto dignità, sulle grandi opere (vedi Tav), sul
condono edilizio. Ad aver molto impressionato i grillini sono state le
dichiarazioni del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, che ha
definito il governo «antindustriale» e «ostile come mai prima d’ora»
alle imprese. Non a caso ieri il M5S ha scelto di far parlare Stefano
Buffagni, Il sottosegretario è l’uomo del Nord tra i grillini, e fu lui a
sdoganare Di Maio tra gli imprenditori. Un consiglio su tutti è
arrivato a al leader: bisogna far capire che il reddito di cittadinanza è
una misura di politica attiva. O comunque renderlo il più possibile
tale. «Perché non sembri davvero una misura meramente assistenzialista».
Solo così diventa digeribile per gli elettori settentrionali e meno
attaccabile dagli alleati.
Ai leghisti il reddito grillino non è mai
piaciuto e vorrebbero mutarne la natura, come ha detto apertamente il
sottosegretario Armando Siri. Nei 5 Stelle qualcuno nutre il sospetto
che la Lega voglia sfruttare un’eventuale crisi sulla norma per spingere
Di Maio a far saltare il governo e tornare a votare. Ecco perché,
dicono fonti del Carroccio, il grillino preferirebbe affidare il reddito
a un decreto. Più veloce e più vincolante per la maggioranza. Salvini
continua a smentire queste ipotesi e dal Carroccio fanno sapere che è
più probabile come scenario dopo le Europee, quando il leader della Lega
avrà calcato - spera da vincitore - il palcoscenico del sovranismo
internazionale. Per farlo, gli serve l’alleanza strategica con il M5S,
per sterilizzarne la maggiore forza che avrebbe se fosse alla sua
opposizione.
Il momento di debolezza, certo, non aiuta Di Maio:
stretto in un paradosso. Se non porta a casa il reddito di cittadinanza
fallisce la sua principale battaglia. Se lo porta a casa, spaventa una
fetta di elettorato che potrebbe cercare subito riparo sotto la Lega. Da
qui l’idea del restyling nel faticoso cammino della riforma, uscita dal
dalla manovra e rinviata a una legge ad hoc. «E’ una misura di politica
attiva» ribadiva mercoledì alla Camera il sottosegretario Manlio Di
Stefano, rifiutando il paragone con gli 80 euro di Matteo Renzi. Basterà
a convincere il Nord? I. Lomb.
Il Fatto 5.11.18
“Siamo studenti, vogliamo la luna”
di Lorenzo Giarelli
Se
i sondaggi hanno ragione, essere in piazza contro il governo, oggi,
significa essere in piazza contro i propri genitori. Lega e Movimento 5
Stelle avanzano inarrestabili nei consensi nel mondo dei grandi, di
quelli che votano, mentre gli studenti si danno alla protesta più antica
che esista – alla faccia di sbandierati cambiamenti – riempiendo le
strade con striscioni, megafoni e cori di indignazione. Hanno iniziato a
ottobre, coordinando oltre 50 piazze in Italia nella grande
manifestazione di venerdì 12, e andranno avanti, giurano, ancora per
settimane. A muovere i ragazzi non sono i problemi dei singoli istituti
(il termosifone che non funziona, la palestra inagibile, il distributore
del caffè guasto) e neanche solo i temi legati all’istruzione – i pochi
fondi, l’alternanza scuola lavoro che non funziona – ma un malessere
più generale nei confronti della politica.
E guai a chi pensa che la
piazza sia ormai un rito stanco: “L’unica prassi mi sembrano i tagli che
ogni autunno i diversi governi fanno all’istruzione – accusa Gianmarco
Manfreda, 23 anni, padre nobile, si fa per dire, delle proteste dei
liceali come coordinatore della rete degli studenti medi – Quando finirà
questa consuetudine magari anche le proteste non saranno più un rito
autunnale”.
A portare in piazza gli studenti del liceo sono
collettivi locali, centri sociali, auto-organizzati o organizzati da
associazioni nazionali. Sono quasi tutti apartitici, ma rivendicano
l’appartenenza a sinistra, a costo di sembrare fuori tempo massimo nella
griglia delle ideologie: “I nostri modelli oggi sono nella società
civile – dice Manfreda – quindi Legambiente, Libera, Cgil, Arci”. I 5
Stelle? Storia (già) passata: “Hanno rappresentato una speranza per i
giovani, con quella voglia di eliminare la mediazione e avvicinare i
cittadini alla politica, ma sono finiti vittime delle loro
contraddizioni”.
Anche l’Unione degli studenti, la grande
associazione dei liceali, si smarca dai partiti italiani. Il modello, al
massimo, è il laburismo inglese di Jeremy Corbyn. Ma ogni piazza è una
storia a sé, purché si compatti attorno ai valori dell’integrazione,
della lotta al precariato, della battaglia al neoliberismo (“la
divisione in sfruttati e sfruttatori”, lo definisce una ragazza
torinese). A Milano la manifestazione più grande l’ha organizzata la
Rete Studenti insieme a Casc Lambrate, un centro sociale appena
sgomberato. Tra i più attivi c’è Matteo Cimbal, 18 anni di cui 5 passati
a far politica a scuola, prima a Venezia e ora all’ombra del Duomo. Per
capire le proteste, dice lui, bisogna mettersi in testa di non
giudicare i ragazzi con le stesse categorie applicate al resto del
mondo. Più Trap e meno talk show, più Ghali e meno editoriali: “Il trap –
per chi ignora: un nuovo genere musicale diffusissimo tra gli under20 –
oggi rappresenta meglio di qualsiasi altra cosa il disagio che vivono
tanti ragazzi nei quartieri periferici di Milano”, spiega Matteo. “A
differenza dell’hip hop di una ventina d’anni fa non c’è denuncia
politica diretta, ma emerge un malcontento sociale in cui ci
riconosciamo”. E per portare in piazza i ragazzi, per farli interessare
alla politica, si deve partire da lì: “Tu parti da un testo di Ghali
sull’immigrazione e vedrai che gli studenti ti seguono, metti un pezzo
Trap in corteo e sono tutti gasatissimi”.
Su come esprimere il
disagio, poi, non c’è una linea unitaria. Difficile compattarsi già solo
a sinistra, figurarsi mettere d’accordo anche gli “indipendenti”. Le
proteste di piazza di Torino sono state quelle più mediatiche, ma non
per i contenuti della manifestazione. I titoli di giornale se li è presi
un gesto di alcuni militanti del Kollettivo studenti organizzati, che
hanno dato alle fiamme due manichini raffiguranti i vicepremier Matteo
Salvini e Luigi Di Maio. Sono finiti indagati in cinque, tra cui due
minori, per vilipendio, mentre la facile indignazione del mondo politico
stigmatizzava il gesto violento.
“Il problema è che la nostra
generazione è totalmente deconflittualizzata – si lamenta Sebastiano, 17
anni, di Roma, membro dell’Opposizione studentesca d’alternativa (Osa) –
e quindi un gesto simbolico del genere passa per chissà quale
violenza”. Colpa, secondo lui, del G8 di Genova del 2001, anche se la
sua età gli permette di parlarne solo come storia e non più come
cronaca: “Da lì si è dato per scontato che la piazza fosse per forza
violenta e che la violenza non portasse a niente, inibendo ogni grosso
movimento di protesta”.
Anche Alessandro Personé, 19 anni, animatore
delle piazze liceali di Lecce per l’Uds e ora universitario a Roma, non
ci vede scandali: “La cosa grave è che ci si preoccupi dei manichini e
non delle politiche devastanti dei governi”.
Questione di scelte. Si
può forzare la mano per avere visibilità, ma si rischia di compromettere
l’efficacia del messaggio della protesta: “Il problema dei manichini
bruciati – dice Manfreda di Rete degli studenti medi – è che personifica
il disagio nei confronti di Di Maio e Salvini, mentre il disagio è per
quello che rappresentano. E poi succede che si presta il fianco alla
loro risposta vittimistica, vanificando il merito della piazza”.
Del
disagio dei ragazzi del Ksa parla Sara. Ha solo sedici anni e studia a
Torino: “Il governo dà risposte sbagliate a problemi reali. Hanno
ragione, c’è un problema di povertà e di sicurezza, ma non mi possono
dire che la soluzione è la stretta sull’immigrazione”. Da qui la piazza,
ancora una volta slegata dai problemi strettamente scolastici. Certo,
anche su quelli lo scontro c’è, tanto che i giovani di Rete conoscenza,
l’organizzazione che unisce gli studenti medi agli universitari di Link,
hanno chiesto e ottenuto un incontro con Di Maio. “Una novità assoluta –
ammette Giacomo Cossu, coordinatore della Rete – ma che è finita per
essere l’ennesimo spot per il governo. Di Maio ha risposto in modo vago e
vedendo la manovra economica ci pare di capire che siamo rimasti
inascoltati. È inutile riceverci se serve soltanto a sbandierare sui
social di aver incontrato gli studenti”. Le richieste, in fin dei conti,
battono sempre sui fondi da stanziare all’istruzione. Troppo pochi,
dicono i ragazzi, insufficienti per garantire il diritto allo studio e
per avviare un piano efficace per l’edilizia scolastica, proprio nel
Paese in cui metà delle scuole non ha neanche il certificato di
agibilità. E poi c’è il tema dell’alternanza scuola-lavoro, su cui
persino i giovani della piazza si dividono. Qualcuno, come la Rete degli
studenti medi, ne vorrebbe una versione “formativa”, riqualificata
rispetto a quella delle storture della buona scuola renziana. Altri
invece, come il 17enne Sebastiano, la vorrebbero eliminare del tutto,
per lasciare l’istruzione alla scuola e il lavoro alle fabbriche, agli
uffici, alle attività commerciali. Anche nel mondo delle proteste
giovanili la sinistra ci mette poco a dividersi, ma è così da sempre. A
Bologna gli studenti in piazza ce li ha portati il Fronte della gioventù
comunista. Da un lato, spiega Gianluca Evangelisti, attivista di 19
anni, “il gruppo ha scelto di non portare in corteo la falce e
martello”, quasi a volersi aprire a chi non se la sentiva di sfilare
sotto un simbolo così impegnativo. Dall’altro, la convivenza con gli
altri collettivi è rimasta difficile: “Abbiamo avuto contatti con vari
gruppi, ma alla fine hanno preferito non andare tutti insieme in piazza.
I contenuti di un’opposizione al governo possono anche essere gli
stessi, poi però dipende come si declina l’alternativa”.
Su questo è
d’accordo anche Sebastiano, che guarda con simpatia a Potere al popolo e
che critica la Rete degli studenti medi perché “troppo
istituzionalizzata”, “vicino ai sindacati che ormai stanno coi potenti”,
e infantile pure sulle modalità di protesta: “Io in piazza canto Bella
Ciao, ma mica perché è di moda adesso”. Il riferimento è alla riscoperta
dell’inno partigiano come colonna sonora de La Casa di Carta,
amatissima dai giovani. Proprio ispirandosi a quella serie tv Rete degli
studenti medi e Rete conoscenza hanno deciso di vestire alcuni ragazzi
in piazza con l’abito tipico dei rapinatori-eroi di Netflix: tuta rossa e
maschera di Salvador Dalì, nemesi beffarda del volto del film V per
Vendetta con cui tredici anni fa, i giovani di allora, speravano nel
cambiamento.
Repubblica Roma 5.11.18
L’occupazione
Virgilio, sgombero all’alba " Ma allarmi erano infondati"
Il liceo chiama la polizia d’accordo coi genitori. Studenti in piazza, tensione con gli agenti
di Lorenzo D’Albergo
Avevano
promesso. Avrebbero sciolto le righe oggi. Al più tardi martedì. Ma a
interrompere l’occupazione dei ragazzi del Virgilio, il liceo classico
di via Giulia, questa volta è arrivata la polizia. Una misura inedita,
che non era scattata neppure davanti alle polemiche innescate dalla più
pesante dimostrazione dello scorso anno. Alle sette di ieri mattina,
invece, oltre 20 tra agenti e carabinieri hanno fatto scattare il blitz.
All’interno dell’istituto hanno trovato 71 ragazzi (23 maggiorenni e 48
minorenni) ancora nei sacchi a pelo, qualche bottiglia di birra e di
alcolici.
Al termine dello sgombero, partito con qualche istante di
tensione, con gli studenti che si sono rifiutati di aprire ai
poliziotti, è partito un breve sopralluogo delle forze dell’ordine. Un
po’ per sincerarsi delle condizioni dello stabile. Un po’ per
assicurarsi che all’interno non fosse rimasto davvero nessuno. Il
risultato della prima visita a sorpresa — oggi ci sarà un nuovo
controllo delle forze dell’ordine, mentre gli organizzatori della
protesta rischiano la denuncia — è contenuto nella nota diramata in
tarda mattinata dalla polizia: « Appare confermata la infondatezza delle
considerazioni e degli allarmi diffusi nei giorni scorsi».
Qualche
frizione in più c’è stata in serata. I ragazzi del Collettivo
autorganizzato Virgilio, riaffidati ai genitori tra i mugugni, nel
pomeriggio hanno convocato un’assemblea in vicolo della Moretta, a pochi
passi dal liceo. Lì si sono riuniti in più di 200, sfiorando in un paio
di occasioni il contatto con gli agenti a protezione dell’istituto per
evitare una nuova occupazione. Caschi antisommossa da una parte, cori
dall’altra. Ma alla fine non si è arrivati allo scontro.
Il confronto
aperto resta allora quello tra gli studenti e gli adulti. Un braccio di
ferro che contrappone gli adolescenti che si sono impadroniti della
scuola l’altra domenica per organizzare una sette giorni di incontri con
registi, scrittori e artisti, e parte del corpo docente. Quei
professori che, supportati dai genitori contrari a un’occupazione più
lunga, hanno chiesto e ottenuto lo sgombero. Anche per paura degli
«esterni», Come si legge nella nota formulata sabato dall’ufficio di
gabinetto della questura, la polizia è entrata in azione «al fine di
evitare ulteriori problematiche relative all’eventuale partecipazione
all’occupazione di persone vicine ad ambienti o movimenti estremisti». A
richiedere l’intervento, con il preside in malattia, è stato il suo
vice, Pasquale Spinelli: « Non ci sono state criticità, gli studenti
sono usciti tranquillamente. Esterni? Questa mattina ( ieri, ndr) non lo
so. Domenica 28, giorno dell’occupazione, c’erano. Penso che la loro
presenza fosse allarmante. Ma non posso parlare».
Per i genitori,
invece, c’è la presidente del consiglio d’istituto, Daniela Buongiorno: «
La denuncia viene sempre presentata dal preside, è una prassi. C’è
stato il tentativo di mediare con i ragazzi. Abbiamo parlato molto. Se
si fosse trovato un punto d’incontro, non saremmo arrivati a questo. Il
Mamiani aveva dato una data di fine occupazione. Il nostro preside,
Giuseppe Baldassarre, aveva chiesto di finirla domenica. Poi è
intervenuto. La differenza rispetto agli scorsi anni è che questa volta
c’è stato lo sgombero ». Sul blitz della polizia niente da ridire: « Non
ci sono stati problemi. I ragazzi sono stati responsabili ed educati.
Il dialogo non si è mai interrotto». Alla fine, però, la trattativa si è
chiusa con l’arrivo delle forze dell’ordine. E la politica? Per il Pd
attacca Enzo Foschi: « Si sgombera il Virgilio, a quando lo stesso
trattamento per CasaPound?».
Repubblica Roma 5.11.18
I giovani all’attacco "Questa scuola è la nostra casa cacciati a causa del vento leghista"
di Marina de Ghantuz Cubbe
Lo
sgombero del Virgilio dimostra la forza degli studenti. Ne sono
convinti e lo rivendicano a gran voce, i ragazzi e le ragazze che,
cacciati all’alba da scuola, nel pomeriggio si sono radunati in piazza
della Moretta. «Siamo arrabbiati — ha detto una giovane studentessa
durante l’assemblea — perché la scuola è un luogo di formazione e non di
repressione, questa scuola è la nostra casa e non possono cacciarci».
Z. P. è una delle candidate a diventare presidente d’istituto e pensa
che « con uno sgombero con così tanta polizia vogliono dimostrare cosa
si devono aspettare gli studenti di Roma questo inverno. Questo è il
risultato — ha aggiunto — delle politiche del ministro Salvini».
La
stagione delle occupazioni e delle manifestazioni sembra essere appena
iniziata: « Abbiamo vinto, hanno paura di noi — ha detto S. M. a pochi
centimetri dalla polizia che intanto aveva indossato i caschi e preso i
manganelli — Stiamo protestando perché hanno voluto far tacere persone
che avevano qualcosa da dire». Ma promettono di non rimanere in
silenzio. E per oggi alle 11 hanno convocato un’altra assemblea,
probabilmente con l’intervento del sindacalista Aboubakar Soumahoro, che
i ragazzi avrebbero voluto incontrare dentro la scuola, durante
l’occupazione.
Sostiene Riccardo: «Per noi i rapporti col preside si
sono rotti. Certo, ci parleremo se ne avremo l’occasione, ma siamo
rimasti senza parole perché — ha continuato il ragazzo — ha dato il via a
uno sgombero sproporzionato, mettendo in difficoltà soprattutto i più
giovani».
I genitori degli studenti minorenni sono stati chiamati in
mattinata per riprendere i figli a scuola e in molti ragazzi, ancor
prima che arrivassero i parenti, si sono chiesti: «E adesso come
facciamo a dire ai nostri che ci devono identificare? » . Qualche
genitore si è arrabbiato, racconta F.T., al primo anno di liceo: «Mia
madre si è preoccupata, mio padre invece ridacchiava quando mi è venuto a
prendere e penso — continua il ragazzo — che i nostri genitori ci
sostengano, infatti questa sera siamo qui, ci hanno fatto venire».
Gli
studenti del liceo di via Giulia avrebbero voluto continuare la
protesta e volevano « trasformarla in giornate in cui a essere coinvolti
fossero anche i professori — ha spiegato A. R. — facendo lezione fuori
dalla scuola e organizzando dei flash mob » . La proposta doveva
diventare ufficiale questa mattina, ma lo sgombero di ieri ha fermato
tutto. Tra le idee emerse durante l’assemblea, anche quella di
organizzare una manifestazione per venerdì 9. «Noi non ci fermiamo — ha
detto Z. P. E, citando Antonio Gramsci, ha aggiunto: «Perché siamo
contro questo governo e odiamo gli indifferenti».
Repubblica 5.11.18
Verso il referendum Atac
Al banchetto day i dubbi dei romani
Giornata di mobilitazione dei promotori per il voto di domenica
di Salvatore Giuffrida
«La
verità è che noi romani non siamo capaci di governare » . Mauro, 50
anni, sta per entrare con moglie e figli al mercato di San Teodoro al
Circo Massimo in una normale domenica di pioggia, ma si ferma al
banchetto dei Radicali sul referendum Atac dell’ 11 novembre: la
discussione, tra chi vuole liberalizzare o meno il trasporto pubblico, è
accesa. «Se lo diamo ai privati non rischiamo un altro caso come il
ponte Morandi? I privati ci vorranno guadagnare e il prezzo del
biglietto aumenterà», dice Pietro Bollino, 45 anni, in sella alla sua
bicicletta. «Non è vero» rispondono in coro i due ragazzi del banchetto:
« Il servizio rimarrà pubblico, si metterà a bando solo la concessione,
la gestione del trasporto sarà affidata al miglior offerente e il
Comune controllerà che il contratto sia rispettato. O preferisce
rimanere così?».
Il referendum è solo consultivo ma ha già raggiunto
un risultato: il futuro di Atac appassiona i romani. Da una parte chi
vuole liberalizzare la concessione con una gara pubblica, dall’altra chi
è contrario; tutti contro la privatizzazione ma d’accordo sulla
necessità di fare qualcosa perché così il trasporto pubblico proprio non
va. Tutti sanno del referendum ma molti non sanno dove si vota: «Nei
seggi elettorali, come per le politiche » , rispondono i ragazzi del
banchetto. E aggiungono: « Il Comune non ha divulgato il referendum in
modo adeguato. E meno male che loro sono per la democrazia diretta».
Intanto
il dibattito prosegue, qualcuno evoca le liberalizzazioni di Margareth
Thatcher: « Che però hanno finito per svendere il Paese », esclama
Pietro. Stessi concetti negli altri banchetti a Porta Portese, Conca
d’Oro, largo Sempione, Cavour. La pioggia non ferma i romani e il
mercato di San Teodoro, con i suoi profumi e colori, stimola il
dibattito. « Mettere a bando la concessione farebbe aumentare la
competitività e l’efficacia del servizio — spiega Alfonso, 22 anni,
studente di Economia a Roma Tre — altrimenti la concessione non sarà
rinnovata » . I dubbi continuano: liberalizzare, ma come? Maddalena
Martuccini, casalinga, coglie il punto: « Sarebbe un’opportunità per
dare un segnale diverso a un monopolio che finora non ha funzionato. Ma
bisogna capire come. E il trasporto deve rimanere pubblico » . Come
voterà, signora? « Sto valutando » , sorride e scompare tra i banchi del
mercato. « Al di là del risultato, il referendum è un modo per
coinvolgere i cittadini » , continua Pietro, studente. «Sì, ma è stato
tenuto segreto » , replica Antonio Fazio, 45 anni, impiegato: « Atac ha
mezzi inadeguati e noi utenti ne soffriamo i problemi. Quanti bus sono
andati a fuoco, dieci? » . Di più, signor Fazio: almeno 21 dall’inizio
del 2018.
La Stampa 5.11.18
Per la rinascita del nazionalismo panrusso
Putin, la carta delle repubbliche fantasma per la rinascita del nazionalismo panrusso
di Gianni Vernetti
Attraverso
il sostegno ad una rete di micro-nazioni, non riconosciute dalla
comunità internazionale, il Cremlino ridisegna i confini. L’obiettivo
strategico è fomentare le minoranze russofone per destabilizzare i Paesi
che vogliono avvicinarsi all’Ue e alla Nato
La storia
Un nuovo
fantasma si aggira per l’Europa e questa volta si tratta di Stati che
non esistono, nuove «Zone Grigie» che un po’ alla volta stanno
ridisegnando confini ritenuti intangibili dalla Seconda Guerra Mondiale.
Con l’annessione russa della Crimea e l’intervento militare nel Donbass
(Donetsk e Luhansk), sono nate altre tre entità non riconosciute che si
vanno ad aggiungere alle quattro già esistenti da alcuni anni: la
Transnistria, l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud e il Nagorno-Karabakh.
Sono
veri e propri «Stati fantasma» che vivono in una sorta di limbo: hanno
governi, parlamento, ministeri, esercito e valuta propri; rilasciano
passaporti; instaurano relazioni politiche e diplomatiche con Paesi
terzi. Ma nonostante ciò sono tagliati fuori dal resto del mondo: nei
loro territori non funzionano le carte di credito internazionali, le
assicurazioni le considerano aree off-limits, gli accordi e le regole
internazionali non vengono applicati. Si tratta di fatto dei
protettorati della Federazione Russa che, in ognuno di essi, conserva
basi militari e truppe e rappresentano uno dei motivi di maggiore
attrito fra l’occidente e la Russia Sono dunque entità statuali
totalmente al di fuori della legalità internazionale e rappresentano una
minaccia per la stabilità di una vasta area fra il confine orientale
dell’Unione Europea, il Mar Nero e il Caucaso. Si tratta di fatto dei
protettorati della Federazione Russa che, in ognuno di essi, conserva
basi militari e truppe e rappresentano uno dei motivi di maggiore
attrito fra l’occidente e la Russia.
Come ama ripetere spesso
Vladimir Putin «la dissoluzione dell’Unione sovietica è stata la più
grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo». Come ama ripetere
spesso Vladimir Putin «la dissoluzione dell’Unione sovietica è stata la
più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo». Questa
considerazione è stata la stella polare che ha ispirato una parte
rilevante delle sue scelte in politica estera degli ultimi quindici
anni. Così si spiegano molte iniziative per riconquistare lo spazio
sovietico perduto: la Comunità degli Stati Indipendenti, che unisce nove
delle quindici ex Repubbliche sovietiche; la Shanghai Cooperation
Organisation, nata per tentare di includere anche la Cina in uno spazio
comune di sicurezza; la più recente Unione Economica Euroasiatica (con
Kazakhstan, Kirghizistan, Bielorussia e Armenia); l’Eastern Economic
Forum di Vladivostock.
Ma, accanto a queste iniziative di carattere
politico-diplomatico, gli anni di presidenza Putin sono stati anche
caratterizzati da azioni politico-militari molto aggressive, con lo
scopo a destabilizzare le componenti più inquiete dell’ex spazio
sovietico a cominciare da Georgia e Ucraina per finire alla Moldavia e
all’Azerbaijan.
La retorica e la propaganda utilizzate di Mosca per
giustificare gli interventi armati ha quasi sempre richiamato l’urgenza
di difendere gli interessi delle minoranze russe: una retorica che
ricorda la vicenda dei Sudeti, quando la Germania nazista giustificò
l’aggressione della Cecoslovacchia con le presunte vessazioni subite
dalla minoranza tedesca.
La guerra dimenticata
Poco dopo la
dissoluzione dell’Unione Sovietica iniziarono le prime operazioni
militari oltre confine: nel 1990 la quattordicesima armata dell’esercito
russo nell’Est della Moldavia, combatté contro le truppe moldave e
romene in una guerra europea poco conosciuta, che in due anni provocò
oltre 5.000 morti e la nascita della piccola Repubblica della
Transnistria, oramai indipendente de-facto da quasi trent’anni. La vera
prima prova di forza fra Mosca e l’occidente fu nell’agosto del 2008,
quando le truppe russe invasero la Georgia, il cui governo aveva
l’obiettivo di portare il Paese nell’Ue e poi nella Nato
Fra il ’92
e il ’94 fu la volta del conflitto fra Armenia ed Azerbaijan con la
nascita della Repubblica del Nagorno-Karabakh (oggi ribattezzata
Artsakh). Ma la vera prima prova di forza fra Mosca e l’occidente fu
nell’agosto del 2008, quando le truppe russe invasero la Georgia, il cui
governo aveva l’obiettivo di portare il Paese nell’Ue e poi nella Nato.
La breve guerra provocò la nascita delle repubbliche di Abkhazia e
Ossezia del Sud, subito riconosciute da Russia, Venezuela e Nicaragua.
Ma
il caso più eclatante è rappresentato dalla regione del Donbass,
nell’Ucraina orientale. In prospettiva una possibile adesione di Kiev
all’Alleanza Atlantica, Putin ordinò l’invasione della Crimea e la
promozione di un referendum per l’annessione alla Russia. Ma il progetto
era ancora più ambizioso: dilaniare l’Ucraina promuovendo la nascita
della «Novorossiya», un nuovo Stato nel quale ospitare tutta la
componente russofona dell’Ucraina. Per raggiungere l’obiettivo, la
Federazione Russia non ha lesinato mezzi economici e militari ai governi
delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e di Luhansk.
Il
progetto della Novorossjya è fallito grazie all’inaspettata reazione
militare ucraina, che ha confinato le forze russe nella parte orientale
del Paese, unitamente alla reazione di Usa ed Europa che hanno promosso
un regime di sanzioni senza precedenti nei confronti della Russia. Oltre
1,5 milioni di profughi e più di 10.000 vittime, fanno del Donbass un
pericoloso conflitto europeo che ha già prodotto più di una tragedia
«collaterale»: il 17 luglio un missile terra-aria SA-11 di fabbricazione
russa e lanciato dalle milizie di Donetsk, colpì l’aereo della Malaysia
Airlines in volo fra Amsterdam e Kuala Lumpur uccidendo 298 civili,
perlopiù famiglie di turisti olandesi.
Il conflitto senza fine
Nonostante
gli accordi di Minsk, nel Donbass si muore ancora: anche se è un
conflitto a bassa intensità, ogni giorno si registrano vittime civili e
militari da entrambe le parti e a fine agosto il Presidente
dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, Alexander
Zakharchenko, ha perso la vita in un attentato nel centro della città.
La Stampa 5.11.18
Da Torino a Varese
Il filo che unisce l’ultradestra a Mosca
di Andrea Palladino
Tirava
un cupo vento dell’Est ieri in piazza Duomo, a Milano. Le porte del
Palazzo Reale si sono aperte al convegno «Cent’anni dopo… Eurasia!
L’arte incontra Aleksandr Dugin». Padrone di casa era la cooperativa
Arnia, presieduta da Ines Pedretti, già candidata nel piccolo Comune di
Casaleggio (Novara) per il Nsab, Nationalsozialistische arbeiter
bewegung, il «Movimento nazionalista e socialista dei lavoratori».
Partitino apertamente revisionista e filo nazista. Arnia è il gestore
dell’Associazione culturale «La corte dei Brut» di Gavirate, in
provincia di Varese - dove Dugin è stato pochi mesi fa ospite – enclave
della destra radicale animata da Rainaldo Graziani. Figlio di Clemente,
il fondatore di Ordine nuovo, era a capo di Meridiano zero, il gruppo
della destra neofascista attivo negli Anni 90. È solo l’ultimo tassello
di una alleanza strettissima tra l’ultradestra italiana ed europea con
la Russia di Putin, legame che passa attraverso la figura di Dugin, la
vera anima della svolta tradizionalista e reazionaria di Mosca,
ispiratore del fronte delle autoproclamate repubbliche caucasiche,
dall’Ossezia del Sud fino al Donbass in Ucraina, passando per la Crimea.
È la geopolitica espansionista che sta attirando attorno a sé il mondo
della destra neofascista, affascinata dalla «quarta teoria politica» del
filosofo russo, apertamente ispirata ad Julius Evola e René Guenon.
Incontri, convegni, centri studi. Ma anche simboli, come la sinistra
lampada di Yule, la Julleuchter, prodotta e usata dalle SS: un oggetto
che la cooperativa Arnia ha dato in dono ad Aleksandr Dugin lo scorso
giugno, in una cerimonia nella Corte dei Brut. Un rapporto stretto,
evocativo, che ieri ha avuto come palco il cuore nobile di Milano. Un
punto di partenza di una iniziativa ampia e nazionale con il filosofo
russo, racconta su Facebook Rainaldo Graziani.
Da Varese a Torino, da
Milano a Riva del Garda. Due nomi legati alla cooperativa Arnia portano
verso il Piemonte. La vicepresidente Nicoletta Cainero era la compagna
di Giovan Battista Ceniti, l’esponente della destra della Val d’Ossola
condannato in via definitiva per l’omicidio del cassiere di Mokbel
Silvio Fanella. Insieme a lui è stato condannato Egidio Giuliani, ex
Nar, che nella cooperativa occupava il posto della Cainero fino a
quattro anni fa. Le indagini della Squadra mobile romana dell’epoca
parlano poi di legami con l’area del neofascismo sul Lago di Garda.
Il
filo che unisce la destra italiana con la Russia ha tanti fronti. A
Torino opera l’ufficio di rappresentanza dell’autoproclamata Repubblica
popolare di Donetsk. Il responsabile, Maurizio Marrone, il 6 settembre
scorso si è fatto ritrarre in camicia nera, con alle spalle la bandiera
del Donbass e la foto di Aleksandr Zakharchenko, presidente dei
separatisti supportati da Putin, ucciso in un attentato il 31 agosto
scorso. Lo stesso clima, un po’ meno marziale, c’era due giorni dopo a
Verona. Il nome di Zakharchenko lo ha pronunciato il 6 settembre Vito
Comencini, deputato della Lega, segretario della commissione Esteri a
Montecitorio: «Un modo per rendergli onore», scrive su Facebook. Anima
dell’Associazione Veneto-Russia, impegnato in vari tour nel Donbass
secessionista, Comencini fa coppia fissa con Andrea Bacciga sotto
inchiesta per un saluto romano diretto al gruppo delle donne «Non una di
meno» in Consiglio comunale. E quando Bacciga dona un libro dell’ex SS
Leon Degrelle alla biblioteca, il deputato leghista non ha dubbi: «Un
bel gesto», commenta. Simboli, evocazioni, segnali politici che legano
la passione per Putin e Dugin, passando per le autoproclamate
repubbliche ucraine e giorgiane, con l’area della destra radicale.
Il Fatto 5.11.18
Amare un tedesco era reato: la Norvegia chiede perdono
di Siri Nergaard
Finalmente.
Finalmente le donne che sono state condannate per aver amato un soldato
tedesco ricevono le scuse. Finalmente il governo norvegese chiede scusa
per aver punito, arrestato, rasato, espulso e internato migliaia di
donne che avevano avuto relazioni con soldati tedeschi durante la
seconda guerra mondiale. Finalmente il governo norvegese ammette di non
essersi comportato come un Stato di diritto quando ha tolto la
cittadinanza alle donne che si erano sposate con uomini tedeschi.
Dal
1940 al 1945 la Norvegia fu occupata dai nazisti. Dopo pochi mesi
dall’occupazione capitolò, al governo si insediò Quisling e tutta
l’amministrazione del Paese passò in mano ai tedeschi. Durante i cinque
anni dell’occupazione la presenza di soldati tedeschi nel risultò
massiccia, soldati a cui la Wehrmacht aveva dettato regole di
comportamento precise: “Non siete lì per occupare, ma per proteggere, i
norvegesi sono pacifici e riservati, abbiate tatto e non avanzate con
troppa fretta”. Con questi soldati alcune donne norvegesi fecero
conoscenza, qualcuna si innamorò, qualcuna si sposò. Ma queste storie e
questi grandi amori sarebbero stati condannati come violazioni non solo
di loro stesse, ma come tradimento alla nazione. Nella primavera del
1945, nel clima di grande festa per la liberazione, molte di queste
donne furono punite pubblicamente con la rasatura dei capelli. E
migliaia di donne, alcune ancora ragazze, altre mamme, vennero arrestate
con il soprannome di puttana tedesca (tyskertøs). Perfino la legge sui
matrimoni fu modificata per rendere illegali le unioni con uomini
tedeschi celebrati dopo il 9 aprile 1940 – giorno dell’occupazione – e
in pieno conflitto con la Costituzione con validità anche retroattiva. E
a queste donne fu tolta la cittadinanza e vennero espulse dalla
Norvegia. Agli uomini sposati con donne tedesche non fu riservata la
stessa legge. I numeri sono incerti, ma si parla di 30-50 mila donne
sospettate e accusate, 3-5 mila internate, e 10-12 mila bambini
tedesco-norvegesi registrati. A dimostrazione del fatto che molte verità
devono ancora essere svelate, sta la grande varietà di numeri, che
alcuni sostengono essere molto più alti.
L’occasione per le scuse è
l’anniversario dei 70 anni dalla dichiarazione universale dei diritti
umani a Parigi nel 1948, ed è la prima ministra norvegese, Erna Solberg,
che a nome del governo chiede scusa a tutte le donne che dopo la
seconda guerra mondiale vennero punite per le loro relazioni con soldati
tedeschi. “Come furono tutelati i diritti universali di queste donne
dopo la guerra?”, domanda la prima ministra nel suo discorso. Una
commissione istituita dal Centro Holocaust di Oslo ha concluso che
queste donne furono oggetto di trattamenti inumani, e che in molti
aspetti lo Stato di diritto nei loro confronti fu violato. Erna Solberg
ringrazia tutti quelli che hanno contribuito a fare luce su questa
macchia nella storia norvegese ed esprime un particolare riconoscimento
alle donne che hanno avuto la forza di raccontare le loro storie di
discriminazione e stigmatizzazione. Poche di queste donne sono ancora in
vita, per loro le scuse arrivano in ritardo, ma possono essere
altrettanto significative per il figli, vittime quanto le madri,
cresciuti con lo stigma, con la vergogna, con il razzismo.
Uno di
loro, Reidar Gabler, nato nel campo in cui fu internata sua mamma dopo
la guerra, racconta alla televisione norvegese, Nrk, che si sente
sollevato dalle parole della prima ministra Solberg. “Mia mamma non era
una criminale, la sua colpa era solo di essersi innamorata di mio padre,
un soldato tedesco”: Reidar vuole raccontare, vuole testimoniare, per
il valore della conoscenza e della memoria. La mamma, Else, aveva 22
anni quando incontrò Erich Gabler, un amore durato tutta la vita e per
cui pagò un prezzo alto. Finita la guerra, Erich venne arrestato e Else
lo andava a trovare nella prigione di nascosto. Restava con lui anche
per giorni, rifugiandosi in un buco sotto il pavimento durante le
ispezioni. Ma fu scoperta e internata nel campo in cui fece nascere
Reidar. Poi seguì l’espulsione dalla Norvegia, gli anni in una Germania
devastata dove soffrirono la fame. Negli anni 50 a Else e ai figli fu
concessa la possibilità di visitare la Norvegia, il marito tedesco
temeva che non sarebbero più tornati. Ma Else tornò dal suo Erich a
visse a Berlino fino alla sua morte. Il figlio Reidar decise di
rientrare in Norvegia da adulto – senza la mamma – ma lei ne era lieta,
il cerchio si era chiuso. Ma lo stigma lo seguì, alla Nrk Reidar
racconta come la dura punizione ha segnato profondamente la sua vita e
quella della sua famiglia, per generazioni: “Mio suocero, attivo nella
resistenza durante la guerra ebbe fatica ad accettarmi come genero, e
mio figlio venne additato come nazista a scuola”. Ci sono voluti più di
70 anni per esprimere queste scuse. Più di 70 anni di vergogna, memoria e
trauma per le donne e i loro figli che hanno subito umiliazioni
profonde. Sono stati troppi gli anni di attesa per queste scuse.
La
Norvegia, che si reputa tra i primi per eguaglianza tra i generi e
diritti delle donne, non avrebbe dovuto aspettare tanto. Ora, dopo
queste scuse, che indubbiamente sono di grande valore simbolico, ci
aspettiamo che certi archivi ancora chiusi vengano aperti, che la storia
di queste donne sia finalmente risarcita.
Corriere 5.11.18
Il mistero della freccia del tempo
Lo
scienziato Eugenio Coccia, rettore del Gran Sasso Science
Institute«Einstein ci ha liberato da pregiudizi che erano passati
inosservati per secoli»
Cosa c’è tra la teoria della relatività e la meccanica quantistica?
Nuove sfide nella terra di nessuno
di Giovanni Caprara
«La
relatività di Einstein ha cambiato tutto. Ha liberato lo spazio e il
tempo da pregiudizi che erano passati inosservati nel corso dei secoli.
Li ha portati a essere protagonisti di una nuova teoria fisica
accessibile all’osservazione», spiega Eugenio Coccia, rettore del Gran
Sasso Science Institute, la nuova scuola universitaria superiore a
L’Aquila.
«Con Einstein — continua lo scienziato — lo spazio e il
tempo non sono più delle variabili rigidamente separate e quello che
abbiamo imparato a chiamare spazio-tempo si deforma in presenza di masse
ed energia. Lo aveva previsto nella sua teoria della relatività
generale ed era stato dimostrato nel celebre esperimento del 1919 quando
l’astronomo britannico Arthur Eddington misurò, con una spedizione
rimasta celebre alle isole Sao Tomé e Principe, la deformazione dei
raggi di luce di stelle lontane durante un’eclissi di Sole. In
particolare, per quanto riguarda il tempo, il suo ruolo come parametro
fondamentale nei fenomeni naturali è stato compreso soltanto nel tardo
Medioevo».
Prima del grande genio era intervenuto Galileo Galilei a
cambiare radicalmente la prospettiva cosmica, la descrizione della
natura, abbattendo l’immutabile sfera di cristallo celeste immaginata
dal grande Aristotele. La sua scoperta delle quattro lune intorno a
Giove, dedicate ai Medici, non è solo l’individuazione di nuovi corpi
celesti. «È la scoperta dell’ignoranza — nota Coccia —, la dimostrazione
che tutto quello che si poteva sapere non era già stato scritto nei
libri e che non c’erano verità indiscutibili. La scoperta di Galileo
nasceva dal dovere di dubitare e dalla necessità di osservare
direttamente per verificare con gli esperimenti la natura delle cose».
Galileo
è stato il primo a dare un ruolo alla nozione scientifica del tempo
garantendogli una misura precisa. Lo ha dimostrato facendo ricorso
all’acqua che esce in un «cannellino» da un secchio d’acqua calcolando i
tempi al decimo di secondo, oppure misurando lo scorrere di sfere lungo
un piano inclinato arrivando a stabilire la legge del moto. E ancora,
osservando le oscillazioni del lampadario appeso nel duomo di Pisa, ha
evidenziato un principio che sarà alla base della teoria delle
relatività generale di Einstein.
«Per Galileo, inoltre — continua
Coccia —, il piano inclinato è uno strumento di indagine per forzare la
natura e coglierne i suoi segreti. Quindi lo possiamo considerare come
il progenitore degli attuali acceleratori con i quali si compie lo
stesso tipo di esplorazione. Non possiamo ignorare, però, che uno
spirito scientifico, in senso naturalistico, emerge anche nelle visioni
di Dante descritte nella Divina Commedia quando immagina ai limiti
estremi del cosmo un punto identificabile con l’origine dell’universo:
oggi ci appare come un’affasciante intuizione poetica di quanto abbiamo
capito solo nel secolo scorso con la scoperta del big bang».
Ma ora
la fisica dello spazio e del tempo quale sfida ha davanti? «Tra la
teoria della relatività e la meccanica quantistica — continua il rettore
del Gran Sasso Science Institute — esiste una terra di nessuno che
ancora non si è riusciti a decifrare. C’è un gap fondamentale che oggi
rappresenta la nostra sfida più ardua, perché non possono esistere due
descrizioni inconciliabili della realtà. Entrambe sono necessarie ma
deve esistere un modo per unirle assieme. I fisici teorici hanno
proposto varie ipotesi, dalla teoria delle stringhe alla loop quantum
gravity ma ancora non si è riusciti a trovare qualche indizio di
conferma nelle prove sperimentali».
Qui esiste un limite nella
tecnologia a disposizione, perché negli esperimenti bisognerebbe
raggiungere un’energia molto più elevata di quella offerta dagli attuali
acceleratori, anche potenti, come il Large Hadron Collider Lhc del Cern
di Ginevra.
«Infine c’è il mistero della freccia del tempo —
conclude Eugenio Coccia — che va in una sola direzione: sempre avanti.
Qui possiamo pensare di allacciare questo andamento a due altri
fenomeni, pure loro unidirezionali: il primo è l’espansione
dell’Universo, il secondo è legato all’aumento inevitabile
dell’entropia, cioè alla tendenza naturale dei fenomeni naturali alla
dispersione e al disordine».
La fisica, insomma, è un’avventura che continua.
Repubblica 5.11.18
Capolavori
Un viaggio all’inferno con la plebe di Belli
di Alberto Asor Rosa
Riuniti
in quattro volumi gli oltre duemila sonetti del grande poeta romano. La
cui opera molti assimilano alla "Commedia" dantesca
Capita talvolta
di veder usare dal critico-recensore il termine «monumentale» a
proposito di questa o quella impresa libraria. Non credo, però, che
questo sia mai stato così adeguato all’oggetto come nel caso che da qui
in poi tenterò di descrivere: una «monumentale», appunto, edizione de I
sonetti di Giuseppe Gioachino Belli, critica e commentata, a cura di
Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, in quattro giganteschi
volumi (nella collana dei «Millenni» Einaudi ). Le dimensioni della
pubblicazione sono del resto adeguate a quella dell’opera: si tratta di
ben 2.279 sonetti, per complessivi 32.208 versi, più del doppio della
Commedia di Dante: opera, del resto, alla quale quella del Belli è stata
più volte accostata, assumendo talvolta il titolo, surrettizio, ma non
inappropriato, di Commedione.
Gli apparati critici, biografici e
bibliografici sono tutti di altissimo livello, e a misura dell’opera.
Nella sua introduzione, intitolata (non a caso, come abbiamo visto)
Belli, moderno Dante, Pietro Gibellini, che senza ombra di dubbio è il
migliore conoscitore oggi dell’opera belliana, ne traccia un profilo
articolato in tutte le sue parti e corrispondenze. Una lettura di questo
testo apre le porte a una visione più chiara della caleidoscopica,
vivente, eloquente, e spesso brutale, irridente e scatenata realtà
popolare romana, in un momento particolarmente critico, vale la pena di
precisarlo, della sua storia. M’interessa da qui in poi sottolineare
alcuni punti. Il primo riguarda l’alta coscienza che il Belli, modesto
impiegato dell’amministrazione pontificia, rivela nel compiere tali
scelte, impegnativissime. Il Belli ha premesso alla sua raccolta sebbene
non nutrisse alcuna intenzione di pubblicarla, evidentemente non
avrebbe potuto farlo se non a rischio di finire nelle segrete di Castel
Sant’Angelo - una introduzione d’impressionante lucidità. Innanzi tutto
la singolarità estrema, ai limiti dell’isolamento più assoluto, di
quella che era destinata a diventare la protagonista assoluta della sua
poesia dialettale: «In lei (plebe) sta un certo tipo di originalità…
tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene (mantiene) una impronta che
assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo»
(I. p.7). E cioè: che Belli abbia torto o ragione, inequivocabilmente
lui afferma l’«originalità» e l’«inconfondibilità» assolute del soggetto
principale - anzi unico della sua poesia, e cioè il popolo romano.
Se
questo è il suo rapporto con il soggetto principale, anzi unico, della
sua poesia, ne consegue da parte sua un atteggiamento interpretativo e
rappresentativo perfettamente coerente con l’identità popolare, che
dovrebbe da lui essere rappresentata e interpretata. Se quella è
assolutamente unica e sola impressionante! - solo una «verità assoluta»
si rivelerà in grado di rappresentarla e interpretarla veritieramente.
Niente può essere lasciato alla pura invenzione (in questo senso Belli è
anche poco romantico; per scoprirne il segreto e profondo romanticismo,
bisognerebbe cercare altrove).
Infatti, così suonano le dieci parole
di esordio della sua Introduzione: «Io ho deliberato di lasciare un
momento di quello che oggi è la plebe di Roma». Se fosse ancora
necessario, Belli continua di seguito a insistere e a chiarire: «Non
casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la
materia e la forma ma il popolo è questo: e questo io ricopro, non per
proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già
esistente e, più, abbandonata senza miglioramento» (I. p.11).
Se le
cose stanno così, - e io, naturalmente, non dubito che stiano così - due
domande si pongono. La prima: com’è possibile che l’unico scrittore
italiano nato e vissuto a Roma sia un poeta dialettale? (l’unico? E chi
altri, se no? Metastasio? Nel Novecento la situazione cambia un po’: ma
Moravia è scrittore all’altezza del Belli? E la cubana-parigina De
Cespedes può definirsi stricto sensu una scrittrice romana?). La seconda
domanda: è mai possibile che nel novero dei quindici-venti scrittori
italiani più alti di tutti i tempi un poeta dialettale come Belli occupi
un posto di tanto rilievo?
Queste domande, e le loro eventuali
risposte, sono secondo me decisive per valutare a pieno grandezza e
ruolo di Belli. C’è un enigma da sciogliere nella collocazione storica
di Giuseppe Gioachino Belli, da cui in un certo senso dipende tutto il
resto. Al centro del problema ci sono Roma, la sua (cosiddetta) plebe e
il linguaggio della sua plebe. Roma, dopo milleduecento anni di
dominazione pontificia - una misura incredibile, rara se non unica nel
resto del mondo -, appare come un buco scavato dolorosamente nel fondo
del modo d’essere umano. Belli, potenzialmente un intellettuale
risorgimentale di prim’ordine, ma represso e scagliato anche lui laggiù
in fondo, avrebbe potuto usare l’italiano forbito degli Arcadi e degli
illuministi per descrivere veritieramente e al tempo stesso poeticamente
quest’abisso senza fondo?
Evidentemente no; e perciò sceglie come
suo protagonista la plebe, il veicolo della verità (che Riccardo Merolla
chiamava giustamente "il protagonismo plebeo"), e di quelle plebe
adotta in pieno il linguaggio (il dialetto romanesco, che io preferisco
chiamare romano), che è la forma espressiva esemplare di quella verità e
infatti riflette in ogni sua sfumatura - dal ridicolo al tragico, dal
sudicio all’appassionato - quel mondo.
Torniamo su di un punto già
toccato. A questo Belli giunge semplicemente (semplicemente!) per la
forza trascinante della sua vocazione poetica. Infatti: la verità alla
quale Giuseppe Gioachino senza remore né limiti si ispira, non è una
categoria intellettuale né tanto meno etica: è una legge
fisico-esistenziale, è la forza trascinante non del cervello ma del
corpo quando decide di agire e di farsi sentire, e a cui non si può in
nessun caso sfuggire, ammesso che lo si voglia. Belli non potrebbe esser
più chiaro e definitivo: «la verità è ccom’è la cacarella /Che cquanno
te viè ll’impito e tte scappa /hai tempo, fijja, de serrà la chiappa /E
stòrcete e ttremà ppe rritenella…» ( La Verità II, p. 1993).
Questo è il dogma fondativo dell’intera poesia belliana: questo è il valico per andare ancora di più in profondità.
Dal
documentario all’esistenziale, dalla rappresentazione veritiera al
grandioso. Questo è l’ultimo passaggio. La grandezza di Belli consiste
infatti nel rispettare la verità senza cedimenti di nessuna natura: ma
consiste al tempo stesso nel non limitarsi a fissare ossessivamente un
aspetto particolare della condizione umana (anche se c’è anche questo,
come abbiamo detto più volte). Va al di là di questo: scopre, e ci fa
scoprire, che si tratta invece di un aspetto universale della condizione
umana, lì celato, e da lui riscoperto, al quale comunque, quale che ne
siano le premesse esistenziali, nessuno può sfuggire. In conclusione:
tra i grandi scrittori italiani Belli è inequivocabilmente quello che va
più a fondo nel rappresentare la irrimediabile sconfitta dell’uomo di
fronte al proprio destino (anche il grande, grandissimo Dante, così
esperto nel rappresentare i mali dell’uomo, ha tuttavia in serbo una
riserva finale, quella teologica, e dunque la sempre possibile
salvazione, che Belli ha ab imis e per sempre cancellato).
Due sono
le condizioni negative irrimediabili della vita umana: la feroce
disuguaglianza, come permea il modo stesso d’essere dell’uomo e lo
strizza fino in fondo ( Li dù ggener’umani III, p. 2603); e, ancor più
radicalmente, la vita umana in sé, che non lascia scampo alcuno a chi la
vive e si trasforma inevitabilmente in una condanna ( La vita dell’Omo;
II, p.
1749). Come avrebbe potuto Belli arrivare a queste ultime,
fulminanti conclusioni, se non si fosse spinto anche lui nel fondo
dell’abisso?
Repubblica 5.11.18
L’America che verrà, su La7 in esclusiva " Fahrenheit 11/ 9" di Michael Moore
Serata
evento su La7: alle 21.15 andrà in onda in esclusiva tv Fahrenheit 11/ 9
di Michael Moore. Il film evento, che sarà presentato e introdotto da
Enrico Mentana, ripercorre con sguardo provocatorio le elezioni
presidenziali e i primi 2 anni di mandato del 45esimo presidente degli
Stati Uniti d’America, Donald Trump, a partire proprio dal 9 novembre
2016, giorno della sua elezione. Già premio Oscar e Palma d’oro, il
regista segna con il consueto stile sarcastico e il suo spirito del
"politicamente scorretto" un nuovo documentario d’inchiesta, 14 anni
dopo Fahrenheit 9/ 11 (campione d’incassi con 222 milioni di dollari in
tutto il mondo). Moore torna a osservare la politica americana e
l’inquilino della Casa Bianca, indagando sui fenomeni che hanno portato
all’elezione del tycoon e sui possibili scenari futuri negli Stati
Uniti. Tra le curiosità del film rivelate da Moore una riguarda Cesar
Sayoc, il presunto Unabomber accusato di aver spedito 14 pacchi bomba ad
avversari politici di Trump (tra cui Barack Obama e Hillary Clinton).
Sembra che proprio Sayoc compaia casualmente in un filmato di Fahrenheit
11/ 9 girato da una troupe durante le riprese. La7 nel segno degli
Stati Uniti anche domani: a mezzanotte torna la #maratonamentana,
dedicata alle attese elezioni del Midterm Usa.
https://spogli.blogspot.com/2018/11/corriere-5_5.html