Il Sole Domenica 4.11.18
Psicologia. L’ultimo libro di Vittorio Lingiardi sull’alleanza medico-paziente
Quando la diagnosi è parte della cura
Un discorso che non si chiude con l’attribuzione di un nome a uno stato morboso
di Nicola Gardini
Vittorio Lingiardi,Diagnosi e destino, Einaudi, Milano, pagg. 152, € 12
Il
nuovo libro di Vittorio Lingiardi propone moltissimo già nel titolo:
Diagnosi e destino. Un’endiadi allitterante, dove la congiunzione «e»
non è banalmente coordinativa, ma ha la potenza di un «atque» latino. La
diagnosi, infatti, è da intendersi in funzione del destino, e questo in
funzione di quella. La diagnosi è incontro, come sottolinea in apertura
l’autore. Il destino, invece, lo sappiamo, è solitudine. Il rapporto
tra medico e paziente deve trasformare quella solitudine in una forma di
rapporto. Non solo deve: può. Occorre che il medico sappia parlare e
sappia ascoltare. La diagnosi, riassume Lingiardi, è “conoscenza e
ascolto nell’incontro”. Se non fosse noto che l’autore è psichiatra,
psicanalista e professore universitario potremmo credere che questa
formula servisse a definire l’amore.
Ma che cos’è la diagnosi? In
breve, è quel procedimento preliminare che identifica la malattia. Senza
una diagnosi non si arriva a stabilire la cura. Lingiardi propone
un’interessante estensione semantica: la diagnosi è parte della cura,
anzi «è un momento fondamentale della cura». Né, secondo Lingiardi, la
diagnosi esaurisce il quadro clinico: ne offre piuttosto una
rappresentazione sintetica. Implicito, dunque, è che il medico continui a
«diagnosticare», a “conoscere ininterrottamente”, secondo il valore
etimologico della radice greca gno-.
Da queste premesse sprigiona
un’idea aperta e umanistica di malattia: malattia come discorso che non
si chiude con l’attribuzione di un nome allo stato morboso. La malattia
non è condizione generica, astratta, identificabile con una voce
d’enciclopedia. La malattia è il malato, quello stesso malato che
dialoga con il suo medico in un continuo scambio. «Dia-gnosi» contiene
proprio la preposizione che fa da prefisso a «dia-logo», «tra» in greco.
E il «tra» indica attraversamento, avvicinamento, confluenza di
visioni, colloquio.
Lingiardi non dimentica l’unicità del
paziente. Una diagnosi, certo, serve a ritagliare un quadro clinico
generale. Il paziente, però, resta un essere a sé, dotato di una sua
vicenda personale. Nel rispetto del malato e nel credito gnoseologico
che gli riconosce questo saggio si dimostra capace di una lucidità e di
un’intelligenza profondamente rinnovatrici, direi perfino liberatorie:
«un sistema diagnostico […] deve cogliere anche le risorse del paziente e
non solo gli aspetti di cattivo funzionamento».
La diagnosi
perenne ridà non solo dignità, ma riconosce le forze del malato,
ritrovando nel suo specifico qualcosa di profondamente significativo. La
malattia, in genere, è una condizione che altri stabiliscono per noi, i
medici ma ancora prima protocolli e convenzioni, anche per una diffusa
tendenza delle persone ad affidarsi a «chi ne sa di più». Il malato,
allora, rinuncia a credersi sapiente. Si tratta, nella maggior parte dei
casi, di un’irresponsabile rinuncia all’autoconoscenza e
all’autoauscultazione, colpe che già Plutarco rimproverava in un
trattatello sul benessere fisico. Lingiardi ci aiuta a rivendicare la
soggettività della malattia, la coscienza della malattia, e con queste
la capacità di stabilire quanto e come io mi senta malato. Al tempo
stesso ci insegna che le capacità del medico sono potenzialmente assai
più estese che la pratica comune non dimostri. Il medico deve credere
nel suo paziente, perché, come scrive lo psicanalista Wilfred Bion,
citato già nella prima pagina dell’introduzione, «il paziente è il
miglior collega che abbiamo».
Lo spirito di “colleganza” informa
l’intero libro, sia il suo sistema argomentativo sia la sua memoria.
Lingiardi, scavalcando gerghi e tecnicismi settoriali, cerca la
precisione attraverso le fonti più varie, specie letterarie. Nel suo
curriculum non manca, a proposito, il mestiere di poeta. Né mancano nel
testo alcuni suoi versi. Il poeta si lascia cogliere anche nel calibrato
utilizzo della frase, sempre limpida, musicale, anche quando
necessariamente informativa.
Un’altra questione fondamentale – in
fondo, anche questa «poetica» – la metafora. Malattia e metafora si
relazionano reciprocamente o per opposizione o per sintonia, nelle
commistioni più varie. Il medico che osserva la malattia punta a una
lingua anti-metaforica, alla «terminologia«, ovvero a un codice che non
permetta ambiguità e vaghezze. Anche una scrittrice come Susan Sontag, è
risaputo, si è fieramente pronunciata contro la metaforizzazione della
malattia. Aveva le sue ragioni, da malata e da americana. Trattare il
cancro o l’Aids come pericoli bellici, dunque tirare nel linguaggio
della medicina invasioni, attacchi, difese etc. crea propaganda o
demonizzazioni indebite. Lingiardi, condivisibilmente, assume un
atteggiamento più articolato nei confronti della metafora. Lo dice:
«Sontag non riesce a convincermi». E spiega: «proprio perché conosco le
impressionanti metafore collettive, non voglio rinunciare a quelle
private, intime, familiari». Parole importanti. Il malato è chi, perduta
la sanità, racconta a sé e agli altri una storia che gli conservi o
restituisca la salute, ovvero, la felicità pur difficile di aver ancora
in mano la sua vita. Le metafore gli servono a questo. E gli permettono,
quando il medico sa intenderle, di non venire esautorato dalla koiné
tecnica; di restare auctor.
Troppo spesso il malato, nelle società
di oggi, è materia per il racconto di altri. Gli stessi medici
rischiano di raccontare la malattia con parole non loro, che non abbiano
tratto alcuna verità dal confronto diretto con il malato. Ma, come ho
già suggerito, esiste davvero la malattia? Non è questa la fabula, il
plot buono un po’ per tutte le storie, la struttura universale per
qualunque romanzo? Io sono un personaggio unico, dotato di una sua
sensibilità, di un suo passato: da me soltanto, se il mio medico
collabora, può nascere un racconto autentico.
Malattia e
autenticità… È il problema della vita: rimanere sé stessi, essere
all’altezza dell’immagine che abbiamo di noi, non soccombere alle
manipolazioni e ai tradimenti del mondo, non smarrire fra le chiacchiere
il senso di sé e del proprio posto. Il malato il problema
dell’autenticità lo avverte con un’urgenza estrema, esemplare. Il medico
lingiardiano, anziché contrastarla, favorirà l’autenticità. Il medico
lingiardiano aiuterà il malato a costruire il suo romanzo; a guadagnarsi
il premio dell’autenticità, iscrivendo la sua sofferenza nella trama
più adatta al personaggio con una continua opera diagnostica.
Auguro
a questo libro ampia diffusione. I medici ne trarranno stimoli a un
esercizio più vitale e creativo della loro professione, i malati
conforto e credito. Tutti gli altri, molto probabilmente ancora ignari
di diagnosi e faccende connesse, riceveranno lumi sulla necessità della
comprensione reciproca e sulla complessa natura della cosa chiamata
«salute».