domenica 18 novembre 2018

Il Sole Domenica 18.11.18
Antologia di Spoon River
I morti fieri di aver vissuto di Edgar Lee Masters
di Renzo S. Crivelli


«Ero la vedova McFarlane,/ Tessevo tappeti per tutto il villaggio./ E di voi ho pietà, voi che ancora attendete al telaio della vita». Così parla, nell’enigma del proprio epitaffio, una delle tante anime sepolte dell’Antologia di Spoon River, di Egar Lee Master. La sua qualità di tessitrice ben rappresenta i 248 personaggi che popolano il cimitero della cittadina immaginaria di Spoon River (modellata sui villaggi di Petersburg e Lewiston, vicino a Springfiled nell’Illinois, luoghi della sua infanzia) proprio in quanto personificazione della Parca che tesse i fili della vita e di una Penelope che ordisce la tela dell’amore e della fedeltà coniugale. Fino a prefigurare la struttura di un arazzo che ognuno di noi completa nella convinzione che nasconda l’impronta della Speranza, «dell’amore e della bellezza» (con la sua cifra segreta che ci porta alla Figura nel tappeto di Henry James). E che, invece, contiene solo l’immagine della nostra morte («Il telaio s’inceppa! La trama è disfatta!»), giacché fatalmente ognuno di noi sa solo «cucire il proprio sudario».
L’Antologia di Spoon River, pubblicata da Masters nel 1916 ma uscita a puntate sul «Reedy’s Mirror» tra il 1914 e il 1915, è un testo molto famoso, riscoperto specie in Europa negli anni ’60, il cui scopo è quello di riprodurre uno spaccato della provincia americana (ma il discorso ha toni ben più ampi che lo collegano alla tradizione arcaica) ricreando un microcosmo che si auto-narra attraverso l’artifizio post mortem del cimitero e delle iscrizioni tombali. La sua originalità sta proprio nel saper innestare la quotidianità nella dimensione drammatica della morte, abdicando a ogni lusinga declamatoria per scegliere l’asciuttezza narrativa dell’esperienza.
C’è in questa raccolta uno spessore epico che non scaturisce dall’ambientazione e dalla dolorosa rinuncia ai beni terreni ma dall’intima esigenza di ognuno dei protagonisti di testimoniare la propria esistenza, fatta di gioia e di sofferenza. Se è facile citare, tra le fonti ispirative, l’Elegia scritta in un cimitero di campagna di Thomas Gray (1751), va però riconosciuta a Masters una straordinaria capacità di travalicare la struttura iconografica romantica della lamentazione per incamminarsi verso la riproduzione asciutta di un mondo popolare che prescinde dal mero rimpianto del passato. Tutti gli abitanti della città dei morti di Spoon River, infatti, mostrano un istintivo distacco dalla propria vita che, ben lungi dal generare auto-commiserazione espiatoria (come nel caso della Rima del vecchio marinaio di Coleridge), si risolve semplicemente in una voglia di raccontare la Verità, la loro più che quella ufficiale dei giudici e dei preti.
E dunque il rimando non può che essere, da un lato, agli epitaffi greci dell’Antologia Palatina (libro VII con tematiche funebri), la cui lettura fu suggerita a Masters dall’amico William Reedy, e, dall’altro lato, alla contro-epica Modernista, che di lì a pochi anni avrebbe saputo raccontare lo stoicismo dell’uomo comune (si pensi solo al Joyce di Gente di Dublino, tutti morti che si narrano). Qui sta la grandezza dell’Antologia di Spoon River, che ha saputo giungere fino al nostro secolo intatta, con i suoi calchi universali. Tradotta più volte, a partire dall’azzardo di Fernanda Pivano che nel 1943 sfidò la censura fascista pagando di persona, ora esce per Feltrinelli a cura di Enrico Terrinoni, che ci dà una nuova versione accuratissima (con molte utili annotazioni). Terrinoni, nella bella prefazione, parla del cimitero di Masters come del «centro di un universo che da locus mortis diviene un pullulare di esistenze e di voci tutt’altro che silenziate negli spazi dell’al di là».
Ed è vero che i vari Robert Tanner (il trappoliere finito nella sua stessa trappola), Chase Henry (il beone saggio), il giudice Sommers (che fu famoso ma dimenticato a favore del beone), Emily Sparks (la vecchia maestra che ancora ammonisce i suoi ex-allievi), il dottor Meyers (che pagò per un aborto compassionevole), Flossie Cabanis, (l’attrice che vorrebbe sepolta accanto a sé la Duse), Lucius Atherton (il don Giovanni dei poveri, finito sdentato e irriso), Nellie Clark (stuprata a otto anni), Robert Burke (che stravide per un politico populista e mentitore); è vero, come si diceva, che questa umanità — paga di non essere solo dolente ma fiera di aver vissuto — ci racconta un passato che è sempre presente. L’attualità di queste storie emblematiche, racchiuse nell’alzata di una tomba, ha saputo colpire, come è noto, anche un grande cantautore come Fabrizio De André, che nel 1971 traspose in un album memorabile, Non al denaro non all’amore né al cielo, nove personaggi dell’Antologia.
Curiosamente, Masters non ritrovò più la grazia creativa dell’Antologia di Spoon River e la sua fama restò legata a un’unica opera (il tentativo di una New Spoon River Anthology del 1924 fallì miseramente). Morì, infatti, squattrinato e fu sepolto nel cimitero di Petersburg. In ideale compagnia di quello spaccato di mondo, con il suo bravo epitaffio che si pubblicò da solo.
Antologia di Spoon River, Edgar Lee Masters, a cura di Enrico Terrinoni, Feltrinelli, Milano, pagg. 678, € 13