La Stampa 18.11.18
Quella scia di sangue dietro Maria
Roma capitale del femminicidio
di Flavia Amabile
Cinque
 ceri rossi sono l’ultimo ricordo di Maria Rusu, 23 anni, freddata la 
notte del 27 ottobre sulla via Ardeatina. Cinque ceri rossi come i 
proiettili sparati dal suo ex compagno che non voleva saperne di vederla
 andare via. Si sono visti in una sera di autunno in uno slargo dove le 
auto in genere passano e vanno altrove. Non c’è un vero motivo per 
fermarsi proprio lì se non si è una prostituta, un cliente di una 
prostituta o uno dei rom che occupano l’unica casa dei paraggi. Maria 
era una prostituta ma quella notte era soprattutto una donna che aveva 
deciso di lasciare il suo convivente. Aveva accettato di incontrarlo ma 
non di tornare con lui. La risposta sono stati cinque colpi scaricati su
 di lei senza pietà.
Maria Rusu è l’ultima vittima di femminicidio
 a Roma. I ceri lasciati per lei sull’asfalto sono il punto finale di un
 viaggio in una città dove negli ultimi tempi si è registrato il tasso 
più alto di femminicidi d’Italia, cinque donne uccise in meno di tre 
mesi, una ogni 16 giorni. Sono cifre talmente enormi da provocare 
l’effetto opposto dello stupore, la mesta assuefazione del ripetersi di 
una tragedia. In quasi tre anni sono state tredici in tutto le donne 
uccise da compagni, fidanzati, mariti attuali o ex a Roma e nella 
provincia. I luoghi delle loro morti rappresentano la scia di sangue 
dell’Amore Capitale, un filo rosso di sentimenti incattiviti e spesso 
nascosti. Seguirlo vuol dire disegnare una mappa di altari all’amore 
malato che attraversa quartieri residenziali, vicoli del centro storico,
 palazzi della media borghesia. Il degrado appare nei casi di 
femminicidi commessi in strada, non quando avvengono nelle abitazioni.
«Desirée
 vive» è scritto su un muro di fronte all’edificio dove è stata uccisa 
il 19 ottobre Desirée Mariottini, 16 anni. È in via dei Lucani, 
quartiere San Lorenzo, terra di spaccio, abbandono e sogni persi. Non è 
vero, Desirée non vive più, nonostante la commozione, i murales, e le 
parole di tutti. Vive solo un simulacro di peluche, fiori, pupazzi e 
cuori, un santuario all’ipocrisia. Non c’è nulla che parli di amore 
nell’ultimo giorno di questa ragazza stuprata a turno da più uomini, 
drogata e lasciata morire. Non c’è nulla di tenero nella sua disperata 
ricerca di tutto questo, né nella scontata difesa dei suoi stupratori 
pronti a giurare di non sapere di aver posseduto una minorenne 
probabilmente da un certo momento in poi anche incapace di intendere e 
di volere.
L’amore
L’amore non c’è nemmeno quando si è 
convinti di averlo incontrato. Forse Tanina Momilio avrebbe lasciato 
marito e figli per il suo amante. Non lo sapremo mai. La sua storia è 
terminata all’alba dell’8 ottobre in un canale di Fiumicino, lanciata da
 un ponte. Uccisa con un bilanciere in palestra dal suo maestro-amante, 
soffocata con una busta di plastica, chiusa in un sacco e trasportata 
per un giorno nell’auto prima di essere scaricata come a Roma avviene 
solo con i frigoriferi e i materassi vecchi. Come sempre accade, lui ha 
parlato di uno scatto d’ira, il suo avvocato ha fatto sapere che non si 
era reso conto, come se una giornata intera con un cadavere nel 
portabagagli non bastasse per capire. Il sorriso di Tanina, la 
scollatura e una smorfia beffarda salutano le poche persone di passaggio
 lungo la strada del canale. Su uno striscione una frase di Vasco: 
«Domani è un altro giorno arriverà…». L’amore no, quello non è arrivato.
Via
 Albalonga è una strada poco lontana da piazza San Giovanni, palazzo 
signorile, portiere,tante scale. All’ultimo piano la sera del 28 
settembre un uomo strangola la moglie. Poi chiama i carabinieri. Lo 
trovano con un coltello in mano, minaccia di uccidersi ma si lascia 
convincere a lasciar perdere. Racconta la disperazione di una vita senza
 figli, con una donna malata di Alzheimer che non vuole più vivere. Gli 
ha chiesto diverse volte di ucciderla. Una sera l’ha accontentata. Ora 
il loro appartamento è sotto sequestro. Sull’elegante porta in legno due
 fogli di carta congelano la solitudine, il dolore e la desolazione di 
un amore che forse, almeno stavolta, aveva davvero qualcosa dell’amore.
L’ultimo
 femminicidio si è consumato non troppo lontano dall’Ippodromo delle 
Capannelle, in via Corigliano Calabro, zona di strade tutte intitolate 
ai paesi della Calabria e villette moderne di due-tre piani. Elena 
Panetta abitava al piano terra, la conoscevano tutti da queste parti. 
Conoscevano meno il suo compagno. Stavano insieme da un anno. Si era 
trasferito a casa di lei, negli ultimi tempi era senza lavoro. Restava 
la cocaina ed Elena con i suoi soldi gliela procurava. La notte tra il 5
 e il 6 agosto invece gli nega una dose. Lui prende una piccozza e 
l’uccide. Tre mesi dopo la loro casa è ancora sotto sequestro. Sigilli 
al cancello del garage e alla porta d’ingresso. All’esterno restano i 
fiori di chi le ha voluto bene e la devastazione del giardino dopo i 
temporali di fine estate. La tenda è a brandelli in un angolo, le sedie 
rovesciate come le loro vite.
Più si va indietro nel tempo, meno è
 facile trovare tracce degli amori malati. C’è una panchina rosa in via 
della Magliana dove fu uccisa Sara Di Pietrantonio il 9 maggio del 2016.
 Dovrebbe esserci anche una targa in ricordo delle vittime di violenza 
ma è caduta fra le erbacce di un’aiuola. Ogni tanto qualcuno si ferma, 
la storia di Sara strangolata dal suo ex è difficile da dimenticare. Lui
 ha provato a dirsi pentito in tribunale ma per ora è riuscito soltanto a
 trasformare l’ergastolo in 30 anni di carcere. In un parcheggio a 
Vitinia si distingue ancora una macchia di sangue su un marciapiede. La 
vita di Claudia Ferrari si chiuse lì con un colpo di pistola. Lasciava 
due bambine e una denuncia per stalking non ascoltata.
 
