Il Sole Domenica 11.11.18
Parola di Ingmar Bergman
Gli
scritti inediti. La Fondazione pubblica in lingua originale la seconda
parte dei quadernidi lavoro, dal 1975 al 2001, assieme a una selezione
di articoli e saggi del regista svedese
di Andrea Martini
Un
racconto lungo e dettagliato offriva l’ordito: su quello veniva stesa
una fitta trama fatta di dialoghi nitidi e incisivi. Da lì potevano
sortire ugualmente, senza che niente ne marcasse preventivamente il
destino, una sceneggiatura o una pièce. Con questo metodo, seguito per
molti decenni e più volte rivendicato, Ingmar Bergman ha dato vita a
grandi capolavori cinematografici e a testi drammaturgici ingiustamente
meno conosciuti. Che Bergman, autore capace come nessun altro di mettere
a nudo con le semplici arti del set e del palcoscenico cuore e mente
dell’uomo moderno, potesse essere anche un grande letterato era una
convinzione che andava radicandosi da tempo. Già una quindicina di anni
fa Maaret Koskinen, studiosa nordica e quindi in grado di apprezzare
l’espressività di una lingua in cui si fondono asperità strindberghiane e
chiarezza hollywoodiana, aveva messo in rilievo la centralità della
parola (I begynnelsen var ordet). Del resto i lettori di mezzo mondo
hanno avuto la possibilità di apprezzare sia la capacità evocativa (la
costruzione del sé in Lanterna magica e Immagini) sia quella puramente
narrativa (lo scandaglio dell’anima in Con le migliori intenzioni e
Conversazioni private) delle sue pagine.
A corroborare questo
assunto arrivano oggi tre volumi di scritti bergmaniani inediti
(Norstedts ed.) , primo svelamento di un tesoro custodito dalla
Fondazione Bergman, l’ente a cui il regista consegnò nel 2001 una
sterminata raccolta di taccuini, appunti, bozze, lettere, soggetti, note
di regia, articoli e saggi. Custoditi con riserbo fino alla morte
dell’autore, questi testi sono stati da allora decifrati e catalogati a
partire dal loro nucleo più prezioso, costituito da sessanta quaderni di
lavoro che hanno accompagnato ininterrottamente l’attività creativa e
il vissuto quotidiano di Bergman dal 1938 al 2001. Un primo volume che
comprende gli anni 1955-1974 è uscito alla fine della scorsa primavera:
si tratta del ventennio cruciale, aperto dalla trilogia Sorrisi di una
notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, che protende
Bergman verso una affermazione internazionale e che, in ambito
teatrale, lo vede passare dai pur grandi palcoscenici della provincia
alla direzione del Dramaten.
Scanditi da date, ora quotidiane ora
tra loro distanti settimane, queste note ci introducono in un universo
lontano, a tratti fiabesco, ma al tempo stesso vagamente noto, come
possono essere soffitte o atelier abbandonati, ma già abitati da
personaggi familiari di cui riviviamo gli incerti destini, a volte
divergenti da quelli poi assunti nei film o sul palcoscenico. Isak Borg
avrà una moglie o sarà vedovo? Viaggerà verso la fredda Gävle o la più
assolata Lund? Memoria e percezione fisica saranno in lui distinte? In
cosa la nuova versione del Sogno dovrà essere diversa dalla precedente?
La moglie dell’illusionista (Il Volto) dovrà essere travestita da uomo?
Straordinaria e affascinante appare la contemporaneità degli stimoli
sicché non v’è cronologia nell’azione creativa e mentre si dà vita alla
protagonista di Come in uno specchio, già si pensa all’infermiera di
Persona o alla quattro figure femminili di Sussurri e grida.
La
forza di questi scritti che, come sostiene il curatore Jan Holmberg,
oscillano audacemente «tra il banale e il brillante, il ridicolo e il
sublime», risiede soprattutto nella capacità istintiva di intrattenere
un lettore, solo ufficialmente non previsto. Leggendoli ci sentiamo al
fianco di Bergman e rispondiamo con progressiva sollecitudine a quella
che appare come un’apertura verso l’altro da sé, un tentativo di
comunicare e di rompere quell’assoluta solitudine dell’individuo che è
la sua prima e più intima convinzione esistenziale. Ne è dimostrazione
una scrittura diaristica mai assertiva e felicemente lontana dai tic
dell’autofinzione, abile nel tenere unite le riflessioni sul lavoro
quotidiano e la vita corrente: «Bibi (Andersson) mi dice che ho fatto
troppe commedie e che devo cambiare», «Come diavolo si fa per rendere
divertente un film?» e talvolta persino quella privata, ingombra di
sette figli e cinque matrimoni. Tratto essenziale è una ostentata
fragilità, lontana anche da quella lasciata intravedere in Lanterna
magica («Mi piacerebbe avere più in fiducia in me stesso, essere meno
influenzabile e meno sensibile all’elogio»), non disgiunta da una meno
nota sensibilità civile («Hanno assassinato Martin Luther King, vorrei
uscire dal mio isolamento ma l’arte può solo ricordare agli essere umani
d’essere, prima di tutto, tali»).
A questo primo volume si è
aggiunto, appena dieci giorni fa, un secondo (1975-2001) in cui, in
linea con l’ultima fase dell’attività creativa più frastagliata e con
l’occaso della vita, si dà ampio spazio a riflessioni metalinguistiche e
in cui musica cinema e teatro si fondono in unicum in districabile, e
ad approfondimenti della coscienza che qui appare ancor più lacerata. A
parte, è stato pubblicato dalla Fondazione un volume che, mescolando
editi e inediti, raccoglie interviste, diari di lavorazione, prefazioni e
qualche saggio in cui figurano, tra l’altro le auto recensioni redatte
scherzosamente dallo stesso Bergman sotto falso nome. Nel frattempo è
stata annunciata anche l’uscita di una dozzina di piccoli volumi in cui
sarà possibile scoprire la versione letteraria che fu alla base dei suoi
film più celebri. Tutto questo a dispetto di quanto lo stesso Bergman
scriveva il 3 marzo del 1957: «So di non valere come scrittore almeno
nell’accezione classica del termine».