lunedì 12 novembre 2018

Il Sole Domenica 11.11.18
Parola di Ingmar Bergman
Gli scritti inediti. La Fondazione pubblica in lingua originale la seconda parte dei quadernidi lavoro, dal 1975 al 2001, assieme a una selezione di articoli e saggi del regista svedese
di Andrea Martini


Un racconto lungo e dettagliato offriva l’ordito: su quello veniva stesa una fitta trama fatta di dialoghi nitidi e incisivi. Da lì potevano sortire ugualmente, senza che niente ne marcasse preventivamente il destino, una sceneggiatura o una pièce. Con questo metodo, seguito per molti decenni e più volte rivendicato, Ingmar Bergman ha dato vita a grandi capolavori cinematografici e a testi drammaturgici ingiustamente meno conosciuti. Che Bergman, autore capace come nessun altro di mettere a nudo con le semplici arti del set e del palcoscenico cuore e mente dell’uomo moderno, potesse essere anche un grande letterato era una convinzione che andava radicandosi da tempo. Già una quindicina di anni fa Maaret Koskinen, studiosa nordica e quindi in grado di apprezzare l’espressività di una lingua in cui si fondono asperità strindberghiane e chiarezza hollywoodiana, aveva messo in rilievo la centralità della parola (I begynnelsen var ordet). Del resto i lettori di mezzo mondo hanno avuto la possibilità di apprezzare sia la capacità evocativa (la costruzione del sé in Lanterna magica e Immagini) sia quella puramente narrativa (lo scandaglio dell’anima in Con le migliori intenzioni e Conversazioni private) delle sue pagine.
A corroborare questo assunto arrivano oggi tre volumi di scritti bergmaniani inediti (Norstedts ed.) , primo svelamento di un tesoro custodito dalla Fondazione Bergman, l’ente a cui il regista consegnò nel 2001 una sterminata raccolta di taccuini, appunti, bozze, lettere, soggetti, note di regia, articoli e saggi. Custoditi con riserbo fino alla morte dell’autore, questi testi sono stati da allora decifrati e catalogati a partire dal loro nucleo più prezioso, costituito da sessanta quaderni di lavoro che hanno accompagnato ininterrottamente l’attività creativa e il vissuto quotidiano di Bergman dal 1938 al 2001. Un primo volume che comprende gli anni 1955-1974 è uscito alla fine della scorsa primavera: si tratta del ventennio cruciale, aperto dalla trilogia Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, che protende Bergman verso una affermazione internazionale e che, in ambito teatrale, lo vede passare dai pur grandi palcoscenici della provincia alla direzione del Dramaten.
Scanditi da date, ora quotidiane ora tra loro distanti settimane, queste note ci introducono in un universo lontano, a tratti fiabesco, ma al tempo stesso vagamente noto, come possono essere soffitte o atelier abbandonati, ma già abitati da personaggi familiari di cui riviviamo gli incerti destini, a volte divergenti da quelli poi assunti nei film o sul palcoscenico. Isak Borg avrà una moglie o sarà vedovo? Viaggerà verso la fredda Gävle o la più assolata Lund? Memoria e percezione fisica saranno in lui distinte? In cosa la nuova versione del Sogno dovrà essere diversa dalla precedente? La moglie dell’illusionista (Il Volto) dovrà essere travestita da uomo? Straordinaria e affascinante appare la contemporaneità degli stimoli sicché non v’è cronologia nell’azione creativa e mentre si dà vita alla protagonista di Come in uno specchio, già si pensa all’infermiera di Persona o alla quattro figure femminili di Sussurri e grida.
La forza di questi scritti che, come sostiene il curatore Jan Holmberg, oscillano audacemente «tra il banale e il brillante, il ridicolo e il sublime», risiede soprattutto nella capacità istintiva di intrattenere un lettore, solo ufficialmente non previsto. Leggendoli ci sentiamo al fianco di Bergman e rispondiamo con progressiva sollecitudine a quella che appare come un’apertura verso l’altro da sé, un tentativo di comunicare e di rompere quell’assoluta solitudine dell’individuo che è la sua prima e più intima convinzione esistenziale. Ne è dimostrazione una scrittura diaristica mai assertiva e felicemente lontana dai tic dell’autofinzione, abile nel tenere unite le riflessioni sul lavoro quotidiano e la vita corrente: «Bibi (Andersson) mi dice che ho fatto troppe commedie e che devo cambiare», «Come diavolo si fa per rendere divertente un film?» e talvolta persino quella privata, ingombra di sette figli e cinque matrimoni. Tratto essenziale è una ostentata fragilità, lontana anche da quella lasciata intravedere in Lanterna magica («Mi piacerebbe avere più in fiducia in me stesso, essere meno influenzabile e meno sensibile all’elogio»), non disgiunta da una meno nota sensibilità civile («Hanno assassinato Martin Luther King, vorrei uscire dal mio isolamento ma l’arte può solo ricordare agli essere umani d’essere, prima di tutto, tali»).
A questo primo volume si è aggiunto, appena dieci giorni fa, un secondo (1975-2001) in cui, in linea con l’ultima fase dell’attività creativa più frastagliata e con l’occaso della vita, si dà ampio spazio a riflessioni metalinguistiche e in cui musica cinema e teatro si fondono in unicum in districabile, e ad approfondimenti della coscienza che qui appare ancor più lacerata. A parte, è stato pubblicato dalla Fondazione un volume che, mescolando editi e inediti, raccoglie interviste, diari di lavorazione, prefazioni e qualche saggio in cui figurano, tra l’altro le auto recensioni redatte scherzosamente dallo stesso Bergman sotto falso nome. Nel frattempo è stata annunciata anche l’uscita di una dozzina di piccoli volumi in cui sarà possibile scoprire la versione letteraria che fu alla base dei suoi film più celebri. Tutto questo a dispetto di quanto lo stesso Bergman scriveva il 3 marzo del 1957: «So di non valere come scrittore almeno nell’accezione classica del termine».