Corriere La Lettura 11.11.18
Il maestro d’amore a Roma
L’esilio di Ovidio è finito
Anniversari.
Duemila anni da la morte dellautore delle Metamorfosi spedito sul Mar
Nero da Augusto che mai ascoltò le sue implorzini di perdono
Dipinti e miti alle Scuderie del Quirinale
di Edoardo Sassi
Amore,
rapimento, abbandono, piacere, vedetta, odio: un mondo (divino) preda
di passioni e desideri (tipici degli umani). Duecento opere per provare a
raccontare l’universalità di un mondo e di un pensiero, quello del
poeta Ovidio, in occasione del bimillenario della morte avvenuta in
esilio l’anno 18 dopo Cristo. Questa la sfida della mostra allestita
fino al 20 gennaio alle Scuderie del Quirinale di Roma — Ovidio. Amori,
miti e altre storie — curata da Francesca Ghedini e ispirata all’opera
del grande poeta.
Una mostra che idealmente comincia già nel luogo
dove si trova la sede espositiva, con le statue di Castore e Polluce, i
Dioscuri, al centro della piazza del Quirinale. Occhi e memorie
rimandano così alla vicenda di Leda che infiammò d’amore il cuore di
Giove, quel Giove che in Ovidio non è tanto il signore dei cieli, quanto
piuttosto l’amante insaziabile e libertino capace di ricorrere a ogni
espediente pur di possedere l’oggetto dei suoi desideri, fanciulle o
efebi che siano. Giove per avere Leda si trasformerà in cigno. La donna
dopo l’amplesso giacerà (anche) con il legittimo consorte. E da quel
duplice connubio nasceranno loro, Castore e Polluce. Il mito di Leda e
il cigno rivive anche all’interno del percorso espositivo grazie a una
copia cinquecentesca di un quadro di Leonardo, uno degli esemplari
selezionati per comporre questa mostra colta e sofisticata, un racconto
per immagini con cui — grazie a quadri, affreschi, sculture, vasi,
gemme, rilievi e codici miniati — si riflette su temi e archetipi
giunti, attraverso i secoli, fino all’immaginario contemporaneo.
Dalla
Venere cosiddetta Callipigia, ovvero dalle belle terga — prestito del
Museo archeologico nazionale di Napoli, partner dell’esposizione — fino
al tubolare al neon con cui l’americano Joseph Kosuth, classe 1945, cita
direttamente i versi del poeta di Sulmona, la mostra è infatti un
viaggio nell’universalità di una delle principali fonti del pensiero e
dell’arte occidentale. Universalità di cui il primo a esser convinto fu
Ovidio stesso: «Ho ormai compiuto un’opera — parole sue — che non
potranno cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il
tempo divoratore… e il mio nome resterà: indelebile». Ma ancor più che
l’ira di Giove, la mostra racconta quella di Augusto, l’imperatore
impegnato in una campagna di moralizzazione dei costumi e con il quale
il poeta dell’erotismo, delle Veneri frivole e fedifraghe, l’acuto
osservatore della Roma contemporanea, il cantore di amori focosi, non
poteva che entrare in contrasto. Da qui lo spietato esilio da cui il
poeta non farà ritorno, a Tomi, sulle rive del Mar Nero, dove solo e
disperato il maestro dell’Ars amatoria vivrà gli ultimi anni implorando
un perdono che non arriverà mai.
E Augusto in mostra si impone con
la monumentale statua in marmo che lo raffigura, Pontefice Massimo, con
il capo velato, giunta dal Museo di Aquileia ed esposta in suggestiva
contrapposizione con le tante sensuali figure che animano i versi del
poeta, a partire da quelli delle celeberrime Metamorfosi. Storie di dèi,
eroi, giovinetti e ninfe che dopo aver popolato l’immaginario antico
sono giunti fino a noi grazie al tramite fondamentale dei monaci
amanuensi che nel Medioevo, chiusi nei loro cenobi, trascrissero anche i
versi più audaci salvandoli dall’oblio. E tra le più celebri delle
Metamorfosi, quella di Ermafrodito dalla doppia natura, maschile e
femminile, evocata in mostra dalla sensualissima statua (II secolo dopo
Cristo, da un originale ellenistico) proveniente da Palazzo
Massimo-Museo nazionale romano, oltre che da quadri di Sisto
Badalocchio, Francesco Albani e Carlo Saraceni.
Tra gli autori,
Benvenuto Cellini, Tintoretto, Poussin o Pompeo Batoni. E tra i soggetti
ricorrenti, oltre ad Adoni, Icari, Apolli e Veneri (presente anche
nella versione «Pudica» dipinta da Botticelli a fine Quattrocento) c’è,
va da sé, Narciso, il bellissimo cacciatore che disdegnò l’amore di Eco e
che specchiandosi nell’acqua di una fonte si invaghì di sé stesso
morendo di quella passione, non potendo possedere l’oggetto del
desiderio. Figura ovidiana per antonomasia, Narciso è ricordato grazie a
rilievi antichi e dipinti, tra gli altri, di Domenichino e Giovanni
Antonio Boltraffio. «La scelta di riparlare di Ovidio a duemila anni
dalla sua scomparsa — spiega la curatrice — è stata dettata dal
desiderio di comunicare frammenti di questo grande che ha segnato la
cultura europea. L’auspicio è che ciascuno possa provare un’emozione,
trovare uno spunto». Festeggiando così il ritorno del poeta nella sua
Roma. E da vincitore.