lunedì 12 novembre 2018

Corriere La Lettura 11.11.18
La storia globale nacque in Messico
Con la conquista del Nuovo Mondo spagnoli e portoghesi imposero la visionde europea del tempo colonizzando la memoria indigena
Ma in seguito anche giapponesi e cinesi, rimasti indipendenti, adottarono quei criteri come parte essenziale della modernizzazione
Oggi bisogna puntare sulla lunga durata, incrociando sguardi locali e mondiali, per non rimanere appiattiti sul presente
di Michela Valente


Non è solo la globalizzazione a mettere in crisi la conoscenza della storia; molti problemi scaturiscono dalla tirannia dell’istante e dalla labilità delle memorie, ammonisce Serge Gruzinski, docente all’École des Hautes Études di Parigi. Da quarant’anni questo autore si muove tra fonti diverse per ricostruire eventi reali e operazioni culturali studiate a tavolino per colonizzare la memoria e l’immaginario. Nel libro La macchina del tempo, molto ben tradotto da Maria Ma-tilde Benzoni (Raffaello Cortina), sottolinea la centralità del XVI secolo nell’avvio del processo di globalizzazione e l’importanza strategica della scrittura della storia da parte di spagnoli e portoghesi, a cui si aggiunge il tentativo dei colonizzati di lasciare un testimone: il meticcio Juan Bautista Pomar, oscillante tra due mondi, che scrive una relazione sulla civiltà precolombiana di Texcoco, in Messico.
Professor Gruzinski, nei suoi libri è sempre molto forte il confronto tra mito e storia, tra immagini riflesse e realtà, con la consapevolezza di tendere verso un risultato impossibile da raggiungere soprattutto per la volontaria o casuale manipolazione delle fonti. Da anni torna a interrogarsi sulla conquista del Nuovo Mondo attraverso la polifonia delle fonti, come efficacemente la definisce. Perché questo evento è così importante per la maturazione della coscienza storica europea moderna?
«La conquista del Nuovo Mondo è l’espressione di un cambiamento globale che inizia nel XVI secolo. Rivedendo, alla luce delle nuove ricerche, l’insegnamento del passato, si dovrebbero mettere in evidenza l’origine cinquecentesca del processo di mondializzazione e la sua matrice europea e in particolar modo iberica. Dalla conquista comincia la colonizzazione, qui si firma l’atto di nascita dell’occidentalizzazione. Per la prima volta nella storia del mondo, l’Europa, l’America, l’Africa e l’Asia entrano in contatto. Con la circumnavigazione del globo di Ferdinando Magellano, per la prima volta, la moneta europea fa il giro del mondo. Con la conquista del Messico e del Perù, l’Europa degli iberici si avvicina al continente americano. Attraverso il Pacifico, le Indie della Castiglia entrano in contatto con la Cina. Ma volendo far parlare le fonti, è necessario sapere quali domande porre ed è il mondo che ci circonda a suggerircele».
Come si presenta quello stesso processo dal punto di vista dei nativi americani? È giustificata, secondo lei, la polemica contro i monumenti a Cristoforo Colombo considerato da alcuni l’iniziatore di un genocidio?
«Le reazioni delle società amerindiane sono estremamente diverse, e dipendono dal loro grado di organizzazione e soprattutto dall’origine sociale: le élite autoctone che scelsero la via dell’occidentalizzazione e della collaborazione hanno un destino molto diverso da quello delle masse decimate dalle malattie. La polemica qui evocata è l’esempio dei falsi dibattiti ai quali la grande stampa talvolta contribuisce: parlare di genocidio è voler fraintendere il significato del termine e collegare il termine di genocidio a una figura storica come Cristoforo Colombo è parimenti aberrante. Significa voler dimenticare (o ignorare) che furono le epidemie introdotte in America dal contatto con gli europei a decimare le popolazioni indigene».
Come influirono la cultura religiosa cristiana e gli interessi delle monarchie spagnola e portoghese nella costruzione di un’immagine del Nuovo Mondo, con una vera e propria operazione di colonizzazione della memoria e della storia?
«Una dimensione cruciale della conquista è stata la colonizzazione dell’immaginario, ossia l’imposizione di nuovi modi di credere e di pensare. Questi includono la nostra idea cristiana di un tempo orientato e la nostra scansione del flusso temporale in passato, presente e futuro. Quando gli spagnoli si sono messi a scrivere la storia degli indiani delle Americhe, dunque a costruire il loro passato in funzione delle preoccupazioni e delle norme/categorie europee, hanno reso più profonda l’impresa della colonizzazione. Hanno immerso le memorie indigene in una forma che le lettere europee chiamano storia e che è il prodotto di una concezione del mondo inventata dai Greci, arricchita nel Medioevo e rilanciata dall’Italia del Rinascimento. Ma queste memorie indigene non sono rimaste passive, come ho dimostrato nel mio ultimo libro».
Nei suoi studi lei ha preso in considerazione anche la Cina, creando un parallelo tra la sconfitta dell’aquila azteca e la resistenza del dragone cinese, eventi contemporanei del XVI secolo. Che cosa hanno in comune e che cosa differenzia i due eventi?
«I due eventi sono legati. Gli iberici alla fine del XV secolo e all’inizio del XVI sono rimasti obnubilati dalle ricchezze dell’Estremo Oriente. I portoghesi vi sono arrivati oltrepassando l’Africa. Gli spagnoli, che cercavano la via per l’Ovest, si sono scontrati con il muro continuo del continente americano e con l’immensità del Pacifico. La circumnavigazione di Magellano è scaturita da una spedizione spagnola pensata per arrivare alle Molucche e ai confini della Cina. La conquista del Messico da parte di Hernán Cortés e il tentativo portoghese di invadere la Cina sono dunque non soltanto eventi coevi/contemporanei, ma rivelano le dinamiche di una mondializzazione iberica che abbraccia il globo per impadronirsi delle ricchezze dell’Estremo Oriente. I cinesi e gli aztechi reagiscono in modo diametralmente opposto. La Cina esclude i portoghesi, gli aztechi finiscono per essere sconfitti. Così l’America india diventerà l’America Latina e la Cina eviterà la colonizzazione europea fino al XIX secolo».
Lei nota che anche la Cina e il Giappone hanno costruito le proprie storie nazionali adottando le prospettive dell’Occidente. Perché è avvenuto questo?
«Nel XVI secolo la colonizzazione spagnola ha imposto l’idea del tempo storico e ha cercato di dotare le altre aree del mondo di passati intellegibili per gli europei. Tutte le colonizzazioni che sono seguite — olandese, britannica, francese — hanno fatto lo stesso, rafforzando e pianificando l’occidentalizzazione del mondo. I Paesi colonizzati hanno dovuto gli uni dopo gli altri adottare la maniera europea di scrivere la storia, in particolare la storia nazionale, tanto che quelli che si sono difesi dall’Occidente del tutto (il Giappone) o in parte (la Cina) hanno adottato loro stessi questa pratica, perché questa nuova forma di storia sembrò loro uno strumento imprescindibile della modernità, così come lo furono l’industrializzazione o il telegrafo».
Che cosa pensa della cosiddetta Global History? Come si possono conciliare l’esigenza di superare la dimensione eurocentrica con quella di evitare i rischi di una conoscenza parcellizzata?
«La storia globale impone allo storico di ricorrere alla lunga durata, ossia di risalire indietro tanto quanto lo richiedono le questioni che tratta. Purtroppo oggi prevale l’assenza di spessore storico come effetto del presentismo che contamina il mondo occidentale. Scrivere la storia a partire dalla caduta del Muro di Berlino e, nella migliore delle ipotesi, a partire dal XIX secolo, significa concentrarsi sull’epoca degli Stati nazionali e dei patriottismi, una scelta che ostacola il nostro modo di concepire la storia. Come si può riflettere sulla storia europea senza tener conto del mondo antico, senza prendere in considerazione le conseguenze della mondializzazione iberica, la nascita dei colonialismi o le origini dell’eurocentrismo? Tuttavia, non basta ricorrere alla lunga durata. Il XXI secolo ci costringe di continuo a confrontarci con i rapporti tra locale e globale. Locale e globale sono divenuti due modi dominanti di rappresentare il reale. La nostra percezione del mondo dipende da questi modi di rappresentazione».
Ma come evitare l’eurocentrismo?
«La costruzione delle memorie europee non può fare a meno della costituzione di forti memorie locali. Queste memorie sono per forza singolari, irriducibili a degli schemi nazionali. Sono quelle che parlano attraverso i monumenti, le vestigia del passato e i musei. Ma queste memorie locali devono essere un punto di partenza in modo da poter ripensare i legami con la storia nazionale e poi con altri fili giungere alla storia europea e a quella del resto del mondo, come cerchi concentrici».
In un quadro politico di generale disinteresse per la storia, salvo che per le fiction di vario tipo, sembra che l’unica iniziativa che governi e parlamenti siano in grado di avanzare riguardi le leggi sulla memoria. Che cosa ne pensa?
«Il legislatore non deve occuparsi del contenuto della memoria storica. D’altra parte, i programmi scolastici devono fornire con urgenza alle nuove generazioni degli strumenti adatti ad affrontare le trasformazioni di un mondo globalizzato. Bussole indispensabili per navigare nello spazio che si confonde sempre più con il mondo, mentre il culto della storia nazionale e quello della storia locale sono divenuti obsoleti. I nostri programmi di storia devono insegnare a mettere in relazione il locale con la regione, la regione con la nazione, la nazione con l’Europa e le altre aree del mondo. È in questa prospettiva che si potrà scrivere una storia europea che non sia solo una collezione o giustapposizione di saggi l’uno sull’altro. La storia di Milano, per esempio, si presterebbe a queste indagini, poiché partendo dalla specificità della città e della regione, gli studenti si confronterebbero con il passato di capitale dell’Impero romano, passando alla storia mondiale sotto l’impero di Carlo V d’Asburgo fino alla rivoluzione industriale».