lunedì 12 novembre 2018

Il Sole Domenica 11.11.18
Oltre il cervello
Non c’è un inconscio solo!
Molti inconsci per un cervello. Perché crediamo di sapere quello che non sappiamo
Il subcosciente ha un secolo di storia e ha molte declinazioni, dal cognitivoal freudiano. Nel libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà fa capolino anche quello artificiale
di Vittorio Lingiardi

Paolo Legrenzi, Carlo Umiltà Il Mulino, Bologna, pagg. 208, € 12,75

Anche l’inconscio si vogliono prendere ’sti cognitivisti, ovviamente travisandolo. Questo penso, son psicoanalista. Tranquillo, mi rispondo, di tutt’altro inconscio si tratta. Lo chiamano così perché il termine brilla di un secolo di storia e ancora ha la sua presa. Ma poi ci mettono la loro parola chiave: cognitivo. L’inconscio cognitivo, mica freudiano. Sì perché se il cervello è uno, gli inconsci sono molti – proprio come direbbero gli alchimisti dell’unus ego et multi in me.
Non è un caso di possessione o personalità multipla, è semplicemente che gli autori di questo libro, entrambi professori emeriti, Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà delle Università di Venezia e Padova, ci parlano di inconscio, o meglio di inconsci, per portare l’attenzione sul fatto che la maggior parte del nostro funzionamento mentale è implicito, non accessibile alla coscienza. Ma alla conoscenza sì, certo partendo dal presupposto del «sapere di non sapere».
Non trattandosi di un organo, come il cervello o il cuore, ma di una funzione, o meglio di un funzionamento, l’inconscio lo possiamo ascoltare, esplorare e raccontare (psicoanalisi) oppure “ridurlo” a oggetto di ricerca scientifica (neuroscienze cognitive). Il mio mestiere mi impone però di ricordare che oggi l’inconscio psicoanalitico non è più la cantina freudiana dei desideri rimossi (come suggeriva schematicamente il film d’animazione cognitivista Inside out) o la soffitta junghiana degli archetipi collettivi, ma un laboratorio di stati mentali, un metabolizzatore di memorie, un trasformatore di esperienze sensoriali. Lo stereotipo dello psicoanalista investigatore-archeologo che decifra simboli misteriosi ha lasciato il posto alla realtà dell’analista-clinico che, insieme con l’analizzato, costruisce una narrazione dotata di senso che ci rende più capaci di vivere (e di convivere con le trappole dell’inconscio, cognitive o dinamiche che siano!).
Legrenzi e Umiltà partono da una bella domanda solo apparentemente paradossale e a suo tempo sollevata per esempio da Giovanni Jervis in Il mito dell’interiorità: non «come mai esiste l’inconscio?» ma «come mai esiste la coscienza»? Che cosa è la coscienza, quali sono i suoi confini, come studiare le sue parti emerse e le sue controparti sommerse. Intorno a queste domande si sviluppa, scortata da esempi tratti dal laboratorio della psicologia cognitiva (tra tutti ricordo l’effetto Stroop), la tesi centrale, che è anche il titolo, di questo libro (lettura anche per non addetti ai lavori, ben scritto, non schematico): il cervello è uno, ma gli inconsci sono molti.
Ecco allora l’inconscio freudiano e i suoi contenuti rimossi da interpretare; ecco l’inconscio cognitivo e i suoi funzionamenti impliciti da svelare con i metodi sperimentali della ricerca scientifica. Ecco infine, elemento originale del libro, l’inconscio artificiale, stimolante metafora per descrivere il web. Secondo gli autori tra umano e artificiale vi sono alcune analogie: anche la nostra coscienza assomiglia a un’estesa e complessa rete di connessioni, ma, dicono, come accade per l’inconscio cognitivo, siamo inconsapevoli dei processi che regolano il funzionamento della rete. Per esempio, algoritmi invisibili selezionano (e persino vendono!) informazioni su di noi che crediamo di possedere e controllare.
Se l’inconscio cognitivo è stato scoperto studiando le anomalie della percezione cosciente, quelle dell’inconscio artificiale sono emerse dalle inchieste su Facebook e Cambridge Analytica. Il che significa anche un’altra cosa: attenzione che l’inconscio cognitivo vi può disconfermare o persino tradire. Alcune analogie, dunque, ma una differenza fondamentale. L’inconscio cognitivo si è sviluppato nel lungo arco di sviluppo della specie umana mettendosi al servizio dell’adattamento (pensieri rapidissimi, decisioni intuitive, azioni immediate, emozioni automatiche, anche se a volte ingannevoli), mentre l’inconscio artificiale è nato nell’arco di pochi decenni, seguendo le leggi del mercato e della facilitazione comunicativa piuttosto che quelle della selezione naturale. Come osservano i nostri autori: «è curioso che la dicotomia tra inconscio cognitivo e coscienza si sia riprodotta nella rete che unisce i computer. Le persone sono coscienti, sono convinte di godere del libero arbitrio, eppure sono condizionate non solo dall’inconscio cognitivo naturale, ma anche da quello ’artificiale’ che agisce in rete».
Ed ecco che l’illusione di conoscenza, quella tendenza naturale dell’inconscio cognitivo a nascondere la nostra ignoranza per regalarci conforto, sicurezza e soluzioni veloci, nel web si estremizza generando il mito di una conoscenza condivisa, giustificazione illusoria del «fai da te» e di presunte forme di democrazia diretta. Processi selezionati nel corso dell’evoluzione vengono amplificati in un ambiente del tutto nuovo, la rete, in cui il confine tra le nostre e le altrui menti diventa sempre più labile e confuso. Al punto che questo è il consiglio degli autori: «chi oggi affida parte della sua vita mentale a un più ampio e articolato sistema artificiale come Facebook e? bene che conosca le componenti cognitive del suo inconscio che interagiranno con quel sistema artificiale».
Web a parte, gli autori accompagnano il lettore nel vivo della storia dell’inconscio cognitivo e dei curiosi esperimenti condotti dai suoi studiosi. Scopriamo per esempio che i timori diffusi negli anni ’50 sulla possibilità di influenzare con stimoli occulti le nostre scelte erano in parte infondati (le tracce in memoria durano meno di un secondo e non influenzano le decisioni future) e che l’esperienza cosciente di aver preso una decisione è solo l’epifenomeno di un processo decisionale inconscio già avvenuto (al massimo possiamo inibirlo prima che si traduca in un comportamento). È un inconscio, quello cognitivo, responsabile delle deviazioni sistematiche del pensiero che Daniel Kahneman ha chiamato bias cognitivi, ma certo più prevedibile (in fondo è dotato di leggi) del ben più avventuroso, e onirico, inconscio dinamico. Molti inconsci per un cervello è un piccolo saggio che ribalta le prospettive della conoscenza e guarda le cose dal sotto in su, dal buio alla luce. Che per un libro sull’inconscio non è male.
Molti inconsci per un cervello. Perché crediamo di sapere quello che non sappiamo
Paolo Legrenzi, Carlo Umiltà Il Mulino, Bologna, pagg. 208, € 12,75