Corriere 12.11.18
Lele Mora vuole l’Unità «Ho trovato chi investe»
«l’Unità potrebbe ritornare nelle edicole o sul web». Lo hanno annunciato il manager dello spettacolo Lele Mora e Marcello Silvestri, rispettivamente direttore editoriale e fondatore del network dei quotidiani online retewebitalia.net. Mora, dopo una riunione a Varese con i vertici del gruppo editoriale, a cui ha preso parte anche il neo presidente Biagio Maimone, ha deciso di riportare in auge il quotidiano fondato da Antonio Gramsci. «Ho parlato con alcuni investitori in ambito europeo con interessi in Italia — ha spiegato — i quali sono interessati a finanziare l’operazione di acquisizione del quotidiano, la cui guida editoriale dovrebbe essere affidata al gruppo retewebitalia.net, che darebbe vita a un pool di giornalisti, con esperienza e autorevolezza, per divenire voce, opinione e “penna” di un segmento sociale non più rappresentato».
Il Sole Domenica 11.11.18
Oltre il cervello
Non c’è un inconscio solo!
Molti inconsci per un cervello. Perché crediamo di sapere quello che non sappiamo
Il subcosciente ha un secolo di storia e ha molte declinazioni, dal cognitivoal freudiano. Nel libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà fa capolino anche quello artificiale
di Vittorio Lingiardi
Paolo Legrenzi, Carlo Umiltà Il Mulino, Bologna, pagg. 208, € 12,75
Anche l’inconscio si vogliono prendere ’sti cognitivisti, ovviamente travisandolo. Questo penso, son psicoanalista. Tranquillo, mi rispondo, di tutt’altro inconscio si tratta. Lo chiamano così perché il termine brilla di un secolo di storia e ancora ha la sua presa. Ma poi ci mettono la loro parola chiave: cognitivo. L’inconscio cognitivo, mica freudiano. Sì perché se il cervello è uno, gli inconsci sono molti – proprio come direbbero gli alchimisti dell’unus ego et multi in me.
Non è un caso di possessione o personalità multipla, è semplicemente che gli autori di questo libro, entrambi professori emeriti, Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà delle Università di Venezia e Padova, ci parlano di inconscio, o meglio di inconsci, per portare l’attenzione sul fatto che la maggior parte del nostro funzionamento mentale è implicito, non accessibile alla coscienza. Ma alla conoscenza sì, certo partendo dal presupposto del «sapere di non sapere».
Non trattandosi di un organo, come il cervello o il cuore, ma di una funzione, o meglio di un funzionamento, l’inconscio lo possiamo ascoltare, esplorare e raccontare (psicoanalisi) oppure “ridurlo” a oggetto di ricerca scientifica (neuroscienze cognitive). Il mio mestiere mi impone però di ricordare che oggi l’inconscio psicoanalitico non è più la cantina freudiana dei desideri rimossi (come suggeriva schematicamente il film d’animazione cognitivista Inside out) o la soffitta junghiana degli archetipi collettivi, ma un laboratorio di stati mentali, un metabolizzatore di memorie, un trasformatore di esperienze sensoriali. Lo stereotipo dello psicoanalista investigatore-archeologo che decifra simboli misteriosi ha lasciato il posto alla realtà dell’analista-clinico che, insieme con l’analizzato, costruisce una narrazione dotata di senso che ci rende più capaci di vivere (e di convivere con le trappole dell’inconscio, cognitive o dinamiche che siano!).
Legrenzi e Umiltà partono da una bella domanda solo apparentemente paradossale e a suo tempo sollevata per esempio da Giovanni Jervis in Il mito dell’interiorità: non «come mai esiste l’inconscio?» ma «come mai esiste la coscienza»? Che cosa è la coscienza, quali sono i suoi confini, come studiare le sue parti emerse e le sue controparti sommerse. Intorno a queste domande si sviluppa, scortata da esempi tratti dal laboratorio della psicologia cognitiva (tra tutti ricordo l’effetto Stroop), la tesi centrale, che è anche il titolo, di questo libro (lettura anche per non addetti ai lavori, ben scritto, non schematico): il cervello è uno, ma gli inconsci sono molti.
Ecco allora l’inconscio freudiano e i suoi contenuti rimossi da interpretare; ecco l’inconscio cognitivo e i suoi funzionamenti impliciti da svelare con i metodi sperimentali della ricerca scientifica. Ecco infine, elemento originale del libro, l’inconscio artificiale, stimolante metafora per descrivere il web. Secondo gli autori tra umano e artificiale vi sono alcune analogie: anche la nostra coscienza assomiglia a un’estesa e complessa rete di connessioni, ma, dicono, come accade per l’inconscio cognitivo, siamo inconsapevoli dei processi che regolano il funzionamento della rete. Per esempio, algoritmi invisibili selezionano (e persino vendono!) informazioni su di noi che crediamo di possedere e controllare.
Se l’inconscio cognitivo è stato scoperto studiando le anomalie della percezione cosciente, quelle dell’inconscio artificiale sono emerse dalle inchieste su Facebook e Cambridge Analytica. Il che significa anche un’altra cosa: attenzione che l’inconscio cognitivo vi può disconfermare o persino tradire. Alcune analogie, dunque, ma una differenza fondamentale. L’inconscio cognitivo si è sviluppato nel lungo arco di sviluppo della specie umana mettendosi al servizio dell’adattamento (pensieri rapidissimi, decisioni intuitive, azioni immediate, emozioni automatiche, anche se a volte ingannevoli), mentre l’inconscio artificiale è nato nell’arco di pochi decenni, seguendo le leggi del mercato e della facilitazione comunicativa piuttosto che quelle della selezione naturale. Come osservano i nostri autori: «è curioso che la dicotomia tra inconscio cognitivo e coscienza si sia riprodotta nella rete che unisce i computer. Le persone sono coscienti, sono convinte di godere del libero arbitrio, eppure sono condizionate non solo dall’inconscio cognitivo naturale, ma anche da quello ’artificiale’ che agisce in rete».
Ed ecco che l’illusione di conoscenza, quella tendenza naturale dell’inconscio cognitivo a nascondere la nostra ignoranza per regalarci conforto, sicurezza e soluzioni veloci, nel web si estremizza generando il mito di una conoscenza condivisa, giustificazione illusoria del «fai da te» e di presunte forme di democrazia diretta. Processi selezionati nel corso dell’evoluzione vengono amplificati in un ambiente del tutto nuovo, la rete, in cui il confine tra le nostre e le altrui menti diventa sempre più labile e confuso. Al punto che questo è il consiglio degli autori: «chi oggi affida parte della sua vita mentale a un più ampio e articolato sistema artificiale come Facebook e? bene che conosca le componenti cognitive del suo inconscio che interagiranno con quel sistema artificiale».
Web a parte, gli autori accompagnano il lettore nel vivo della storia dell’inconscio cognitivo e dei curiosi esperimenti condotti dai suoi studiosi. Scopriamo per esempio che i timori diffusi negli anni ’50 sulla possibilità di influenzare con stimoli occulti le nostre scelte erano in parte infondati (le tracce in memoria durano meno di un secondo e non influenzano le decisioni future) e che l’esperienza cosciente di aver preso una decisione è solo l’epifenomeno di un processo decisionale inconscio già avvenuto (al massimo possiamo inibirlo prima che si traduca in un comportamento). È un inconscio, quello cognitivo, responsabile delle deviazioni sistematiche del pensiero che Daniel Kahneman ha chiamato bias cognitivi, ma certo più prevedibile (in fondo è dotato di leggi) del ben più avventuroso, e onirico, inconscio dinamico. Molti inconsci per un cervello è un piccolo saggio che ribalta le prospettive della conoscenza e guarda le cose dal sotto in su, dal buio alla luce. Che per un libro sull’inconscio non è male.
Molti inconsci per un cervello. Perché crediamo di sapere quello che non sappiamo
Paolo Legrenzi, Carlo Umiltà Il Mulino, Bologna, pagg. 208, € 12,75
La Stampa 12.11.18
Caso Desirée, arrestato pusher italiano di San Lorenzo
di Grazia Longo
Il caso non è ancora chiuso. L’arresto del pusher italiano che avrebbe fornito il mix mortale di eroina, cocaina e psicofarmaci a Desirée Mariottini e al branco di extracomunitari che l’ha drogata, violentata e uccisa, apre a nuovi scenari. La Squadra mobile e la procura di Roma stanno infatti proseguendo le indagini per capire se quel cocktail letale fu «prenotato» ad hoc dai quattro africani proprio per approfittare della sedicenne. Marco Mancini, romano, 36 anni, spacciatore noto anche tra i minorenni che frequentano la «casa del crack», com’è noto il fabbricato abbandonato in via Lucani nel quartiere di San Lorenzo, non ha avuto contatti con il branco e la ragazzina il giorno della sua morte, ma prima del 18 ottobre. Gli assassini di Desirée lo avevano cercato apposta perché volevano ottenere le sostanze per stordire fino all’annientamento la ragazzina di Cisterna di Latina? E ancora: gli psicofarmaci che Marco si era procurato sono stati davvero rubati alla madre, come hanno riferito alcuni testimoni che riportavano quanto dichiarato dal trentaseienne, o sono invece il frutto delle ricette facili di un medico compiacente?
L’arresto al Pigneto
Il lavoro degli investigatori agli ordini del capo della Mobile Luigi Silipo, coordinati dal pm Stefano Pizza e l’aggiunto Maria Monteleone, insomma, non è affatto concluso. Anche perché punta a verificare il ruolo di un marocchino che avrebbe abusato di Desirée dopo la morte. A tratteggiare questa ipotesi inquietante è la testimonianza di un’altra tossicodipendente, Narcisa, che frequentava la casa fatiscente. Fondamentale sarà quindi l’esito dell’esame del Dna sui poveri resti di Desirée, intorno alla quale, sempre dai racconti di altre ragazze e ragazzi tossicodipendenti, nella notte tra il 18 e il 19 ottobre scorso si sono accanite 6-7 persone. Mancini è stato arrestato alla fermata della metropolitana linea C Pigneto. Durante la perquisizione, è stato trovato in possesso di dodici dosi di cocaina e psicofarmaci di vario genere per i quali è stato segnalato alla Procura per «detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti e psicotrope». Intanto il ministro dell’Interno Matteo Salvini punta l’attenzione sull’emergenza del traffico di stupefacenti. «Per me - commenta - possono esserci coinvolti africani, italiani, eschimesi o chiunque altro, vanno blindati e incarcerati. Il problema è che la normativa sullo spaccio di droga è troppo blanda».
Corriere 12.11.12
Desirée, fermato uno spacciatore italiano
di Rinaldo Frignani, Fulvio Fiano
Da venerdì sera c’è anche un italiano coinvolto nelle indagini sulla morte di Desirée Mariottini. Si chiama Marco Mancini ed è in stato di fermo, accusato di aver rifornito di droga e psicofarmaci sia la sedicenne di Cisterna di Latina sia i frequentatori del palazzo dell’orrore a San Lorenzo dove la giovane è deceduta dopo essere stata drogata e violentata. Al 36enne viene contestato solo lo spaccio, ma per chi indaga potrebbe aver indirettamente contribuito alla tragica fine della ragazza vendendo ai quattro pusher gli stupefacenti e i farmaci necessari per stordirla e impedirle di reagire allo stupro. Uno spacciatore come loro, insomma, che gli agenti della Squadra mobile e del commissariato San Lorenzo hanno bloccato nella stazione «Pigneto» della metro C. Mancini, incensurato, aveva 12 grammi di cocaina, oltre a pasticche di Tranquillit e Quentiax 300. Gli stessi psicofarmaci con quetiapina trovati accanto al materasso dove la sedicenne giaceva senza vita. L’uomo ha ammesso di essere un frequentatore del palazzo dell’orrore a San Lorenzo — anche se quando Desirée è morta lui non c’era — e ha confermato i suoi rapporti sia con gli spacciatori ora accusati di omicidio e violenza sessuale sia con la stessa giovane, già sua cliente. Da chiarire come potesse avere una tale disponibilità di farmaci. «Li compro con le ricette di mia madre», avrebbe spiegato. Le indagini puntano ad accertare se invece lo spacciatore abbia potuto contare su medici o farmacisti compiacenti. Resta da individuare il marocchino che avrebbe abusato della giovane già morta. «Possono essere coinvolti africani, italiani o eschimesi, vanno blindati e incarcerati. Il problema è che la normativa sullo spaccio è troppo blanda», è il commento del ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Corriere 12.11.18
L’eroina che uccide i ragazzini
Dopo un decennio di calo costante, crescono le morti di overdose: una ogni due giorni
Nel 2017 il bilancio ha segnato un più 9,7% Vittime i «reduci» degli anni 80 e 90, ma anche gli adolescentiI più deboli per anagrafe: non sanno nulla dell’ecatombe di allora
di Gianni Santucci
Il turco aspettava da giorni a Roosendal, città olandese, confine col Belgio. Era l’unico a sapere. Sahin Karademir era stato già arrestato anni prima ad Ancona, nel 2005. Implicato in un traffico di 80 chili d’eroina. Stavolta l’operazione era più sofisticata. Un carico di oltre 30 tonnellate di bentonite, un minerale per l’edilizia, affidato a una (ignara) agenzia marittima genovese. Container partiti da Bandar Abbas (Iran), in viaggio verso Amburgo, Valencia, Genova. Un camionista ucraino (anche lui non coinvolto) per il trasporto fino in Olanda. Sotto la bentonite, 268 chili di eroina. La polizia li ha bloccati in porto a Genova, intorno al 20 ottobre scorso. Era droga «in transito». Ma resta il più imponente sequestro di eroina nella storia dell’antidroga in Italia. E dunque, in ogni caso, è un punto fermo. Che obbliga a sottolineare una frase dell’ultimo report della Direzione centrale servizi antidroga (Dcsa): «Crescono, invertendo un trend decennale che sembrava consolidato, le morti per overdose. Nel 2017, complice verosimilmente l’impennata nei consumi di eroina, tornano a segnare un sensibile aumento (più 9,7 per cento)».
Morte nelle stazioni
Centoquarantotto morti con la siringa in vena nel 2017. Centotrentotto fino ai primi di novembre 2018 (dati raccolti da geoverdose.it, progetto della Società italiana tossicodipendenze). Sono tre anni che questa cifra aumenta. Aumenterà ancora. Il cadavere numero 134 di quest’anno era accasciato dieci giorni fa in un bagno della stazione Centrale di Milano. Maschio, italiano, 43 anni. Di scene del genere s’era persa memoria. Le foto dei drogati morti nei bagni pubblici sembravano sigillate in un’epoca passata.
Invece in un’altra stazione, a Udine, il 3 ottobre è morta anche una liceale, 16 anni. Si chiamava Alice Bros. E il suo nome sta oggi al centro del potenziale disastro più rimosso e sottovalutato d’Italia. Perché non muoiono più solo i reduci, i vecchi eroinomani come quello di Milano. Muoiono i ragazzini. Nuovi tossici. Adolescenti. Deboli per anagrafe: non hanno memoria storica, non hanno idea della devastazione sociale degli anni Ottanta e Novanta. Con un rischio in più: gli oppioidi sintetici. Da cento a duecento volte più potenti dell’eroina. Negli Stati Uniti provocano 30 mila morti l’anno. A Mestre, nel 2017, con sostanze sintetiche i pusher nigeriani hanno fatto una strage. È la nuova geopolitica dell’eroina: che rischia di abbattere una nuova generazione.
Il canale albanese
Rotta «balcanica». Turchi. Poi albanesi. La storia dell’eroina in Europa passa da quella direttrice. È sempre attiva. L’origine la racconta un carabiniere di Milano che ha indagato sui trafficanti dall’Est per decenni: «Anni ’80 e ’90. I carichi arrivavano tutti su gomma. Camion con la targa che iniziava per 39. Cioè: Istambul. Monopolio dei turchi. Un chilo d’eroina costava 90 milioni di lire, ed era purissima». Ogni tanto i sicari della ‘ndrangheta ammazzavano un camionista, lo facevano sparire e tenevano il carico. «Poi iniziammo a sequestrare panetti avvolti in giornali albanesi. Nella “catena logistica” era entrata una nuova mafia. Gli albanesi iniziarono a “smezzare”, e portare in Italia eroina già tagliata al 50 per cento. Chi voleva ancora la qualità superiore andava a comprare direttamente dai turchi in Germania».
Oggi la struttura dei traffici è ancora quella. I grossisti in Italia sono soprattutto albanesi. Non spacciano un grammo. Vendono a chili. Al Sud hanno accordi stabili con i gruppi di camorra e con la criminalità pugliese. Nel 2017 un’operazione della Finanza («Smoke snake») ha stroncato un traffico che inondava l’hinterland napoletano di kobret, uno scarto dell’eroina. Al Centro e a Nord invece gli albanesi sono autonomi e riforniscono di continuo le piazze di spaccio gestite soprattutto da marocchini: è quel che accade a Rogoredo, uno dei più vasti super market d’eroina in Italia, dove negli ultimi mesi i carabinieri di Milano e Monza hanno tagliato due canali di fornitura albanese. A febbraio 2018, a Ravenna, la polizia ha scoperto un appartamento/laboratorio dove un gruppo di albanesi stava tagliando e impacchettando quasi 50 chili di eroina.
Le navi iraniane
Le Nazioni unite stimano che nel 2016 la produzione globale di oppio sia aumentata di oltre il 30 per cento, toccando le 6.500 tonnellate, da cui sarebbero state ricavate circa 450 tonnellate di eroina. Una super produzione, soprattutto in Afghanistan, che incombe sui mercati europei. Il primo Paese di transito è l’Iran. L’esperto per la sicurezza italiano a Teheran ha comunicato che nel solo primo semestre 2017, nella Repubblica islamica, sono stati sequestrati 7.500 chili di eroina e 8 mila di morfina. Ogni frazione del viaggio, aumenta il valore. Al confine Afghanistan/Iran, un chilo d’eroina vale 1.200 dollari; al confine con la Turchia, il costo sale a 11 mila dollari; in Turchia, 11/12 mila euro; in Italia, il prezzo arriva a 32 mila. Tagliata e messa sul mercato, il valore si triplica.
Il gotha dei trafficanti turchi rifornisce gli albanesi sulla rotta balcanica, ma allo stesso tempo li «aggira» via mare. Ecco perché il porto iraniano di Bandar Abbas sta diventando lo snodo chiave da cui partono i grossi carichi d’eroina via nave, diretti nel Nord Europa, dove vengono poi stoccati e smistati.
È proprio il percorso della nave Arbataz, quella intercettata al porto di Genova. «Si trattava di un’operazione criminale di altissimo livello, con modalità sofisticate e complesse», racconta Alessandro Giuliano, direttore del Servizio centrale operativo della polizia, che ha seguito l’indagine con gli investigatori e i magistrati genovesi. «Potevamo fermarci al sequestro — prosegue Giuliano — e invece abbiamo seguito il camion per mezza Europa, per capire chi stesse aspettando quel carico». La traccia ha portato a Roosendal, in Olanda. Ed è stata la più importante conferma investigativa internazionale della filiera turco/iraniana, quella che muove le più imponenti quantità di eroina verso l’Occidente. Anche i grossisti albanesi che lavorano in Italia, spesso, vanno poi a comprare in Olanda.
Eroina «sintetica»
I rifornimenti alimentano le «piazze». E qui le nazionalità cambiano. In un anno, il 2017, in Italia sono stati arrestati circa 2.500 trafficanti e spacciatori d’eroina. Altri mille sono stati indagati. Più della metà sono stranieri. Tra questi, 430 tunisini, 243 marocchini, 91 gambiani. L’ultimo segmento dei traffici d’eroina, lo spaccio di strada, è soprattutto cosa loro. E dei nigeriani: quasi 400 arrestati nel 2017, più della metà dell’anno prima. Emergenti, hanno canali di traffico autonomi (sono fortissimi nel gestire i corrieri ovulatori, che ingoiano la droga). Occupano «piazze» vuote o poco presidiate. A volte le conquistano. Come è capitato alla stazione di Mestre. Ed è stata una strage.
Volevano scalzare i tunisini. Hanno puntato sulla «concorrenza». Hanno messo in vendita un prodotto «migliore», che però ha provocato 18 morti in un anno. Eroina con principio attivo molto alto (fino al 30/35 per cento). E tagliata con metorfano, un oppioide. I nigeriani di Mestre sono stati arrestati in un’inchiesta della Mobile di Venezia e dello Sco. Resta un fatto: un gruppo criminale ha iniziato a tagliare eroina con un oppioide sintetico che ne aumenta la potenza.
Negli Stati Uniti gli oppioidi (soprattutto «fentanili»), venduti come analgesici, hanno creato una base di dipendenza che sta provocando la più vasta epidemia di eroina della storia: 40 mila morti l’anno. E a Milano, nel 2017, un uomo è morto per overdose da «ocfentanil». Segnali di un potenziale disastro. «Esigenze di salvaguardia della salute pubblica — avverte la Dcsa — richiedono un approfondimento per valutare se, come accaduto in altre parti del mondo», nell’aumento di overdose mortali «possa aver giocato un ruolo determinante la circolazione di eroina mescolata con sostanze sintetiche, come il famigerato fentanil». Un chilo di fentanil, al mercato nero cinese, costa 5 mila dollari. La sostanza è fino a 250 volte più potente della morfina. Tagliare l’eroina con oppioidi sintetici può moltiplicare i guadagni dei trafficanti. E il rischio di morte.
il manifesto 11.11.18
Da sessanta piazze. No al ddl Pillon. Da Bolzano a Lecce la protesta femminista
Diritti. La piazza romana preceduta dal flash mob di Non Una di Meno in Campidoglio. «Ci volete ancelle ci avrete ribelli» come nella celebre serie tv in cui le donne ridotte a macchine da riproduzione si alleano nella rivolta
di Shendi Veli
È un messaggio chiaro quello emerso ieri da oltre 60 piazze italiane. Da Bolzano a Lecce, passando per Roma, Milano, Napoli, ma anche in tanti piccoli centri, come Imperia, Viareggio, Brindisi, Orvieto. Il ddl Pillon incontra l”opposizione non solo degli spazi femministi, ma di un ampio fronte di soggetti politici e sociali. La giornata, convocata dalla rete dei centri anti-violenza D.i.Re, era stata preceduta da una petizione online che ha già superato le 100.000 firme. L’obiettivo condiviso è il ritiro immediato del disegno di legge 735 che si trova attualmente in commissione Giustizia del Senato. La proposta, tra le altre cose, introduce l’affido condiviso ed elimina l’assegno di mantenimento per come è stato fin ora contemplato.
LA GIORNATA DI MOBILITAZIONE è iniziata da Roma. Sono le dieci di mattina quando nei pressi del Colosseo una lunga fila di donne, vestite di rosso, cammina silenziosa suscitando la curiosità dei passanti. «Portiamo la tunica rossa e la cuffia bianca simbolo del potere politico, clericale ed economico che tenta di allungare le mani sulle nostre vite, i nostri corpi e le nostre scelte. Siamo donne, lavoratrici, precarie, migranti, madri, singole, lesbiche, trans a cui il governo vuole togliere spazio e autonomia. Il disegno di legge del senatore Pillon è una vendetta nei nostri confronti e noi lo bloccheremo.» Il flash mob di Non Una di Meno, dopo aver letto un testo sulle scale del Campidoglio, è confluito a Piazza Madonna del Loreto, dove si sono riunite oltre tremila persone. Sul palco associazioni, comitati cittadini, organizzazioni per l’infanzia, collettivi femministi, sigle sindacali. Presenti anche figure di spicco della politica locale e nazionale, come l’ex ministra Fedeli, il presidente della Regione Zingaretti e il segretario uscente del Pd Martina.
IL CUORE PULSANTE della piazza erano però donne, uomini e generi non binari, espressione diretta della società e dei movimenti femministi, che hanno imposto a esponenti istituzionali e partiti di presenziare senza bandiere. «Il ddl Pillon va ritirato, con gli altri tre testi sulla stessa materia attualmente in discussione al Senato. Questa piazza è l’occasione per riscoprire una partecipazione politica dimenticata» ha detto Lella Palladino, presidente della rete Dire. «Questo provvedimento vuole disconoscere la violenza contro le donne in un paese dove ogni 3 giorni una donna muore per mano di un partner violento» dice Carla di Non Una di Meno. Il movimento ha lanciato lo scorso ottobre uno stato di agitazione permanente «finchè questo governo non capirà che i diritti sono di tutti e per tutti, donne, uomini, bambine, bambini, altre soggettività e soprattutto migranti.»
SUI RISCHI a cui il provvedimento espone si è espressa anche l’Onu, che in una lettera inviata al governo manifesta preoccupazione per una misura che potrebbe alimentare “la disuguaglianza di genere e la discriminazione, privando le sopravvissute alla violenza domestica di importanti protezioni”. In piazza a Roma presenti anche molti uomini, alcuni organizzati nell’associazione Maschile Plurale «Come uomini impegnati da tempo nella ricerca di un nuovo modo di vivere la maschilità e la paternità, consapevole del mutamento creato dalla nuova libertà delle donne, ci rivolgiamo agli uomini presenti nelle forze politiche e nelle istituzioni, così come nel mondo associativo, sindacale, e in quello dei media, perché si sviluppi una riflessione profonda su questi temi» ha dichiarato Stefano Ciccone.
DUE GIORNI FA anche il vicepremier Di Maio si è espresso negativamente sulla proposta di legge, rompendo il lungo silenzio del M5S in merito alla riforma voluta dall’alleato di governo.Dell’attuale governo parla anche Elisa Ercoli di Differenza Donna «Autoritarismo, sovranismo, odio per il diverso, tutte facce della stessa medaglia» pronuncia tra gli applausi della piazza «il potere maschile si comporta come il singolo uomo violento: quando sente che sta perdendo terreno prova a reimpostare il suo ordine, in cui donne e soggetti altri vengono sopraffatti, isolati, rimessi a tacere, attenzione ve lo diciamo siamo indomabili, non ci rimetterete dove ci avete tenuto per secoli».
PIAZZE MOLTO PARTECIPATE in tutte le città, con numeri paragonabili a quelli romani anche a Milano, Bologna e Napoli. Tutti i cortei, assemblee e presidi contro il ddl Pillon si sono conclusi dandosi appuntamento a Roma, il 24 novembre, per la grande manifestazione nazionale contro la violenza maschile di genere.
il manifesto 11.11.18
Roma invasa, ma dagli antirazzisti
Uno, cento, mille Riace. Attese 20 mila presenze. Ma i manifestanti erano almeno il doppio
di Rachele Gonnelli
«Umano», in tutte le sue declinazioni, è la parola che ha risuonato di più alla grande manifestazione antirazzista contro il decreto-sicurezza che ha invaso ieri pomeriggio le strade di Roma. Umano contrapposto a «Salvini», sempre nelle varie accezioni di decreto e di esternazioni del ministro dell’Interno. E di varia umanità ce n’era davvero tanta, da tutte le parti d’Italia, dietro lo striscione di testa della piattaforma «Indivisibili». Il corteo ha sfilato per più di due ore tra Termini, via Cavour, via Merulana e ha riempito piazza San Giovanni oltretutto priva di palco: alla fine solo comizi improvvisati dai camion del corteo disposti nei vari angoli attorno alla Basilica. Rispetto alle 20 mila persone attese nei migliori pronostici, i manifestanti – nonostante i blocchi dei pullman ai caselli – si sono rivelati molti di più, forse persino il doppio.
UNA SINISTRA DIFFUSA che ha raccolto l’appello sulla piattaforma e si è riversata nella capitale «con ogni mezzo necessario» – come recitava un grande striscione – senza l’adesione di alcuna grossa organizzazione. «Si è replicato un po’ lo stesso schema della manifestazione di Macerata – dice Simone Vecchioni del centro sociale Sisma ricordando i fatti del febbraio scorso – anche allora la nostra città, dopo la tentata strage di Traini, fu invasa da 30 mila antifascisti e antirazzisti che avevano risposto alla nostra convocazione con un passaparola, perché ce n’era bisogno. Anche oggi è così, di fronte all’attacco di Lega e Cinquestelle contro i migranti e contro le fasce più deboli della società, un attacco ai diritti che alla fine toccherà tutti. I circoli di base e i singoli sono venuti a prescidere da qualsiasi diktat dall’alto». Per Simone è la prova che «il movimento antirazzista e antifascista è unito».
LA NOVITÀ PIÙ RILEVANTE rispetto ad altre analoghe manifestazioni – visibile a colpo d’occhio – è stata ieri la presenza massiccia di migranti. Sorridenti, felici, e molto più autorganizzati, non soltanto in comunità su base etnica. È il caso di un gruppo di africani del Molise che hanno scandito per tutto il tempo lo slogan del loro striscione: «United we stand, divided we fall». «Siamo nigeriani, maliani, ghanesi, facciamo lavori diversi in agricoltura o come mediatori culturali e ci organizziamo via internet», spiega uno di loro. Alcuni vanno in giro con sulla schiena pannelli di cartone scritti a mano: rispondono alla domanda sottesa su cosa sia la «pacchia». Esempio: «La pacchia non è quando hai uno nodo alla gola per la nostalgia». Oppure: «La pacchia non è svegliarsi all’alba per un lavoro sfruttato nei campi».
TANTISSIMI poi quelli venuti da Caserta. Alcuni dietro l’enorme striscione del l’ex Canapificio «Lasciateci passare», portato quasi di corsa. In questo spezzone, anche la polisportiva «Caserta antirazzista» che fa parte del circuito «We want to play, nessuno è illegale per giocare a pallone». «Ci eravamo costituiti due anni fa – racconta Marco Proto, fondatore della squadra di calcio Rfc Lions – insieme al St Ambroeus di Milano, AfroNapoli e S.Precario di Padova per denunciare la discriminazione dei cittadini extra Ue nelle norme per il tesseramento della Fgci e avevamo ottenuto l’abrogazione del famigerato articolo 40quater ma ora il decreto-sicurezza impedendo l’iscrizione all’anagrafe, richiesta per il tesseramento Figci, rimette tutto in discussione».
CI SONO TANTE REALTÀ che non ti aspetti, che sfuggono ai sondaggi di opinione o di propensione al voto sui media mainstream. Come Officina 47, altra rete di tutrici e tutori di minori migranti non accompagnati, nominati dai tribunali dei minori in base alla legge 47 o legge Zampa. «Soltanto a Roma siamo cento – dicono – e ci concepiamo come genitori sociali, non siamo affidatari, seguiamo i ragazzi che stanno nei centri e li accompagnamo nella crescita». Ci sono singoli progetti Sprar, come il coordinamento di Cosenza, i salernitani che vendono le magliette «Tu nun sì razzista, sì strunz» e gli ombrelli, e una parte dei proventi li devolvono al Baobab di Roma. E romani con la scritta «E anche ’sta rottura di cazzo dei fascisti». C’è la madre di Dora, che nasce a gennaio, e porta sulla pancia il cartello: «Attenzione pericolosa cittadina del mondo sta per nascere». In mezzo a tutta questa varia umanità ci sono naturalmente anche tante sigle e bandiere della sinistra antagonista, dei Cobas, dell’Usi, di Diem25, di giornali – da Left a La Comune – e in coda un nutrito spezzone rosso di Rifondazione e, a pochi metri di distanza, quello di Potere al Popolo.
Quando passa Jacopo Fo l’unica cosa che gli viene da dire è: «Abbiamo cambiato il mondo e lo cambieremo ancora». Una speranza e un augurio.
il manifesto 11.11.18
Pullman bloccati, schedati migliaia di manifestanti
Manifestazione antirazzista a Roma. Leu: il governo riferisca in Parlamento sui controlli di massa dei manifestanti
di Rachele Gonnelli
I carabinieri fanno cenno all’autista di deviare nell’area dell’autogrill, tutti i passeggeri del pullman vengono fatti scendere e in fila devono mostrare il contenuto di borse e zaini. «Ma ci sono solo panini..», fa una signora con i capelli bianchi e un fazzonello annodato al collo, «guardi che c’è il diritto di manifestare ancora in questo Paese, sa?». «Roba da matti, non mi era mai successo in tanti anni..», fa un’altra. Non finisce qui. I passeggeri vengono filmati da una telecamera portata in spalla da un carabiniere che appoggiato davanti alla porta del pullman, li filma tutti mentre risalgono, identificati e schedati. «Spudorati – dice un signore – neanche si nascondono».
È ciò che si vede in un video fatto con il telefonino che documenta uno dei blocchi che hanno interessato ieri decine e decine di pullman fin dal mattino, messi in atto dalle forze di polizia nei confronti degli autobus a noleggio che stavano cercando di raggiungere la manifestazione antirazzista di Roma provenienti tanto da Sud quanto da Nord.
«Sì, abbiamo avuto decine di segnalazioni di blocchi – dice Stefano di Melting Pot, dell’organizzazione e tra promotori del corteo – tutti i mezzi dei centri sociali del Nord Est sono stati fermati al casello, con fotosegnalamento dei passeggeri e lo stesso è successo a quelli delle Marche, ma anche da Firenze, da Torino, da Pisa». La manifestazione era già partita e ancora mancavano all’appello due pullman provenienti da La Spezia, fermati a lungo. Nella maggior parte dei casi – hanno raccontato – ai passeggeri è stato ordinato di esibire il documento, la carta d’identità o il permesso di soggiorno, e di portarlo vicino al volto per essere poi fotografati così.
Simone del centro sociale Sisma di Macerata racconta che la polizia ha tentato di sequestrargli lo striscione della storica manifestazione antirazzista del febbraio scorso con la scusa che aveva i pali e potevano essere usati per chissà cosa. La Questura di Roma dice di aver sequestrato 400 aste di legno e che i controlli erano stati disposti per «facilitare l’accesso al luogo della manifestazione onde evitare possibili criticità».
Sui blocchi stradali e le fotosegnalazioni preventive protestano sia Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, sia Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sinistra italiana. «Immagino – scrive, sferzante, Fraioianni – che l’8 dicembre i pullman che porteranno a Roma i militanti leghisti subiranno il medesimo trattamento, con il controllo certosino di striscioni, magliette, documenti, con i bus bloccati in campagna alle porte della capitale, come è successo ai pullman della manifestazione antirazzista». «Il governo riferisca in Parlamento perché da quel che appare ci troviamo di fronte ad una grave limitazione delle libertà democratiche» , protesta il senatore di LeU Francesco Laforgia. E Roberto Speranza, deputato di Leu e coordinatore di Mdp, si associa, giudicando i blocchi «un fatto molto grave che non si può sottovalutare».
Repubblica 12.11.18
Decreto Salvini la stretta c’è già negato l’asilo a 3 migranti su 4
di Alessandra Ziniti
Roma Un mese di decreto Salvini e gli effetti si sentono: tre migranti su quattro si vedono negare l’asilo, crollano le protezioni umanitarie e migliaia di titolari di un permesso di soggiorno vengono messi alla porta, su ordine delle prefetture, dalle strutture Sprar che li ospitavano.
I numeri di ottobre delle commissioni territoriali, chiamate a valutare le richieste di asilo con i nuovi criteri, segnano una netta inversione di rotta rispetto ai mesi precedenti, che erano in linea con il trend del 2017: i dinieghi passano dal 58 al 75 per cento e le protezioni umanitarie ( che rappresentavano la fetta più rilevante di tutti i permessi concessi) scendono dal 25 al 12 per cento; in calo dall’ 8 al 5 per cento le protezioni sussidiarie. Invariata invece la percentuale, sempre molto bassa, dei migranti a cui viene riconosciuto lo status di rifugiato, l’8 per cento.
L’effetto del taglio alle protezioni umanitarie dunque è stato immediato. Decreto sicurezza alla mano, le commissioni territoriali hanno più che dimezzato il numero dei permessi concessi limitandolo alle uniche fattispecie adesso previste, e cioè per chi necessita di speciali cure mediche, per chi arriva da Paesi colpiti da calamità naturali, per chi è vittima di violenza e sfruttamento e per atti di valore civile. Tutti per un periodo di tempo molto limitato.
Strette le maglie della protezione umanitaria ( lo strumento che fino ad ora era più utilizzato per regolarizzare chi era in Italia da tempo e lavorava, o per coprire situazioni non ricomprese dagli altri permessi), ridotta al minimo anche la " sussidiaria", riservata a chi dimostra che rischierebbe la vita se tornasse nel proprio Paese, ferma all’ 8 per cento la quota di domande per le quali viene riconosciuto lo status di rifugiato politico, ecco che i " no" delle commissioni territoriali hanno immediatamente fatto un consistente balzo in avanti, raggiungendo il 75 per cento del totale. Dunque, per rendere plasticamente l’idea, ad ottobre — su 8.925 migranti che hanno ricevuto il verdetto sulla loro domanda — ben 6.634 si sono visti negare qualsiasi tipo di protezione. Chi vorrà tentare la difficile strada del ricorso ( ora a rischio di doverselo pagare) ha diritto a rimanere in Italia, per gli altri è in arrivo un provvedimento di espulsione che, nella maggior parte dei casi ( in assenza di accordi di rimpatrio), si tradurrà in un ingresso nell’esercito degli irregolari che, stando alle ultime stime, da giugno ad oggi sarebbe aumentato di una cifra compresa tra le 17mila e le 23mila persone.
Il secondo immediato — e drammatico — effetto del decreto sicurezza è quello provocato dai tagli al circuito dell’accoglienza, che in un mese ha visto scendere gli ospiti a quota 144.000. Adesso negli Sprar possono restare solo i rifugiati e non più i titolari di protezione umanitaria. Già migliaia i migranti ( moltissimi appena maggiorenni, con tanto di carta d’identità e permesso umanitario) che sono stati cacciati dalle strutture in cui alloggiavano e in cui avevano intrapreso un percorso scolastico, di integrazione o di formazione professisonale. Le lettere di revoca delle prefetture non hanno lasciato scampo ai gestori, che hanno dovuto metterli alla porta. Regolari ma d’ora in poi senza un tetto e un lavoro.
Repubblica 12.11.18
Il corteo di Roma
Parla una delle promotrici
"Ma la piazza antirazzista con centomila persone dice che c’è un’altra Italia"
di Rory Cappelli
ROMA Giovanna Cavallo, responsabile dell’area legale Baobab, da vent’anni si occupa di diritti dei migranti. È stata tra i promotori della grande manifestazione #indivisibili del 10 novembre, «che ha avuto una risposta inaspettata», dice con un sorriso, «anche per noi che ci crediamo. E ci ha fatto capire quanto in Italia ci sia voglia di impegno».
Eppure sembra che l’Italia sia diventata razzista: porti chiusi, decreti, caccia al nero. Cosa ha invece raccontato #indivisibili?
«L’assoluta estraneità di centinaia di migliaia di persone al clima di paura che questo governo vuole imporre. In piazza c’erano 500 organizzazioni: bambini, donne, impiegati, dirigenti, disoccupati, migranti, insegnanti con intere scuole, fino ad arrivare a chi dell’attivismo fa una ragione di vita.
Era una piazza civica e libera che ha dato un segnale di discontinuità rispetto al terrore montante».
C’è dunque un’Italia che resiste, apolitica: come siete riusciti a intercettarla?
«In realtà non abbiamo intercettato nessuno: è stata la voglia di partecipare delle persone a intercettare noi. Ci hanno contattato su Facebook, nei nostri centri, ci hanno chiesto: cosa possiamo fare? È stata questa Italia diversa a muoversi, noi ci abbiamo scommesso. Ci aspettavamo 20 mila persone, non avevamo idea che ne sarebbero arrivate 100mila, che tutta Roma avrebbe invaso piazza San Giovanni, anche per esprimere un dissenso contro le politiche cittadine: c’è la voglia di dire non mi appartiene la logica dello sgombero, della repressione, di un decreto come il dl Salvini».
Cosa significa non essere razzisti?
«In questo Paese significa dire la verità. Chi è razzista non solo è ignorante ma è anche bugiardo, perché le idee che fomentano la paura e l’odio sociale sono false e tentano di mantenere l’emergenza basata sulla paura. Chi è razzista è ignorante perché crede alle bugie che gli vengono raccontate ed è bugiardo perché le diffonde».
L’antidoto?
«Sognare un po’ di più di poter cambiare. Non vivere di rabbia, ma cercare di essere protagonisti del futuro. La situazione è quasi a un punto di non ritorno: con l’emergenza che questo pacchetto determina torneremo al Medioevo per la gestione dei flussi migratori. Anche molti magistrati ne denunciano l’incostituzionalità.
Dobbiamo stare attenti».
il manifesto 11.11.18
Privato vuol dire privare
Referedum Atac. Il trasporto pubblico è un bene comune. Il nostro giornale lo rivendica dai tempi della vittoria del Sì sull'acqua pubblica. Le stagioni di privatizzazioni hanno svenduto patrimoni di danaro, ricerca, consapevolezza: per questo siamo per il No.
di Tommaso Di Francesco
Per dovere d’informazione democratica questo giornale ieri ha riportato sia le posizioni dei comitati per il Sì che quelli per il No. Ma non siamo al di sopra o fuori la vicenda della richiesta di privatizzazione dell’Atac, l’azienda di trasporti di Roma. Non lo siamo anche perché il manifesto è stato parte in causa del grande movimento che, con milioni di voti, ha vinto in Italia sette anni fa il referendum sull’acqua pubblica, con il quale abbiamo difeso, per tutti, un decisivo bene comune. Si dirà che allora si è trattato di un bene «naturale». Nel capitalismo e in quello finanziario che viviamo, di naturale c’è rimasto ben poco, tutto è ridotto o in via di riduzione a merce e a titolo di scambio. Il trasporto, da questo punto di vista, se naturale non è comunque, è attività umana e settore fondamentale. Presiede sia alla circolazione dei cittadini, delle merci e della forza lavoro (vecchia, nuova e immateriale che sia), sia alla progettazione-visione degli spazi urbani, e non solo. È dunque anch’esso un bene comune. Pensare di privatizzarlo, più di quanto non lo sia già e più di quanto è stato, è davvero sbagliato se, naturalmente, vogliamo pensare ad un futuro del nostro vivere civile.
Certo, è vero che il trasporto pubblico a Roma non funziona; che ci vorrebbero più linee per creare minore esclusione; che gli autobus sono pochi, vecchi e malandati e prendono, con sospetto, persino fuoco; che sono improduttivi e con il bilancio a rosso fisso; che le assunzioni sono spesso clientelari, spartite tra partiti più o meno di potere insediatisi in Campidoglio ecc. ecc. Tutto questo è vero. Ma la convinzione profonda è che, se si vuole avere un potere di controllo sull’ambiente devastato, sullo sviluppo informe, negativo, irrazionale e già privatizzato della città, non possiamo non riconoscere che l’improduttività del trasporto pubblico dipende proprio dal trasporto iper-privato delle milioni di macchine che intasano la viabilità impedendo ogni possibilità alla redditività del trasporto pubblico – oltre ad essere diventate, quale megaparcheggio accatastato tra un monumento e l’altro, l’unico vero e orribile arredo urbano esistente. E il pesante bilancio in rosso è però a fronte di una offerta di servizio che nessun capitalista privato- la «concorrenza» di cui parla il quesito referendario -, legato alla logica del profitto, ha in testa di realizzare, mentre probabilmente pensa solo ad una speculazione momentanea pronto ad essere remunerato «pubblicamente», con i nostri soldi, alla prima crisi. Quanto alla clientela e ai lavoratori, è vera anch’essa: ma solo la rivendicazione della difesa del trasporto come bene comune può essere l’antidoto partecipativo al disinteresse sindacale di classe, per un settore che invece dovremmo considerare più che produttivo.
E poi un’ultima ma non secondaria considerazione. Se si apre la porta al trasporto pubblico, avanzerà la banda, già fortissima, dei privatizza tori della sanità…e poi della scuola, per non parlare dei rifiuti, il bene emergente il cui controllo è fondamentale per la stessa democrazia. E così via. Ma non sono bastate le stagioni di privatizzazioni con le quali, per fare cassa, in questi decenni governi di destra e di centrosinistra, hanno svenduto letteralmente patrimoni di danaro, ricerca, consapevolezza: tutti i gioielli dello Stato? Noi non crediamo che la statalizzazione e la pubblicizzazione siano sinonimo di socialismo (anche se bisognerebbe riflettere sul valore storico del municipalismo socialista); al contrario ha rischiato più volte di diventare il supporto allo sfrenato strapotere del capitalismo privato, nazionale e internazionale. Ma, se si vuole progettare la sola esistenza di un futuro civile, i beni comuni sono un’altra cosa: devono essere pubblici e naturalmente controllati socialmente e mirati ai fini del bene pubblico collettivo, come da Costituzione. Il trasporto non è una merce, noi che lo usiamo siamo utenti non clienti, diversamente da quanto annunciano gli altoparlanti della metro.
Dunque oggi si può andare a votare sul referendum o ci si può astenere. Ma oltre all’immaginario della privacy, da difendere, per noi privato vuol dire privare. E di privazioni non ne possiamo più.
Corriere 12.11.18
Medici e reparti: il caos tirocinio
In tirocinio, ma nel reparto sbagliato. E così i giovani medici si possono ritrovare a coprire turni di servizio in settori diversi da quelli di indirizzo. Con possibili lacune sulle emergenze. Sono almeno 41 le scuole di specializzazione non a norma.
di Milena Gabanellie Simona Ravizza
Ci fideremmo ad andare in un Pronto soccorso per un’emergenza, se sapessimo che il medico di turno durante gli anni di tirocinio si è occupato di tutt’altro? E partoriremmo con un ginecologo che non ha visto più di tre parti, perché nell’ospedale dove ha svolto il corso di formazione la sala parto non c’è? Quando andiamo dallo «specialista» ci rivolgiamo a un laureato in Medicina che dopo aver fatto altri 4-5 anni di studi specifici e di pratica in un ospedale è diventato cardiochirurgo, rianimatore, oncologo, ortopedico, ginecologo , anestesista, ecc. La formazione è affidata alle Scuole di specializzazione. Troppe non formano.
Università-ospedale: la rete
Quest’anno il ministero dell’Istruzione, di concerto con quello della Salute, ha accreditato 1.123 Scuole di specializzazione, che dipendono da 42 Università e sono collegate agli ospedali dove viene svolto il tirocinio. Ogni anno si iscrivono quasi 7.000 neolaureati in Medicina, selezionati con un concorso nazionale a quiz, al quale partecipano oltre 16 mila candidati. Pochi, rispetto alla necessità di sostituire chi va in pensione: la stima è che tra dieci anni mancheranno oltre settemila medici. Il problema è che ogni specializzando costa al ministero della Salute 1.700 euro netti al mese, e per allargare i numeri bisogna trovare i soldi. Ma almeno quei pochi sono messi nelle condizioni di avere una buona formazione?
Per essere accreditate le Scuole di specializzazione devono garantire spazi e laboratori attrezzati, standard assistenziali di alto livello negli ospedali dove viene svolto il tirocinio e indicatori di performance dell’attività scientifica dei docenti. Oggi — carte riservate alla mano — ci sono almeno 41 Scuole di specializzazione senza i requisiti minimi, a cui vengono affidati ogni anno 383 giovani in formazione. Il calcolo è al ribasso, perché Dataroom, insieme all’Associazione liberi specializzandi di Massimo Minerva, ha potuto accedere solo agli indicatori più «vistosi». Vediamoli.
I medici formati senza reparti
La presenza del Pronto soccorso — e sembra paradossale doverlo specificare — è obbligatoria per l’accreditamento delle Scuole di specializzazione in Medicina d’emergenza-urgenza, ovvero quelle che formano proprio i medici di Ps. A Napoli, l’azienda ospedaliera Federico II e il vecchio Policlinico, il Pronto soccorso non ce l’hanno. Eppure, nei due ospedali, svolgono il tirocinio gli specializzandi in Pronto soccorso delle università Federico II e Vanvitelli.
Solo i più fortunati vengono mandati a rotazione negli altri ospedali collegati alla rete formativa, come il San Paolo, l’ospedale Evangelico Villa Betania, il Cardarelli, oppure a Caserta o ad Aversa. Ma la legge è chiara: il Ps deve essere presente sia nella sede principale che nelle altre strutture della rete. «Quante volte sono andato in Pronto soccorso lo scorso anno? Neanche una», dice uno specializzando del Federico II; un altro aggiunge: «Io faccio le guardie di notte in Cardiologia, e siccome lì ci sono i turni da coprire, anche quest’anno in Pronto soccorso non ci andrò».
Gli altri casi fuorilegge
La presenza del Pronto soccorso è obbligatoria anche per l’accreditamento delle Scuole di specializzazione in Medicina interna, Ortopedia e traumatologia, Pediatria, Radiodiagnostica, Malattie dell’apparato digerente e cardiovascolare. Bene, 4 Scuole sono accreditate al Campus Biomedico, 6 all’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro, 10 alla Vanvitelli e 12 al Federico II.
Nessuno degli ospedali collegati ha nella propria sede principale il Pronto soccorso. Le Scuole di Anestesia devono avere l’elisoccorso e una convenzione con il 118. Non ce l’hanno a Chieti, alla Vanvitelli, al Federico II e al Campus biomedico. Non hanno i reparti di Ostetricia l’ospedale Sant’Andrea di Roma, riconosciuto come Scuola di specializzazione in Ostetricia e ginecologia per La Sapienza II, né il Policlinico universitario del Campus biomedico. All’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro, accreditata in Malattie dell’apparato respiratorio, non c’è il reparto di Chirurgia toracica.
Per l’Università incassare un accreditamento come Scuola di specializzazione garantisce posizioni di prestigio ai professori titolari di cattedra, mentre per gli ospedali collegati significa avere a disposizione forza lavoro a costo zero (gli specializzandi li paga lo Stato con contratti di formazione).
La complicità politica-accademia
Un sistema andato avanti per anni, al di fuori di ogni controllo e a cui hanno messo mano per la prima volta il 13 giugno 2017 gli allora ministri Valeria Fedeli (Istruzione) e Beatrice Lorenzin (Salute). Sono stati stabiliti i requisiti minimi di qualità per ottenere l’accreditamento e parametri rigorosi per valutare la qualità della formazione delle Scuole. È nato l’Osservatorio nazionale composto da 16 figure universitarie di prestigio, ordinari di Medicina e presidi di facoltà (guidati dall’endocrinologo di Padova Roberto Vettor). Il lavoro ha portato all’esclusione di 130 Scuole di specializzazione, il 10% del totale, perché senza i requisiti minimi. Come abbiamo visto, però, le situazioni irregolari continuano. L’unico modo per verificare se un’Università non dichiara il vero, è quello di andare a vedere sul posto, e dovrebbero farlo le Regioni, le quali si sono tutte dotate di un Osservatorio. Il fatto che finora non sia stata prodotta una relazione che sia una, la dice lunga sulla «complicità» locale tra politica e accademia.
Le Scuole di qualità non ci mancano
A febbraio-marzo 2019 dovrebbe esserci la resa dei conti, in vista dei nuovi accreditamenti. Una politica responsabile ha il dovere di mandare gli specializzandi a formarsi solo nelle Scuole dì qualità (e non ci mancano). Le altre vanno cancellate, o devono esse messe nelle condizioni di adeguarsi. La ricaduta finale di una cattiva formazione si scarica sui pazienti, che non ricevono cure appropriate, con conseguente aumento dei costi sanitari. Infine c’è il preoccupante fenomeno in crescita dei chirurghi che, avendo fatto pochissimi interventi durante gli anni di tirocinio, si rifiutano di entrare in sala operatoria per paura di sbagliare. È questa la Sanità che meritiamo?
Corriere 12.11.18
L’arte del governare una società complessa
di Giuseppe De Rita
Con l’avvio parlamentare della manovra di bilancio si chiude un periodo delicato della dialettica politica italiana, dove nell’intreccio fra impegni programmatici e faticosa decisionalità si sono rivelate due esplicite fragilità dell’attuale esperienza di governo: una culturale e l’altra sociale.
La prima fragilità è quella rivelata dalla differenza fra il tanto che i contendenti hanno annunciato in campagna elettorale e il poco che essi possono fare una volta giunti al potere; ed è una fragilità profonda che ha le sue radici nell’annuncio di forte decisionalità che c’era sotto le promesse elettorali («quando comanderemo noi, faremo immediatamente quel che vi stiamo promettendo»). Raccogliere il consenso originato sul contenuto delle promesse è stato facile, ma l’errore è stato quello di far credere che tutto sarebbe stato risolto con il cambiamento di chi comanda: errore semplice, ma drammaticamente contrario al fatto che vincere le elezioni non significa «andare a comandare».
L’esperienza di decenni, in tutto il mondo, dimostra che l’automatica corrispondenza fra essere al governo e esercitare il comando vige solo in sistemi feudali, autoritari, semplicistici. Governare, nelle società complesse, è invece gestione di aggiustaggi conti-nuati, per cui se si accetta l’inevitabilità di tale aggiustamenti ci si deve aspettare che la promessa di esercitare semplicemente il comando si rivolga al limite contro chi l’ha fatta («ti abbiamo eletto perché decidessi subito su quel che promettevi, ed ora ci tradisci?»). Il ritorno alle manifestazioni in strada denota questo disagio e rende nuda la insana propensione a far coincidere governare e comandare, propensione peraltro ricorrente nella cultura politica italiana, che è stata sempre affascinata dal decisionismo e non ha mai capito che le società moderne vanno governate «accompagnandole» nella loro dinamica spontanea, senza scorciatoie decisionistiche.
A questa fragilità culturale si aggiunge una altrettanto pericolosa fragilità sociopolitica. Chi si trova a governare è sempre destinato alla solitudine, specialmente in questo periodo travagliato e complesso: si ritrova infatti in una realtà fatta di mille e mille variabili, soggetti e comportamenti che sfuggono ad un esercizio sofisticato del comando e chiedono invece una raffinata capacità di prendere atto dei fenomeni in corso; di padroneggiare i processi strutturali in cui i soggetti collettivi si fanno portatori (magari conflittuali) di interessi e obiettivi comuni; di essere pronti a dialogare con le diverse posizioni in campo. In parole più antiche, di saper gestire una continua mediazione, anzi continue e molteplici mediazioni.
Nell’attuale coazione al comando questa banale verità non gode di buona stampa; viene anzi interpretata come inutile e torbida istanza alla mediazione, da rigettare anche negando spazio alle strutture di rappresentanza di interessi e di identità collettive che, lavorando sulla e nella mediazione, rischiano il solipsismo ed ancora più rischiano di dover fronteggiare dinamiche molto emozionali, dove soggetti non chiamati alla mediazione pensano o si illudono di poter avere identità e potere di moltitudine: vanno in piazza, come unico contenitore di emozioni collettive e ci restano anche quando rappresentano solo se stessi.
Coazione al comando e difficile dialogo con il tessuto intermedio della società portano in conclusione ad una sostanziale fragilità dell’azione politica: fragilità non curabile con formule miracolistiche di decisione (l’algoritmo o la tentazione referendaria). Ci vuole pazienza, una virtù non facilmente spendibile nella congiuntura italiana.
Il Fatto 11.11.18
Alexandria, neodeputata con sistemazione di fortuna
Senza il primo stipendio, Washington proibitiva - Usa
Alexandria, neodeputata con sistemazione di fortuna
di Giampiero Gramaglia
Alexandria, 29 anni, newyorchese di belle speranze, ha il problema che molte giovani donne hanno quando lasciano la famiglia e la loro città per affrontare le incognite d’una nuova avventura professionale: fino a quando non incasserà il suo primo stipendio, non potrà pagarsi l’affitto; e sta cercando una sistemazione di fortuna. Il problema di Alexandria è però divenuto un caso nazionale, negli Stati Uniti, perché lei è Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane donna mai eletta al Congresso, liberal e rampante. Martedì scorso, la candidata democratica ha stravinto il suo collegio nel Bronx con il 78% dei suffragi, dopo avere battuto nelle primarie, in una competizione ben più serrata, il deputato in carica Joseph Crowley, che dal 2004 nessuno aveva mai sfidato. Quando la Ocasio-Cortez ha raccontato al New York Times di non aver i soldi per pagarsi l’affitto a Washington – fino al 2019, niente paga: il Congresso si riunirà il 3 gennaio -, quelli della Fox, che di certo non la amano, le hanno fatto i conti in tasca o, meglio, le pulci al guardaroba. Ed Henry, uno degli anchor della all news conservatrice, s’è pubblicamente chiesto se la neo-deputata fosse sincera, visto che “si fa fotografare con vestiti da migliaia di dollari”.
Lei, su Twitter, ha subito replicato: gli abiti del servizio fotografico le erano stati prestati; e ha ribadito: “Sto solo cercando di trovare il modo di tirare avanti fino a gennaio”. Ad arrangiarsi, Alexandria è abituata: origini portoricane – il nonno è stato una delle vittime dell’uragano Maria – orfana di padre quand’era ancora adolescente, la mamma che faceva le pulizie a ore, è arrivata all’Università e alla laurea guadagnandosi borse di studio.
La storia della deputata senza soldi per l’affitto è arrivata fino alla Bbc, oltre che suscitare una ridda di commenti sui social, dove molti la vivono con empatia come la vicenda tipica d’una ‘millennial’ – la prima al Congresso -. Educatrice per formazione, cattolica, le capita di scrivere su America, la rivista dei gesuiti.
Della Ocasio-Cortez si parla, e molto, a New York e negli Usa da giugno, cioè da quando sconfisse nelle primarie Crowley, il doppio della sua età e da 19 anni in Congresso. Estromettendolo, Alexandria fece un involontario favore a Nancy Pelosi: Crowley, infatti, era il favorito per succedere alla deputata della California alla guida dei democratici (che sono di nuovo maggioranza alla Camera). Ocasio-Cortez, che si batte per i diritti degli Lgbt e che marcia contro la ‘tolleranza zero’ nei confronti dei migranti e delle loro famiglie, è un volto nuovo di un partito vecchio, che sta mutando e che sta mettendo il suo destino nelle mani delle donne: di Hillary Clinton nelle presidenziali 2016; forse della Pelosi, se sarà speaker della Camera, nei prossimi due anni di confronto/scontro con l’Amministrazione Trump; e forse di Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, potenziale candidata liberal a Usa 2020.
Ma Hillary, Nancy, Elizabeth sono due generazioni avanti ad Alexandria, che ha dalla sua la gioventù e le origini ispaniche. Il successo nelle primarie mise a nudo le difficoltà e le debolezze della vecchia guardia del partito democratico, che non esce dalla crisi di credibilità dei partiti tradizionali. Ocasio-Cortez, che aveva fatto campagna nel 2016 per Bernie Sanders e che esce dalle fila dei Democratic Socialists for America, prova che è il momento d’un avvicendamento generazionale.
L’affitto a Washington è l’ultimo dei suoi veri problemi: potrà arrivare nella capitale federale e fare couchsurfing – la ricerca di ospitalità nella comunità di pendolari – per qualche settimana. Al Congresso, sarà uno dei pochi democratici a concentrarsi sul lavoro legislativo e a non avere ambizioni per il 2020: le presidenziali, le prossime, arrivano troppo presto per lei.
Il Sole Domenica 11.11.18
Graham Allison
Xi e Trump, la lotta per la supremazia globale
Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire
alla trappola di Tucidide?
di Massimo Teodori
La rivalità tra la Cina e gli Stati Uniti è destinata ad esplodere in una guerra mondiale che interromperebbe un lungo periodo di pace tra le grandi potenze? È la domanda che si pone il politologo internazionalista di Harvard Graham Allison ricorrendo per la risposta alla “Trappola di Tucidide”, una teoria elaborata dall’antico storiografo a proposito dell’esplosione del conflitto tra Atene e Sparta: quando una potenza emergente minaccia la potenza dominante, il pericolo della guerra è alle porte. Per convalidare l’interpretazione della “Trappola” il saggio Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide? esamina quel che è accaduto in 16 conflitti degli ultimi cinque secoli. Dodici sono i casi che si sono risolti in guerre – dalla Spagna contro il Portogallo nel XV secolo, alla Germania contro il Regno Unito nel Novecento –, e solo quattro sono finiti senza il rumore delle armi come nel caso della Guerra Fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti che ha evitato il conflitto nucleare.
Oggi si fa più pressante la sfida della Cina sugli Stati Uniti per conquistare quel primato mondiale che potrebbe dar luogo a una guerra oppure risolversi nella coesistenza pacifica. Il predominio americano finora dominante è contestato dalla potenza emergente della Cina di Xi Jinping, forte della straordinaria crescita economica innescata dal regime nazionalista autoritario subentrato a quello comunista. Gli Stati Uniti sono sul punto di essere superati: nel 1946 detenevano il 50% del mercato economico globale, ed oggi sono scesi al 16% e si avviano a toccare il 10 per cento. Di contro, la Cina, che nel 1980 possedeva il 2% del mercato internazionale, è salita nel 1980 al 18% e nel 2040 taglierà il traguardo del 30 per cento.
I caratteri di Xi e Trump si somigliano molto per quel che riguarda la parallela lotta per la supremazia mondiale a partire dalla comune ambizione di rendere grandi i rispettivi Paesi. Se il cinese aspira a rinnovare gli splendori imperiali, l’americano poggia le sue velleità su slogan come Make America Great Again privi di quel retroterra strategico che ha permesso ai suoi predecessori di gestire con successo il primato degli Stati Uniti. Nella crisi dei missili a Cuba, Kennedy ricorse a tattiche dilatorie per ridurre al minimo gli incidenti dei militari ed impedire così la rappresaglia nucleare. Vent’anni dopo, Nixon e Kissinger evitarono l’allargamento della guerra del Vietnam all’Urss e alla Cina negoziando con Breznev e Mao soluzioni di compromesso.
È vero che sono i fattori strutturali le più probabili cause delle guerre tra potenze emergenti e dominanti come è oggi la volontà di Xi di restaurare il dominio cinese su tutta l’area del Pacifico sfruttando la straordinaria crescita economica. Ma la storia insegna che spesso sono le scintille ad innescare i grandi conflitti per cui sarebbe più che mai necessario guardare con attenzione alle guerre commerciali, ai cyber-attacchi informatici e agli incidenti dove si stanno costruendo le isole artificiali oceaniche. A fronte di tanti rischi la lezione di Allison è che l’America può superare il destino della “trappola di Tucidide” solo se tenterà di capire i reali obiettivi della Cina elaborando una adeguata strategia dell’attenzione, e se, per evitare disastri, entrambe le potenze metteranno al centro degli interessi nazionali i problemi interni piuttosto che le manie di grandezza. L’autore di Destinati alla guerra, pur essendo di natura ottimista, confessa amaramente che Washington è divenuto oggi «una palude avvelenata dalle partigianerie».
Il Sole Domenica 11.11.18
I prossimi esami per la Cina
Il processo di trasformazione che ha già cambiato il Paese dovrà prevedere la riforma del sistema bancario, lo sviluppo del terziario, ingenti spese per scuola e sanità e molto altro
di Romano Prodi
La Cina è arrivata ad essere il primo Paese del mondo per reddito prodotto mantenendo e, negli ultimi mesi anche accentuando, la verticalità del suo potere decisionale. Con un’immagine forse troppo sintetica e certamente imperfetta cerco abitualmente, non senza un certo azzardo, di spiegare ai miei studenti che la Cina ha scelto la strategia opposta a quella del Principe di Salina nel Gattopardo. A Palermo tutto doveva cambiare perché tutto rimanesse uguale. A Pechino tutto doveva rimanere fermo perché tutto nella società cinese potesse cambiare e trasformarsi in modo radicale, veloce e senza precedenti.
Questa linea di comportamento, che si conferma da quarant’anni, si è ulteriormente rafforzata dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica: i dirigenti cinesi non hanno infatti mai perdonato ai loro colleghi sovietici di aver percorso il cammino opposto, premiando le riforme politico-istituzionali rispetto ai cambiamenti del sistema economico. Non solo non vi sono segni che questa dottrina verrà cambiata nel prevedibile futuro ma, all’opposto, si sta assistendo ad un ulteriore accentramento del potere decisionale.
Al di sopra della piramide resta il Partito che, con i suoi ottanta milioni di iscritti e sotto il robusto comando del presidente Xi Jinping, dirige e regola la vita cinese in ogni suo aspetto. Non solo nel tradizionale controllo sul governo e sull’esercito ma sull’economia, sull’informazione e sulle amministrazioni delle province, tradizionalmente portate ad assumere atteggiamenti di eccessiva indipendenza, ma soprattutto nella gestione dei bilanci. Il che ha causato e sta causando seri problemi di coerenza e di compatibilità delle politiche provinciali nei confronti delle decisioni di carattere nazionale.
Negli ultimi cinque anni al già ponderoso dossier del presidente si è aggiunta la lotta alla corruzione, decisione assolutamente necessaria per la dimensione che essa aveva assunto a tutti i livelli. Una dimensione che rischiava di mettere in pericolo i necessari elementi di coesione della società cinese. Non si hanno dati precisi di quanti dirigenti e funzionari siano ora sotto accusa con diverse modalità e diversi livelli di gravità. Si parla in ogni caso di numeri estremamente elevati sui quali non si hanno precisi elementi di giudizio. Da economista posso solo constatare che, con l’inizio della lotta contro la corruzione, la domanda di beni di lusso ha subito una fortissima caduta, per riprendersi soltanto quando la continua crescita del reddito e il conseguente aumento di nuovi consumatori ha permesso la ripresa del settore.
Negli ultimi anni la Cina, che già aveva causato tensioni e problemi soprattutto per la sua capacità concorrenziale in materia di costi, è entrata con forza nelle nuove tecnologie e, rendendo palese la volontà di raggiungere il primato in settori particolarmente avanzati attraverso il così detto «Progetto 2025», ha scatenato prima l’attenzione e poi l’ostilità degli Stati Uniti d’America. Una tensione che è stata resa pubblica ed è diventata una bandiera politica con il presidente Trump, ma che è ormai una caratteristica di tutto il mondo politico americano, con differenze solo di tono fra democratici e repubblicani.
La rapidità e la dimensione del progresso cinese hanno sorpreso tutti: si tratta infatti di un progresso a tutto campo fondato prima sui bassi salari, poi su straordinari aumenti di produttività, anche se molto spesso accompagnati da violazione delle regole sui brevetti e sulla proprietà intellettuale. E su questi campi è interesse anche cinese porre un rapido rimedio, come strumento necessario, anche se forse non sufficiente, per evitare una guerra commerciale di cui nessuno conosce gli esiti finali.
Certo oggi non si può definire la Cina come un paese a basso costo del lavoro. Per illustrare sinteticamente quali siano stati i cambiamenti in materia ricordo solo che, all’inizio degli anni novanta, scrissi un breve articolo dal titolo 1 a 40, dove si spiegava come il costo orario del lavoro era in Italia quaranta volte il costo orario della Cina. Oggi l’articolo dovrebbe essere intitolato 1 a 3. E quando si sale a livelli professionali più elevati il costo è identico ad eccezione di alcuni casi, come ad esempio quello degli operatori finanziari, nei quali il costo cinese supera quello italiano.
(…) La lettura del saggio di Ignazio Musu ci pone di fronte ai grandi successi ottenuti dalla Cina ma anche di fronte alle sue sfide future che non potranno essere vinte in un quadro dominato dalle separazioni e dalle tensioni.
La trasformazione cinese è stata infatti formidabile ma deve essere messa in sicurezza da azioni e strategie ancora lunghe e complesse. È vero che la Cina, fino a pochi decenni fa fuori da ogni aspetto di modernità, è oggi ormai l’economia più grande del mondo. È vero che oltre cento fra le prime cinquecento imprese del pianeta sono cinesi. È altrettanto vero però che il reddito pro capite dei cittadini dell’Impero di Mezzo è ancora una frazione di quello americano. Quindi la Cina ha ancora tanto lavoro da fare.
Deve tenere sotto controllo la spesa delle province e delle imprese statali, deve riformare il sistema bancario e sviluppare gran parte del settore terziario, deve intensificare gli interventi per attenuare gli squilibri territoriali, deve guidare con cura il passaggio da un’economia fondata sugli investimenti ad un sistema più attento ai consumi, deve controllare la bolla immobiliare e la crescita ulteriore delle aree metropolitane e deve prepararsi ad un ingente aumento delle spese per l’istruzione e la sanità. Deve infine essere pronta di fronte alla stagnazione dell’offerta di lavoro che si verificherà quando sarà terminato l’afflusso degli immigrati dalle campagne alle città, dato che il tasso di natalità non sembra aumentare sensibilmente nemmeno dopo l’abrogazione della legge del figlio unico.
La lettura delle pagine di Ignazio Musu ci insegna che, anche per la Cina, gli esami non finiscono mai. Ci insegna però anche che sarebbe molto utile che cinesi, europei e americani imparassero a prepararsi agli esami studiando un poco insieme. Sarebbe un bene per tutti.
Il Sole Domenica 11.11.18
Filosofia politica. La tesi di Carlo Daniel Lasa va al di là della lettura populista
Peronismo? Fascismo in salsa argentina
di Sebastiano Maffettone
Carlo Daniel Lasa, professore di filosofia presso l’Università Cattolica di Cordoba in Argentina, ha scritto un libro breve ma interessante sul peronismo, libro inequivocamente intitolato Que és el Peronismo. L’interesse deriva, oltre che dalle indubbie capacità teorico-ricostruttive dell’autore, perlomeno da due faccende.
Innanzitutto, Lasa è argentino e quindi conosce dall’interno la storia e la realtà del peronismo. Come ci dice nelle prime pagine, lo ha vissuto sulla sua pelle, con il padre peronista che discuteva con la madre anti-peronista (leggendo il libro si capisce che alla fine l’autore ha finito per fare sua la tesi della madre).
In secondo luogo, perché in un’età in cui il populismo sembra affermarsi dappertutto studiare il populismo per eccellenza, e cioè il giustizialismo di Peron, sembra un’ottima idea. Un ulteriore motivo di interesse per noi sta nel fatto che Lasa nella sua lettura del fenomeno è molto influenzato da autori italiani. La sua lettura del fascismo deve molto a quella filosofica di del Noce e a quella storica di de Felice.
Per non parlare di Giovanni Gentile il cui pensiero c’entra molto non solo con l’autore di questo libro ma anche con le convinzioni teoriche di Juan Domingo Peron, uomo che -come nessun altro- incarnò lo spirito del popolo argentino e la filosofia nacional. Peron aveva anche una sua filosofia, se la vogliamo chiamare così, cui Lasa dà il nome di praxismo e a cui aveva già dedicato un libro precedente nel 2012 (Juan Domingo Peron: el demiurgo del praxismo in Argentina). Il praxismo, a sua volta, altro non sarebbe che la versione argentina del fascismo italiano così come interpretato da Gentile.
Tra le altre cose, Peron visse in Italia dal 1939 al 1941, ben prima cioè di conquistare il potere in Argentina, paese di cui fu capo incontrastato dal 1946 al 1955 (per poi ritornare più brevemente nel 1973 e 1974). Ma dopo il soggiorno italiano l’ammirazione per il fascismo teorico e pratico, durò vita natural durante. Tanto che molti anni più tardi egli scrisse che Mussolini era l’uomo di stato più brillante che avesse mai conosciuto.
Ma come si fa a dire che il peronismo, con l’anima populista che lo contraddistingue, è una forma di fascismo sia pure sui generis? Da un lato, Lasa poggia questa tesi, come si diceva, su una lettura attualistica del praxismo peroniano. Dall’altra, si basa sulla classica visione storico-critica, ispirata ai testi di Nolte e del Noce, per cui la grande divisione della prima metà del Novecento è quella tra rivoluzionari (radicali di sinistra) e nichilisti (radicali di destra).
E alla luce di questa divisione non c’è dubbio che Peron stia più coi secondi che coi primi. Cosa che, tra l’altro, è confermata dalla sua avversione costante per il mondo anglosassone e per l’Illuminismo. Il peronismo ebbe comunque rapporti stretti con la Chiesa Cattolica, cosa che Lasa non manca di sottolineare. Così come, discute con finezza le interpretazioni del peronismo da Zanatta a Laclau.Qué es El Peronismo (una mirada transpolitica), Carlos Daniel Lasa
Ediciones Universidad Catòlica de Salta, Salta (Argentina), pagg 138, € 6
il manifesto 11.11.18
Il governo di Varsavia marcia con l’estrema destra europea
Polonia. L’occasione è il centenario dell’indipendenza polacca. In piazza anche gli antifascisti. Il partito al governo «festeggerà» insieme a nazionalisti e Casa Pound
di Giuseppe Sedia
VARSAVIA Il governo della destra populista di Diritto e Giustizia (PiS) sfilerà a Varsavia oggi insieme ai nazionalisti, in occasione del centenario dell’indipendenza della Polonia.
L’11 NOVEMBRE 1918 il paese era tornato ad esistere all’indomani della fine della prima guerra mondiale e dopo essere scomparso completamente dalla mappa dell’Europa nel 1795. Ufficialmente nella capitale ci saranno tre cortei: il Marsz Niepodleglosci («il corteo dell’indipendenza» in polacco ndr) capace di portare ogni anno a Varsavia un campionario dell’estremismo europeo di destra; il corteo nazionale organizzato dal PiS insieme alla forze armate, e una marcia antifascista preparata da alcune sigle antagoniste. Ma si tratta di una differenza puramente nominale nei primi due casi.
Il Marsz Niepodleglosci e il corteo ufficiale seguiranno infatti lo stesso percorso nelle arterie principali della capitale formando un solo flusso di persone nonostante i proclami della vigilia da parte del PiS: «Non parteciperemo al corteo del 11 novembre. Vorremmo che questa manifestazione si svolgesse senza divisioni politiche o simboli di partito e che a unirci sia soltanto il bianco e rosso della bandiera polacca. Purtroppo gli organizzatori non sono d’accordo», aveva dichiarato qualche giorno fa la portavoce del PiS Beata Mazurek. Anche il presidente polacco Andrzej Duda aveva dato forfait a causa di altri impegni. Ma quali sono le ragioni che hanno spinto il partito fondato dai fratelli Kaczynski a fare dietrofront?
L’ANNO SCORSO IL PIS non aveva partecipato all’evento nel quale avevano preso parte anche Roberto Fiore di Forza Nuova, e Laszlo Toroczka, esponente del partito di estrema destra ungherese Jobbik, giunti in Polonia su invito del Campo nazional-radicale (Onr), una della sigle protagoniste del Marsz Niepodleglosci.
LA DIRIGENZA del PiS ha ritenuto che l’assenza del partito dalla manifestazione sarebbe stata un passo falso, visto il carattere eccezionale della commemorazione di quest’anno. Allo stesso modo il governo spera che sfilando in un unico corteo i gruppi più radicali mantengano un profilo piu basso evitando slogan xenofobi o antisemiti e gesti fascisti esibiti come di consuetudine ogni 11 novembre. Nella giornata di ieri alcuni protagonisti del Marsz Niepodleglosci hanno organizzato due conferenze a porte chiuse con la partecipazione del Movimento di Resistenza Afrikaner e Casa Pound.
Ma i preparativi per le celebrazioni di quest’anno sono stati segnati da caos e incertezza anche su altri fronti. La sindaca di Varsavia Hanna Gronkiewicz-Waltz e il primo cittadino di Breslavia Rafal Dutkiewicz hanno provato a vietare i cortei nelle rispettive città. Ma in entrambi i casi la decisione è stata rovesciata da un tribunale. Le amministrazioni cittadine avevano giustificato la propria decisione per motivi di sicurezza anche alla luce della carenza di personale tra le file delle forze dell’ordine.
ALMENO UN TERZO delle forze di polizia del paese non è disponibile per «malattia». Una protesta collettiva che nasce dal braccio di ferro tra sindacato di categoria e governo su stipendi e pensioni. Il PiS è dovuto correre ai ripari convocando la polizia militare per monitorare la situazione. La Coalizione antifascista (Antifa) sfilerà invece a Varsavia nell’altro corteo. Ci saranno anche i blindati militari Rosomak chiamati «diavoli verdi» e impiegati dall’esercito polacco in Afghanistan. Forse a conti fatti i polacchi meriterebbero di celebrare i 100 anni di indipendenza del proprio paese in un’atmosfera più serena.
La Stampa 12.11.11
Polonia
Anche le bandiere di Forza Nuova alla manifestazione dell’indipendenza
Migliaia di persone hanno sfilato ieri a Varsavia per celebrare i 100 dell’indipendenza della Polonia. Il presidente Duda, vicino al partito della destra populista PiS, ha evitato di salutare l’unico ospite giunto dall’estero, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che aveva ribadito che l’indipendenza della Polonia ha due padri: Pilsudski e Lech Walesa, l’ex leader di Solidarnosc. Duda, invece, nel discorso di inaugurazione della nuova statua dell’ex presidente Lech Kaczynski, gemello del leader del PiS, ha affermato che quest’ultimo è «lo statista polacco più importante dopo Pilsudski». E ieri, tra le bandiere nazionali, sfilavano anche quelle dell’italiana Forza nuova.
Repubblica 12.11.18
Il reportage
I protagonisti
Ma c’è chi resiste la sindaca e il giudice piccoli eroi civili
La Polonia che si mobilita contro la deriva anti-democratica del governo Kaczynski
di Pietro Del Re
VARSAVIA E se fosse la società civile a sconfiggere il partito nazional-conservatore Diritto e Giustizia (PiS) che col pugno di ferro governa la Polonia dal 2015?
Quello d’opposizione, Piattaforma civica (PO), che dirigeva Tusk prima trasferirsi a Bruxelles per diventare presidente del Consiglio europeo, non s’è ancora ripreso dalla batosta di tre anni fa. Perciò, spaventati dalla deriva anti-democratica e anti-europeista imposta al Paese dal premier Jaroslaw Kaczynski, si stanno finalmente mobilitando giornalisti, attivisti, personalità del mondo della scienza, della cultura, della finanza. E sindaci.
Tra questi il più popolare è il quarantaduenne Robert Biedron, sebbene omosessuale dichiarato e sfrontatamente ateo in un Paese con una forte tradizione cattolica.
Primo cittadino di una lista civica in una località vicina al Baltico, Slupsk, pur avendo il 60% dei consensi Biedron non s’è ripresentato alle municipali del 21 ottobre scorso, lasciando il posto alla sua vice la quale ha sbaragliato gli avversari. Il motivo è che lo scorso settembre Biedron ha annunciato la formazione di un suo partito per concorrere nell’arena nazionale. Con i suoi primi due comizi, a Danzica e Wroclaw, dove aveva affittato sale per 400 persone e dove ne sono accorse più del doppio, ha raccolto uno straordinario successo, mentre alla sua formazione politica, che ancora non esiste e che non ha neanche un nome, viene già attribuito il 9 per cento delle preferenze.
Biedron non intende rinnegare tutte le riforme del PiS, quale per esempio la creazione di un aiuto alle famiglie chiamato "500 +", ossia il versamento di 500 zloti per ogni figlio a carico. Né ha paura di essere etichettato come "populista". «Non è una parolaccia. L’importante è sbarazzarci dei populisti della destra radicale, quella che con una mano ti offre una dignità finanziaria e con l’altra ti toglie le tue libertà», ha recentemente spiegato al quotidiano d’opposizione Gazeta Wyborcza.
La sua storia è edificante, e gli
permette di marcarsi dalle rinnegate élites del Paese: cresciuto in una provincia povera, s’è pagato gli studi lavorando come guardiano notturno, ed è stato più volte pestato per aver avuto il coraggio di dichiararsi omosessuale. Il suo prossimo banco di prova saranno le europee quando presenterà una sua lista per il Parlamento di Bruxelles.
Ora, per i giovani polacchi, stanchi del duopolio PiS-PO ed esasperati dalla eterna decomunistizzazione del Paese e dalle lotte intestine di Solidarnosc, Biedron può rappresentare una valida alternativa.
Intanto, per gli oppositori più ottimisti del regime le recenti municipali hanno segnato l’inizio della fine di chi, come ha scritto pochi giorni fa Lech Walesa su Repubblica, «scredita l’idea di un governo parlamentare, demolisce sistematicamente la Costituzione e smantella la legalità». Al secondo turno delle elezioni che s’è tenuto lo scorso weekend, diverse grandi città del Paese, compresa Varsavia, sono passate all’opposizione. Era dal 1989 che non c’era una tale affluenza alle urne e nelle 107 città che sceglievano il nuovo sindaco, soltanto sei sono rimaste al PiS.
Emblematica è la sconfitta della sorella del premier, Anna Morawiecka, stracciata da un candidato dell’opposizione con il 70% delle preferenze.
Ma il mese scorso una spallata al premier Kaczynski l’ha anche data la Corte di giustizia europea bloccando la controversa riforma della Corte suprema polacca. La riforma prevede l’assunzione di una squadra scelta per far sì che l’applicazione della legge in Polonia sia realizzata secondo la presunta "volontà del popolo".
Oltre un terzo dei giudici avrebbe dovuto usufruire del pensionamento anticipato, inclusa la prima presidente Malgorzata Gersdorf, nonostante la Costituzione polacca garantisca l’inamovibilità dei giudici e stabilisca che il suo mandato duri sei anni. Licenziata lo scorso luglio, la Gersdorf ha sorpreso tutti giurando di voler difendere la Costituzione e di non rinunciare al suo incarico. E così, ogni mattina, questa donna di sessant’anni, bionda e minuta, arriva alla Corte, entra nel suo ufficio e lavora sotto lo sguardo preoccupato degli ombrosi burocrati vicini al potere che però non osano impedirglielo, per paura che la piazza si rivolti com’è capitato al momento della sua tentata epurazione. Il magistrato nominato al suo posto ha rifiutato l’incarico. Malgorzata Gersdorf è la nuova eroina della Polonia. Più di chiunque altro, è lei che oggi incarna la resistenza al regime di Varsavia.
La Stampa 12.11.18
Reportage. Viaggio in Argentina
Nei barrios di Buenos Aires dov’è nato il populismo
“Ora il Paese è nel baratro”
Nella capitale un terzo dei cittadini vive nella miseria, mancano lavoro e opere pubbliche
Il peronismo nato per dare diritti ha portato tirannia e corruzione fino al crollo economico
di Domenico Quirico
In avenida Nove di luglio ho visto sfilare un interminabile corteo i poveri. Non gli operai i contadini i minatori i camionisti gli artigiani travolti dalla mondializzazione i funzionari impoveriti i piccolo borghesi con la paura di perdere il decoro i padroncini gli studenti i laureati senza impiego i commercianti falliti i sindacalizzati gli anti tutto. No. I poveri e basta, i proletari. Come non li vedevo da decenni nei cortei d’Europa. Un corteo che si porta addosso come una divisa la povertà, nei vestiti, perfino nei volti, antropologicamente diversi dai cittadini che scivolano sui marciapiedi per allontanarsi facendo finta di non vederli, come se fossero una fastidiosa raffica di pioggia o un ingombro stradale.
Dilaga, nel mondo, il populismo come nuova vena di Storia. Uno dei luoghi in cui è nato è qui, in Argentina, nel 1946, si chiamava «giustizialismo» ed era invenzione di un presidente-caudillo, Domingo Perón e della sua travolgente moglie e musa, Evita. E poi quel populismo, un po’ da destra e un po’ da sinistra, è rimasto appiccicato alla storia di questo Paese. Quale luogo migliore, dunque, per capire, osservando da un’altra prospettiva, non ossessivamente eurocentrica? Per scoprire che anche qui il populismo ha carattere fluido, transitorio, indefinibile, direi rimessaticcio, destra ma anche sinistra. Eppure, prima di Peron, l’Argentina era un Paese feudale, proprietà di un pugno di famiglie di latifondisti: la dolce vita degli iscritti al «jockey club» (andò a fuoco, un po’ misteriosamente, sotto Perón che l’aveva «nazionalizzato», bruciarono anche la biblioteca e alcuni Goya). Il populismo della «madonna dei descamisados» ha fatto nascere i diritti, l’istruzione gratuita fino all’università, le tutele sindacali, l’assistenza sociale, la sanità pubblica. Un «cambiamento», certo. Ma il peronismo presto ha soffocato i suoi germi vitali nella tirannia predoneccia, nella corruzione senza limiti, nella inefficienza approssimativa che portò al crollo della moneta e al marasma. Che gli eredi, tutti populisti di destra e di sinistra, Menem con i suoi invasamenti liberisti e i Kirchner, hanno perfezionato come una dannazione, con il folleggiare sui precipizi dell’economia creativa, fino ad oggi. Un terzo del Paese rientra nella categoria dei poveri. La sanzione di un fallimento.
«Fuori il fondo monetario»
Sfilano i poveri per quartieri, per barrios di questa città di tre milioni di uomini. Ci sono quelli di Moreno, ben raccolti, decisi e poi quelli di Ponte Perón e Hurligham. E quelli di Berazategui che hanno messo sugli striscioni, insieme, Che Guevara e lei, Evita, fissata nella sua eterna, spezzata giovinezza dei trent’anni. E poi c’è Moreno e Bajo Flores, Pilar, e ancora San Isidro (ma non era soltanto trent’anni fa un quartiere residenziale?). La lebbra delle crisi che spilluzzica le città. Buenos Aires è costruita senza restrizioni di spazio in una terra sconfinata e carnosa, tra il verde e l’acqua, davvero immensa, una sensazione di vastità che è insieme naturale e geometrica. Ma il corteo dei poveri la occupa, la penetra, la consuma palcoscenico, appoggio, raccordo, emergenza, grido.
«I barrios sono in piedi...», grida lo striscione immenso che guida la marcia. Tamburi ossessivi, continui rimbombano nell’architettura salda e visibile della città dei ricchi, dei padroni, le buone famiglie nascoste dietro le finestre. Progresso miseria lusinghe perdizioni. L’hotel Sheraton. Il circolo dell’aviazione. Sembrano vuoti e morti. I cambiavalute che ti braccano ad ogni angolo: «Cambio cambio…». Dove sono stamane? Spariti. Le donne cullano i bambini con infinita dolcezza sedute sui marciapiedi. Qualcuna allatta come fuori dal tempo, un modo furtivo e stupefatto di fare. Passa il venditore di tortillas. Le bandiere, azzurre, le reggono a fatica per il vento, innalzate su altissime canne. «Fuori il fondo monetario», «Fuori il presidente Macri». Tamburi implacabili, densi. «Lavoro vero non precario». «Opere pubbliche nei quartieri». Una voce di donna, straziante, comincia a cantare così forte che sovrasta lo strepito delle auto costrette dal muro umano a piegare nelle vie laterali, spalancate e furiose. Colgo solo lampi di parole: popolo… miseria… lavoro. Entro nella massa, smaniando di scoprire chi canta. La voce rimbalza sull’asfalto, cava la musica dal fondo del corteo, trasfonde nel suono una strana violenza pittorica, come un desiderio disperato di colori e di luce. La cerco invano.
La moneta e il crollo
Il governo argentino ha appena firmato un accordo con il Fondo monetario, un piano di stabilizzazione, un prestito consistente per evitare un nuovo crollo della moneta, che ora si è stabilizzata a uno-quaranta con il dollaro. Già consacrato ai castighi di condizioni dure, risparmi, tagli all’istruzione, alla sanità ai servizi: per decenni. Che daranno vigore alle braci populiste. Copione vecchio.
Un amico architetto, che non è peronista, mi fa domande gravi: «Prima intendiamoci sulla parola, populismo. Qui è un insulto, populista. Ma poi se guardi con attenzione ha significato avvento dei diritti, di uno stato sociale. Per questo, una parte di questo Paese lo odia visceralmente. La rovina dell’Argentina? Chiedete a Menem che ha svenduto le ricchezze del Paese agli stranieri. Il problema è che la gente qui pensa in dollari non in pesos: è ossessionata, accumulare dollari per sopravvivere a ogni evenienza crollo, crisi…».
Reintegrare le classi sociali
Il populismo come sistema di transizione che tenta di integrare (o di reintegrare) le classi popolari nell’ordine politico e sociale con un’azione volontaria dello Stato. Contraddizione originaria dunque: mobilitare le classi pericolose ma mantenere il modello di dominio. Di qui l’aspetto di psicodramma chiassoso e a volte incomprensibilmente caotico, la violenza verbale che ha un ruolo chiave, la condanna a morte «simbolica» dei poteri forti, il caos in nome dell’ordine. Una lezione che forse vale anche da questa parte dell’Atlantico.
Il Medioevo del comizio
Torno ad Evita, ai suoi virtuosismi populisti primitivi rispetto ad oggi, i portali Internet le piattaforme (eravamo ancora al Medioevo del comizio, del balcone della Casa Rosada), ma efficacissimi. Evito il museo al quartiere Palermo, raggiungo «Regoleta», il cimitero monumentale privato dei ricchi e dei grandi che tengono in pugno il Paese. Strano cimitero, più museo che luogo di sepoltura: un sassofonista suona all’ingresso, gruppi guidati, confusione, strepito. Una tomba di marmo nero: famiglia Duarte, fiori finti appesi alla grata, targhe in bronzo del «popolo riconoscente»: «sempre». Una comitiva di studenti distratti ascolta il racconto del professore. Memoria e dimenticanza. Contraddizioni, ancora.
Ancora un luogo, che non si può evitare: le città miseria, le bidonville immonde e con le antenne della televisione che cominciarono a riempirsi al tempo di Perón e dei suoi tentativi di promuovere l’industrializzazione e i concentramenti operai. Hanno numeri, non nomi. Scelgo la numero 31 una delle più vicine che quasi si scioglie nella città degli «altri». La riva del Plata che immenso fluisce con i suoi cinquanta chilometri di broda sudicia diluviale. Le tre grandi stazioni ferroviarie di vago stile staliniano e il terminal dei bus. Ecco la villa miseria. Entro: bassi strettissimi senza luce in cui non circolerebbe un’auto, sulla testa pendono intrichi di cavi come serpi, gli attacchi abusivi all’energia elettrica, il bar «Mara Carla» impregnato di uomini immobili dagli occhi duri, antri che vendono tutto sui marciapiedi, cibo, vestiti usati, immondizia e «paco» la droga che ti spacca il cervello come un colpo di fulmine, e branchi di cani che si azzannano, e dalle finestre dei tuguri donne lanciano nella strada indifferenti secchi di acqua sporca. La città si sgonfia in questa crema lercia, unta del suo cadavere.
Il tassista che si è rifiutato di portarmi dentro il quartiere mi ha atteso in auto, chiacchierando con poliziotti annoiati che vigilano sull’entrata del «barrio». Ora che ci allontaniamo respira e infuria: «Questi sono tutti clandestini, arrivano dal Perù dal Paraguay dalla Bolivia, ladri, pezzi di merda, spacciatori… non pagano niente! La luce l’acqua rubano tutto; e il governo dà loro 5000 pesos al mese per ogni figlio. Con i soldi delle mie tasse! Sono merda non uomini… li ammazzerei tutti!».
Repubblica 12.11.18
Alexander von Humboldt, il genio che inventò l’arte del viaggio
Narratore brillante, inaugurò un genere letterario legato al partire: anche
Bruce Chatwin gli deve tanto
di Marco Belpoliti
Fu esploratore, geografo, botanico, celebrità nei salotti di primo Ottocento, amico di Goethe e ispiratore di Darwin. Ma soprattutto fu un grande scrittore. Come dimostra il suo capolavoro, che ora finalmente torna in libreria
Per i suoi contemporanei era l’uomo più famoso al mondo dopo Napoleone. Nel centenario della sua nascita nel 1869, dieci anni dopo la morte, fu festeggiato in tutto il mondo: Europa, Africa, Australia. In molte città la gente si radunò per ascoltare discorsi su di lui pronunciati dai dotti. A Mosca si svolsero feste in suo onore. Le commemorazioni più importanti si tennero in America: San Francisco, Philadelphia, Chicago.
Oggi Alexander von Humboldt è quasi dimenticato. Gli studenti di scienze, biologia e geologia, salvo rare eccezioni, non conoscono che il suo nome, ben pochi hanno letto i suoi scritti, un monumentale lavoro che consta di decine e decine di opere in molteplici volumi. Eppure il secondogenito del maggior barone Alexander Georg von Humboldt, ufficiale e cortigiano di Federico II di Prussia, e di una ricca borghese ugonotta, Marie Colomba, fratello di un importante linguista, Wilhelm, ambasciatore a Roma e poi ministro, ha dato il suo nome a parchi, contee, fiumi, laghi, ghiacciai, baie, promontori, correnti marine, catene montuose, oltre che a trecento piante e cento animali, e persino a un mare lunare.
Nessuno studioso ha fatto più di lui nell’esplorazione del Pianeta che abitiamo intuendo per primo che la Terra è un unico grande organismo vivente e interconnesso, anticipando le scienze del XX secolo, dall’ambientalismo all’ecologia, che senza Humboldt non ci sarebbero.
Genio multiforme, fu non solo uno straordinario scrittore, come dimostrano i suoi tanti volumi, ma anche un affascinante conversatore.
Ottilia ne Le affinità elettive scrive nel suo diario: «Come mi piacerebbe sentir raccontare Humboldt, anche una sola volta!». Di Goethe il giovane geologo e naturalista fu amico, e il poeta asseriva che parlare con lui nel corso di una passeggiata equivaleva a studiare libri per una settimana. Non c’è solo Goethe. Darwin nel corso del viaggio intorno al mondo sulla Beagle teneva nella mensola vicino alla sua amaca i sette volumi della Personal Narrative of Travels di Humboldt, e poco prima di morire riprese in mano un suo volume e l’annotò.
Quello che colpì i suoi contemporanei fu prima di tutto la sua capacità di attraversare i mari e i fiumi, di approdare in terre semisconosciute portando in Europa erbari e fogli di viaggio, mappe, rilievi, misure di fiumi, montagne, pianure, e descrivendo popolazioni. In Cent’anni di solitudine
Aureliano Buendía afferra nell’incomprensibile delirio di Melquíades il nome di Humboldt, insieme alla parola equinozio pronunciata innumerevoli volte.
Il nobile prussiano, che pur coltivando ideali illuministi, per gran parte della sua vita mangiò al tavolo del suo sovrano e abitò nel suo palazzo, è anche il protagonista di un bel libro di Daniel Kehlmann, La misura del mondo (Feltrinelli). E adesso arriva finalmente una nuova, sontuosa ristampa, per Codice, di uno dei suoi libri più noti, Quadri della natura, che s’avvale della introduzione di Franco Farinelli, Telmo Pievani e Elena Canadelli.
Alexander von Humboldt è un magnifico scrittore. Dal 1799 al 1804, usando le risorse lasciate in eredità dalla madre, attraversa il bacino dell’Orinoco, tra Venezuela e Colombia, va a Cuba, entra negli Stati Uniti, e al ritorno redige un’opera composta di trenta volumi e due atlanti, uno geografico e l’altro pittoresco; era il più esteso resoconto di viaggio mai scritto sino ad allora, di cui la prima edizione di Quadri della natura, pubblicata nel 1808, ne è il compendio. Rimaneggiato e ampliato in due successive edizioni, il libro diventò un bestseller dell’epoca, tradotto in undici diverse lingue. Si può dire, come asserisce Andrea Wulf nel suo L’invenzione della natura (Luiss University Press), che Humboldt inaugura un genere nuovo: il libro di viaggio, in cui confluiscono le descrizioni dei luoghi, delle piante, dei minerali, delle popolazioni. Scrittore immaginifico, il nobile prussiano riesce ad appassionare i propri lettori facendogli compiere viaggi da fermi grazie a una prosa letteraria lirica e sublime insieme, così che si può ben asserire che è il padre di tutti i viaggiatori successivi, compreso il supersnob Bruce Chatwin. Wulf sostiene che Quadri mostra come la natura possa avere un’influenza sull’immaginazione delle persone, oltre che a entrare in contatto in modo misterioso con i nostri sentimenti intimi.
Tutto questo è sicuramente parte del Romanticismo. Ma se i poeti già pensavano e scrivevano con questo stato d’animo, questo, gli scienziati ancora no.
Humboldt è stato anche un comparativista straordinario esercitando il pensiero della visione, paragonando paesaggi lontani e diversi, ipotizzando movimenti geologici cui Darwin, geologo lui stesso, darà poi forma in una teoria.
L’arte della descrizione è quella in cui questo scapolo, dedito alle amicizie prettamente maschili, eccelle.
La sua è stata una splendida arte della fuga, com’è per ogni vero viaggiatore.
Viaggiava e scriveva per cercare una realtà che lo coinvolgesse ed emozionasse, che suscitasse pensieri che superassero l’angusta epoca in cui gli era toccato vivere dopo la colossale spallata rivoluzionaria e il nefasto ritorno all’antico regime.
Ritornato a Berlino dopo i suoi viaggi, viveva a corte, seduto al desco del despota prussiano.
Gli ultimi anni furono davvero avvilenti per lui. Inascoltato e deriso, s’era trasformato nella maschera di sé stesso. Lui che aveva scalato il Vesuvio in compagnia del giovane Simón Bolívar, futuro liberatore dell’America del Sud, che aveva conversato con Thomas Jefferson e Goethe, finì i suoi anni ben poco considerato e in stato d’indigenza. Eppure tra gli uomini eccellenti nati su questo Pianeta, da lui misurato con paziente furore, resta ancora oggi uno dei più straordinari.
Repubblica 12.11.18
"Olga", il nuovo romanzo di Bernhard Schlink
Col sangue, col ferro e con l’amore indagine sulle radici del Male
di Susanna Nirenstein
Per Bernhard Schlink, nato nel 1939 in Germania, affrontare la storia nazionale tedesca, così pregna di sangue innocente, è un compito naturale, obbligatorio. Venti anni fa il suo Il lettore, reso famoso anche dal film The Reader, decretò il suo successo: quel misto di erotismo, orrore e pena che avvolgeva la sua protagonista, una kapò analfabeta e omicida che doveva rappresentare la pochezza inconsapevole del popolo tedesco all’epoca del nazismo, insieme allo stile algido in cui il romanzo era scritto, fece breccia nei 40 paesi in cui il libro fu tradotto. La scelta di Schlink, la sua necessità di trattare severamente ma senza astio il passato, non fu comunque risparmiata dalle critiche. Jeremy Adler dalle colonne della Suddeutsche Zeitung lo accusò di «pornografia culturale» e disse che il romanzo semplificava la storia e spingeva i lettori a identificarsi con i carnefici.
Cynthia Ozick su Commentary lo definì «il prodotto, consapevole o meno, del desiderio di distogliere l’attenzione dalla colpa di una popolazione normalmente educata in una nazione famosa per la sua Kultur ».
Questa volta, con Olga, il suo nuovo romanzo, è diverso: Schlink, pur cercando sempre tra le radici del Male tedesco, e seguendo sempre la sua ricetta narrativa fatta di amore e Storia, traccia un percorso quasi didattico per spiegare lo svolgersi degli avvenimenti, individuando in Bismarck, il cancelliere di ferro prussiano artefice della nascita dell’impero tedesco e del suo espansionismo «col sangue e col ferro», l’inizio di tutti i mali.
Anche se è Olga, un’orfana tirata su da una nonna severa all’inizio del XX secolo in un villaggio della Slesia, la protagonista incontrastata, è il suo amore per l’aristocratico Herbert, il cuore di un racconto, che fino a metà del libro si dimostra asciutto e vorticoso. L’amore tra i due è chiaramente contrastato dalla famiglia di lui, ma è proprio la personalità di quest’ultimo, amante di una natura selvaggia e senza limiti, affamato di spazi sconfinati, di risposte sull’esistenza di Dio, a dare impulso agli avvenimenti. Herbert infatti è troppo inquieto per dedicarsi banalmente agli studi: cerca risposte in Nietzsche, inizia ad assorbire i flussi di parole che sente intorno a sé, parla di razze pure, di superuomini, di rendere grande la Germania. Arde. E Olga, anche se trova vuoti quei paroloni, si innamora sempre più di quello sguardo azzurro e limpido, eccitato. Olga diventa un’insegnante devota al suo lavoro, indipendente e orgogliosa, anche quando si ritrova trasferita in un paesino, a Tilsit, dove Herbert la viene spesso a trovare.
Si amano. Ogni matrimonio però è proibito. Herbert entra nell’esercito. Non solo, si offre volontario per le truppe coloniali destinate all’Africa tedesca: lo aspettano il popolo degli Herero e quello che viene giudicato il primo genocidio del Novecento. Olga non lo capisce, è contraria a quella conquista, ma lo ama, gli perdona tutto, crede che quella fame vanagloriosa di spazi si possa placare. Non sarà così, i deserti, i leopardi, la vittoria lo esaltano. Al suo ritorno, si inventerà nuove avventure che lo portino nella «vastità infinita»: l’Argentina prima di tutto e poi il Brasile, e ancora la Siberia. Inizia a raccontare i suoi viaggi in alcune conferenze. È sempre più rapito dalla sua idea di grandezza, per se stesso e per la patria. Olga, anche se desidera che lui la smetta con le sue farneticazioni di gloria, gli insegna l’arte oratoria per riuscire a fargli avere i finanziamenti che cerca: trattandolo come un bambino, compiacendolo, non sa che futuro disastroso sta costruendo, per sé e per lui.
La Prima guerra mondiale è alle porte. Anche Eik, il ragazzino di cui Olga si prende particolarmente cura a Tilsit e a cui racconta con stupore reverenziale le imprese di Herbert ma anche l’amore per la giustizia e la Repubblica, inizia a fantasticare di spazio vitale tedesco. Pochi passi ancora e entra nelle Ss. Olga si sente tradita due volte. Ha una vita difficile davanti a sé. Lenta e solitaria. Cosparsa di guerre crudeli. Lascerà molte lettere dietro di sé che sveleranno tanti segreti, anche su chi, un giorno, ha fatto saltare la statua di Bismarck nel mezzo di una piazza. E Schlink, questa volta senza assolvere nessuno, chiude il cerchio.
La Stampa 12.11.18
Maya e Aztechi, il gioco fatale
Quando con la palla ci si giocava la vita
di Fabio Sindici
le immagini:
1. Bottiglia zoomorfa, cultura Nasca, 350 a.C.-550 d.C. 2. Donne morte di parto, cultura Azteca 1428-1521. 3. Figurina di giocatore di ulama (gioco della palla), cultura Teotihuacan, 100 a.C.- 650 d.C. 4. Figura di divinità, cultura Veracruz, 100-900 d.C. 5. Due divinità impegnate nel gioco della palla, cultura Azteca, 1428-1521
Per ogni tifoso, il campo di calcio, durante i 90 minuti della partita, diventa il centro del mondo. Per gli antichi Maya, il gioco della palla era molto di più: un modo per mantenere l’equilibrio nel cosmo. Le squadre si affrontavano su un lungo corridoio, delimitato da muri decorati e dipinti. I giocatori si rilanciavano una sfera di gomma, con un peso che variava da uno a quattro chili, colpendola con le anche e le ginocchia. In scena, oltre alla competizione sportiva, andava il mito: quello degli eroi gemelli che avevano sfidato al gioco i signori di Xibalba, il mondo sotterraneo, e li avevano battuti. Le partite erano spesso accompagnate da sacrifici umani. E la vita degli stessi giocatori era in palio: il capitano della squadra poteva perdere letteralmente la testa.
Nella selva di oggetti della mostra «Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’Antica America», al Mic (Museo Internazionale della Ceramica) di Faenza fino al 28 aprile, c’è un giogo di pietra scolpito che veniva indossato sui fianchi, nei rituali che precedevano le partite. Sul campo, i pesanti gioghi erano sostituiti da cinture di legno e pelle, che servivano da protezione e, allo stesso tempo, per potenziare i colpi al rimbalzo. Il gioco della palla doveva assomigliare a una danza pelvica, a un flipper sacro e letale.
«Il gioco della palla era diffuso in tutta la Mesoamerica e ha prodotto arte, architettura e paraphernalia straordinari», spiega Antonio Aimi, tra i massimi esperti di culture precolombiane e curatore della mostra con Antonio Guarnotta. «Si può citare lo sferisterio monumentale di Chichen Itza, lungo 168 metri e largo 68. O gli affreschi di Tepantitla, nella metropoli di Teotihuacan sull’altopiano centrale del Messico, dove per colpire la palla si usavano i piedi o una mazza. Si conoscono molte varianti, nel corso dei secoli e da cultura a cultura. Pur legato a rituali, scatenava passioni profane, quali tifo e scommesse, a cui partecipavano popolo e nobili. Si tratta del più antico gioco di squadra del mondo: è stato scoperto un campo che risale al 1400 a.C.; l’ulama, la versione moderna, si pratica ancora oggi».
Nelle culture dell’America centrale, rappresentava una sorta di koiné cultural-sportiva. Per gli Aztechi, la sfera di gomma simboleggiava il sole e le partite propiziavano la pioggia. Una terracotta proveniente dalle culture del golfo del Messico, in mostra a Faenza, raffigura un giocatore in apparente riposo, prima della sfida, con le mani appoggiate sul giogo-cintura. Come se attendesse il fischio di un arbitro.
L’esposizione faentina è pensata per proiettare i visitatori tra i popoli delle Americhe prima di Colombo, anche senza l’attivazione di realtà virtuale. Basta versare dell’acqua nelle bottiglie fischianti di terracotta delle culture andine Huari e Lambayeque per ascoltare i suoni del passato. Per gli antichi peruviani la musica era essenziale. Tra i reperti della civiltà del Norte Chico, che costruì città e piramidi di pietra a partire dal 3500 a.C. ma non conosceva la ceramica, sono stati ritrovati flauti e corni di osso. Nelle culture successive la produzione di terracotta esplose invece in un fuoco d’artificio di stili. Dai recipienti modellati in figure antropomorfe dei Moche, che possono richiamare la produzione delle prime civiltà del Mediterraneo e del Medio Oriente, ai vasi stilizzati dei Nazca che sembrano anticipare le ceramiche di Picasso. Due culture geograficamente vicine - entrambe nell’area andina - e contemporanee (tra il 100 e l’800 d.C.).
L’esposizione del Mic, divisa in sezioni tematiche, porta l’occhio su accostamenti e differenze. A volte però l’occhio può essere ingannato dall’immersione in civiltà lontane. «Le rappresentazioni di scene sessuali esplicite sulle ceramiche, per esempio. Possono far pensare a costumi rilassati. Sbagliato. Quelle trovate nel corredo funerario di un bambino in una tomba peruviana non avrebbero senso. Fanno sicuramente parte di un ciclo mitico», ragiona Aimi.
Tutte le popolazioni precolombiane vivevano esistenze in cui simboli e rituali accompagnavano l’agire quotidiano. E tutte le civiltà praticavano sacrifici umani, inclusi quelli di bambini. Ma anche le differenze sono molte. Come la mancanza di sistemi di scrittura nell’area delle Ande, presenti invece nella Mesoamerica. O i misteriosi quipu peruviani, cordicelle intrecciate, i cosiddetti «nodi parlanti», che servivano per fare calcoli e forse come sostitutivo della scrittura. Alcuni sono stati ritrovati a Caral, un sito della cultura Norte Chico che prosperò più di quattromila anni fa. Fenomenali le yupane, sorta di abachi che permettono una velocità di calcolo superata solo dai computer.
«I popoli precolombiani sono famosi come astronomi, ma la loro vera grandezza era nella matematica: i Maya riuscirono a far coincidere il Conto Lungo, calendario che va dal 6 settembre 3114 a.C. del calendario giuliano al 21 dicembre 2012, con eventi astronomici rilevanti ai quali ovviamente non avevano potuto assistere», spiega Aimi. Ci sono stati contatti tra i due poli delle culture precolombiane, l’America centrale e il Perù? «Certo, e sono stati importanti. La scienza della metallurgia arriva in Mesoamerica nel 900 d.C., portata dai fabbri che venivano dalle città andine. Dove avevano imparato a lavorare i metalli con grande abilità almeno due millenni prima».
Secondo una teoria, uomini e tecniche viaggiarono per mare, su zattere partite dalla costa dell’Ecuador. Secoli dopo, sempre dal mare arrivarono gli europei, che dall’oro dei nativi furono abbagliati e distrussero le civiltà americane nel loro momento di massimo splendore.
La Stampa 12.11.18
Mary de Rachewiltz
“Mio padre Ezra Pound
in paradiso con Mozart e Ovidio”
di Andrea Colombo
È un Ezra Pound intimo, familiare, per molti aspetti inedito quello che emerge dalle conversazioni di Alessandro Rivali con la figlia del poeta americano, Mary de Rachewiltz. S’intitola Ho cercato di scrivere paradiso (Mondadori, pp. 266, € 19) ed è un dialogo serrato che non rinuncia ad argomenti spinosi, come le simpatie politiche dell’autore dei Cantos. È un’intervista fiume con quella che è considerata con una certa venerazione il principale punto di riferimento del cultori di Pound, la sempre vivace e attenta Mary, che dall’alto dei suoi 93 anni ben portati non ha alcuna intenzione di andare in pensione: «Vivo con i Cantos», ammette. Ma ci tiene a sottolineare che non vuole avere nulla a che fare con CasaPound: «Penso abbiano frainteso il messaggio di mio padre. Non voglio che il suo nome sia messo in mezzo alla politica italiana. Con me sono stati sgarbati perché hanno avuto la faccia tosta di dire che non sono figlia di Pound».
Rivali, lui stesso un poeta, è rimasto folgorato sulla via di Brunnenburg, il castello tirolese dove vive la de Rachewiltz circondata da cimeli, manoscritti, memorabilia, libri introvabili, disegni di artisti modernissimi e reperti etnografici antichi, ideogrammi giganti e manifesti con strani slogan confuciani, Wunderkammer magica del fantastico mondo poundiano.
Queste pagine dense di ricordi, nostalgie e aneddoti tracciano il ritratto di un uomo geniale, ma attraversato da mille contraddizioni. Pound si definiva un patriota americano, ma fu accusato di tradimento e rinchiuso per 13 anni in un manicomio criminale statunitense per aver trasmesso da Radio Roma in tempo di guerra. Bizzarro fan di Mussolini, paragonava il Duce a Jefferson e non rinunciava al suo pacifismo.
La de Rachewiltz è figlia della violinista americana Olga Rudge, e non nasconde i rapporti difficili con la moglie ufficiale di Ezra, la pittrice inglese Dorothy Shakespeare. Accenna anche, con delicatezza, alle due giovani fiamme che accompagnarono Pound nei duri anni della prigionia: la pittrice Sheri Martinelli e la bella segretaria texana Marcella Spann. Mary da bambina venne affidata e cresciuta quasi di nascosto da poverissimi contadini tirolesi, poi educata in un rigido collegio fiorentino, prima di affrontare gli orrori della guerra come crocerossina in un ospedale militare tedesco. La sua principale impresa fu quella di tradurre, con l’aiuto del padre, i poderosi Cantos, «poema epico» scritto sulle orme di Dante, ricco di citazioni, immagini esotiche, richiami storici, teorie economiche, note musicali, barlumi di saggezza confuciana. Un compito immane culminato nell’edizione dei Meridiani del 1985.
La figlia del poeta ricorda che il Pound economista, spesso ridicolizzato dagli addetti ai lavori, aveva alcune intuizioni di grande attualità. «Dovrebbe lo Stato creare ricchezza indebitandosi?» troviamo nel Canto 49, e a rileggerlo oggi sembra un monito indirizzato ai nostri politici. Inoltre, con l’uso poetico degli ideogrammi «aveva capito che si andava verso una civiltà dell’immagine piuttosto che della parola», anticipando in qualche modo l’era degli emoji. Persino l’ecologia non gli era estranea: in fondo la sua idea di autarchia era molto simile a quella delle comuni hippy. «Per lui il mondo ideale era quello agricolo», spiega Mary. «A suo parere ogni uomo doveva anche essere contadino, doveva saper fare», sporcarsi le mani con la terra e con lavori manuali.
Pound gettava all’inferno gli speculatori: «L’usuraio e il nomade», scriveva nel 1958, «attaccano sempre l’agricoltura. Il nomade vaga, ruba. L’usuraio impone una tassa». «Nel suo paradiso», dice la de Rachewitz, «mise Mozart, Agassiz, lo scienziato che studiava i pesci, e Ovidio. Non mise nessun contemporaneo. Non ha incontrato santi sulla via».
E nella vita di tutti i giorni? Scopriamo un Pound buongustaio e cuoco: «Amava molto i dolci, e in particolare la cioccolata. Aveva un occhio speciale per la frutta. Era bravissimo a preparare le omelette, che farciva con prosciutto e formaggio». Tennista instancabile, usava la racchetta senza stile, come un’arma pronta a colpire. Burlone, a volte si lanciava in imitazioni spassosissime dei suoi amici prediletti, come l’«Opossum» T.S. Eliot con le sue orecchione a sventola.
Tornato in Italia dopo la lunga prigionia, negli Anni 60 inaugurò il tempus tacendi: «Non lavoro più… non faccio nulla», disse a un giornalista nel 1963, «sono diventato illetterato e analfabeta. Io semplicemente cado in letargo». Corteggiato dall’intellighenzia che conta, invitato al festival di Spoleto, osannato da Pasolini e Allen Ginsberg, rispondeva a monosillabi.
Alla fine, forse, ciò che resterà è il suo grandioso tentativo poetico di «costruire un paradiso». «Terrestre», ricorda la de Rachewiltz, «perché diceva che era inutile pensare all’Aldilà dal momento che nessuno ne sa niente. Voleva che la gente stesse bene su questo pianeta, perché è bellissimo. Se solo gli uomini fossero meno ingordi, gelosi, avari, la terra sarebbe un paradiso terrestre».
La Stampa 12.11.18
Donatella Di Cesare
Quel che resta della vocazione politica della filosofia
di Federico Vercellone
Da sempre il pensiero filosofico ha una vocazione alla politica che sembrerebbe venir meno oggi, nell’età che non coltiva più né progetti né futuro. Viviamo, come ci ricorda Donatella Di Cesare in Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri), in un mondo in cui non c’è più un fuori, in cui la membrana che divide il soggetto dal mondo è venuta meno. Esistiamo in uno spazio universalmente condiviso in cui è scomparso il segreto dell’Io. E manca un punto su cui fare leva per fondare la responsabilità nostra e quella del pensiero. Da tempo la filosofia non è più la regina delle scienze. Ora deve rinunciare anche al suo ultimo compito, quello di teoria critica della società. Ma davvero il pensiero speculativo può sottrarsi senza danno al confronto con la polis?
Donatella Di Cesare fa lucidamente i conti con la questione, e con l’idea di una vocazione egemonica sempre presente, da Eraclito a Heidegger, della filosofia sulla polis. Il cuore del discorso è anche il suo anello più dolente, quello rappresentato da Heidegger: l’ultimo filosofo-re, il post-platonico che vorrebbe dominare la polis dall’alto esercitando su essa una legislazione filosofica. È così il paesaggio devastante e devastato del totalitarismo a profilarsi. Bisogna passare attraverso Heidegger, il filosofo più consapevole della dispersione del soggetto nel mondo e dei suoi rischi, per trovarsi nella post-storia e di qui nella terra dove non c’è fuori. Egli intravede il rischio della massificazione nel mondo contemporaneo, e vi reagisce con un pensiero criminale, assumendosi una tragica responsabilità.
Nel nostro tempo le cose cambiano: la filosofia diviene una disciplina quanto mai civile e addomesticata. Non è più regina delle scienze, e nemmeno teoria critica della società. Diviene, molto dignitosamente, la paladina acritica della democrazia liberale, e si sottopone volentieri alla sua logica della contrattazione. Tuttavia la paideia della nuova democrazia non basta. Il pensiero non può divenire un semplice terreno di scambio memore come è della sua universalità. Da Eraclito a Platone a Heidegger la filosofia è abituata a farsi signora di ogni ordinamento e dunque anche di quello politico. Con Heidegger sopraggiunge un ordine tragico che si sovrappone ai conflitti, che vuole dominarli costringendoli sotto il gioco di un nomos che si fa tiranno dell’essere, che si impone forzosamente su di un mondo selvaggio, bisogna tuttavia, secondo Di Cesare, fare un passo oltre non solo il totalitarismo ma anche la dignitosa difesa d’ufficio della democrazia, per andare in direzione di una sorta di tutela quasi creaturale, anarchica, di un essere che non vuole scambiare la sua vita con il nomos, con il volto imperturbabile della legge.
Corriere La Lettura 11.11.18
La storia globale nacque in Messico
Con la conquista del Nuovo Mondo spagnoli e portoghesi imposero la visionde europea del tempo colonizzando la memoria indigena
Ma in seguito anche giapponesi e cinesi, rimasti indipendenti, adottarono quei criteri come parte essenziale della modernizzazione
Oggi bisogna puntare sulla lunga durata, incrociando sguardi locali e mondiali, per non rimanere appiattiti sul presente
di Michela Valente
Non è solo la globalizzazione a mettere in crisi la conoscenza della storia; molti problemi scaturiscono dalla tirannia dell’istante e dalla labilità delle memorie, ammonisce Serge Gruzinski, docente all’École des Hautes Études di Parigi. Da quarant’anni questo autore si muove tra fonti diverse per ricostruire eventi reali e operazioni culturali studiate a tavolino per colonizzare la memoria e l’immaginario. Nel libro La macchina del tempo, molto ben tradotto da Maria Ma-tilde Benzoni (Raffaello Cortina), sottolinea la centralità del XVI secolo nell’avvio del processo di globalizzazione e l’importanza strategica della scrittura della storia da parte di spagnoli e portoghesi, a cui si aggiunge il tentativo dei colonizzati di lasciare un testimone: il meticcio Juan Bautista Pomar, oscillante tra due mondi, che scrive una relazione sulla civiltà precolombiana di Texcoco, in Messico.
Professor Gruzinski, nei suoi libri è sempre molto forte il confronto tra mito e storia, tra immagini riflesse e realtà, con la consapevolezza di tendere verso un risultato impossibile da raggiungere soprattutto per la volontaria o casuale manipolazione delle fonti. Da anni torna a interrogarsi sulla conquista del Nuovo Mondo attraverso la polifonia delle fonti, come efficacemente la definisce. Perché questo evento è così importante per la maturazione della coscienza storica europea moderna?
«La conquista del Nuovo Mondo è l’espressione di un cambiamento globale che inizia nel XVI secolo. Rivedendo, alla luce delle nuove ricerche, l’insegnamento del passato, si dovrebbero mettere in evidenza l’origine cinquecentesca del processo di mondializzazione e la sua matrice europea e in particolar modo iberica. Dalla conquista comincia la colonizzazione, qui si firma l’atto di nascita dell’occidentalizzazione. Per la prima volta nella storia del mondo, l’Europa, l’America, l’Africa e l’Asia entrano in contatto. Con la circumnavigazione del globo di Ferdinando Magellano, per la prima volta, la moneta europea fa il giro del mondo. Con la conquista del Messico e del Perù, l’Europa degli iberici si avvicina al continente americano. Attraverso il Pacifico, le Indie della Castiglia entrano in contatto con la Cina. Ma volendo far parlare le fonti, è necessario sapere quali domande porre ed è il mondo che ci circonda a suggerircele».
Come si presenta quello stesso processo dal punto di vista dei nativi americani? È giustificata, secondo lei, la polemica contro i monumenti a Cristoforo Colombo considerato da alcuni l’iniziatore di un genocidio?
«Le reazioni delle società amerindiane sono estremamente diverse, e dipendono dal loro grado di organizzazione e soprattutto dall’origine sociale: le élite autoctone che scelsero la via dell’occidentalizzazione e della collaborazione hanno un destino molto diverso da quello delle masse decimate dalle malattie. La polemica qui evocata è l’esempio dei falsi dibattiti ai quali la grande stampa talvolta contribuisce: parlare di genocidio è voler fraintendere il significato del termine e collegare il termine di genocidio a una figura storica come Cristoforo Colombo è parimenti aberrante. Significa voler dimenticare (o ignorare) che furono le epidemie introdotte in America dal contatto con gli europei a decimare le popolazioni indigene».
Come influirono la cultura religiosa cristiana e gli interessi delle monarchie spagnola e portoghese nella costruzione di un’immagine del Nuovo Mondo, con una vera e propria operazione di colonizzazione della memoria e della storia?
«Una dimensione cruciale della conquista è stata la colonizzazione dell’immaginario, ossia l’imposizione di nuovi modi di credere e di pensare. Questi includono la nostra idea cristiana di un tempo orientato e la nostra scansione del flusso temporale in passato, presente e futuro. Quando gli spagnoli si sono messi a scrivere la storia degli indiani delle Americhe, dunque a costruire il loro passato in funzione delle preoccupazioni e delle norme/categorie europee, hanno reso più profonda l’impresa della colonizzazione. Hanno immerso le memorie indigene in una forma che le lettere europee chiamano storia e che è il prodotto di una concezione del mondo inventata dai Greci, arricchita nel Medioevo e rilanciata dall’Italia del Rinascimento. Ma queste memorie indigene non sono rimaste passive, come ho dimostrato nel mio ultimo libro».
Nei suoi studi lei ha preso in considerazione anche la Cina, creando un parallelo tra la sconfitta dell’aquila azteca e la resistenza del dragone cinese, eventi contemporanei del XVI secolo. Che cosa hanno in comune e che cosa differenzia i due eventi?
«I due eventi sono legati. Gli iberici alla fine del XV secolo e all’inizio del XVI sono rimasti obnubilati dalle ricchezze dell’Estremo Oriente. I portoghesi vi sono arrivati oltrepassando l’Africa. Gli spagnoli, che cercavano la via per l’Ovest, si sono scontrati con il muro continuo del continente americano e con l’immensità del Pacifico. La circumnavigazione di Magellano è scaturita da una spedizione spagnola pensata per arrivare alle Molucche e ai confini della Cina. La conquista del Messico da parte di Hernán Cortés e il tentativo portoghese di invadere la Cina sono dunque non soltanto eventi coevi/contemporanei, ma rivelano le dinamiche di una mondializzazione iberica che abbraccia il globo per impadronirsi delle ricchezze dell’Estremo Oriente. I cinesi e gli aztechi reagiscono in modo diametralmente opposto. La Cina esclude i portoghesi, gli aztechi finiscono per essere sconfitti. Così l’America india diventerà l’America Latina e la Cina eviterà la colonizzazione europea fino al XIX secolo».
Lei nota che anche la Cina e il Giappone hanno costruito le proprie storie nazionali adottando le prospettive dell’Occidente. Perché è avvenuto questo?
«Nel XVI secolo la colonizzazione spagnola ha imposto l’idea del tempo storico e ha cercato di dotare le altre aree del mondo di passati intellegibili per gli europei. Tutte le colonizzazioni che sono seguite — olandese, britannica, francese — hanno fatto lo stesso, rafforzando e pianificando l’occidentalizzazione del mondo. I Paesi colonizzati hanno dovuto gli uni dopo gli altri adottare la maniera europea di scrivere la storia, in particolare la storia nazionale, tanto che quelli che si sono difesi dall’Occidente del tutto (il Giappone) o in parte (la Cina) hanno adottato loro stessi questa pratica, perché questa nuova forma di storia sembrò loro uno strumento imprescindibile della modernità, così come lo furono l’industrializzazione o il telegrafo».
Che cosa pensa della cosiddetta Global History? Come si possono conciliare l’esigenza di superare la dimensione eurocentrica con quella di evitare i rischi di una conoscenza parcellizzata?
«La storia globale impone allo storico di ricorrere alla lunga durata, ossia di risalire indietro tanto quanto lo richiedono le questioni che tratta. Purtroppo oggi prevale l’assenza di spessore storico come effetto del presentismo che contamina il mondo occidentale. Scrivere la storia a partire dalla caduta del Muro di Berlino e, nella migliore delle ipotesi, a partire dal XIX secolo, significa concentrarsi sull’epoca degli Stati nazionali e dei patriottismi, una scelta che ostacola il nostro modo di concepire la storia. Come si può riflettere sulla storia europea senza tener conto del mondo antico, senza prendere in considerazione le conseguenze della mondializzazione iberica, la nascita dei colonialismi o le origini dell’eurocentrismo? Tuttavia, non basta ricorrere alla lunga durata. Il XXI secolo ci costringe di continuo a confrontarci con i rapporti tra locale e globale. Locale e globale sono divenuti due modi dominanti di rappresentare il reale. La nostra percezione del mondo dipende da questi modi di rappresentazione».
Ma come evitare l’eurocentrismo?
«La costruzione delle memorie europee non può fare a meno della costituzione di forti memorie locali. Queste memorie sono per forza singolari, irriducibili a degli schemi nazionali. Sono quelle che parlano attraverso i monumenti, le vestigia del passato e i musei. Ma queste memorie locali devono essere un punto di partenza in modo da poter ripensare i legami con la storia nazionale e poi con altri fili giungere alla storia europea e a quella del resto del mondo, come cerchi concentrici».
In un quadro politico di generale disinteresse per la storia, salvo che per le fiction di vario tipo, sembra che l’unica iniziativa che governi e parlamenti siano in grado di avanzare riguardi le leggi sulla memoria. Che cosa ne pensa?
«Il legislatore non deve occuparsi del contenuto della memoria storica. D’altra parte, i programmi scolastici devono fornire con urgenza alle nuove generazioni degli strumenti adatti ad affrontare le trasformazioni di un mondo globalizzato. Bussole indispensabili per navigare nello spazio che si confonde sempre più con il mondo, mentre il culto della storia nazionale e quello della storia locale sono divenuti obsoleti. I nostri programmi di storia devono insegnare a mettere in relazione il locale con la regione, la regione con la nazione, la nazione con l’Europa e le altre aree del mondo. È in questa prospettiva che si potrà scrivere una storia europea che non sia solo una collezione o giustapposizione di saggi l’uno sull’altro. La storia di Milano, per esempio, si presterebbe a queste indagini, poiché partendo dalla specificità della città e della regione, gli studenti si confronterebbero con il passato di capitale dell’Impero romano, passando alla storia mondiale sotto l’impero di Carlo V d’Asburgo fino alla rivoluzione industriale».
Corriere La Lettura 11.11.18
Il maestro d’amore a Roma
L’esilio di Ovidio è finito
Anniversari. Duemila anni da la morte dellautore delle Metamorfosi spedito sul Mar Nero da Augusto che mai ascoltò le sue implorzini di perdono
Dipinti e miti alle Scuderie del Quirinale
di Edoardo Sassi
Amore, rapimento, abbandono, piacere, vedetta, odio: un mondo (divino) preda di passioni e desideri (tipici degli umani). Duecento opere per provare a raccontare l’universalità di un mondo e di un pensiero, quello del poeta Ovidio, in occasione del bimillenario della morte avvenuta in esilio l’anno 18 dopo Cristo. Questa la sfida della mostra allestita fino al 20 gennaio alle Scuderie del Quirinale di Roma — Ovidio. Amori, miti e altre storie — curata da Francesca Ghedini e ispirata all’opera del grande poeta.
Una mostra che idealmente comincia già nel luogo dove si trova la sede espositiva, con le statue di Castore e Polluce, i Dioscuri, al centro della piazza del Quirinale. Occhi e memorie rimandano così alla vicenda di Leda che infiammò d’amore il cuore di Giove, quel Giove che in Ovidio non è tanto il signore dei cieli, quanto piuttosto l’amante insaziabile e libertino capace di ricorrere a ogni espediente pur di possedere l’oggetto dei suoi desideri, fanciulle o efebi che siano. Giove per avere Leda si trasformerà in cigno. La donna dopo l’amplesso giacerà (anche) con il legittimo consorte. E da quel duplice connubio nasceranno loro, Castore e Polluce. Il mito di Leda e il cigno rivive anche all’interno del percorso espositivo grazie a una copia cinquecentesca di un quadro di Leonardo, uno degli esemplari selezionati per comporre questa mostra colta e sofisticata, un racconto per immagini con cui — grazie a quadri, affreschi, sculture, vasi, gemme, rilievi e codici miniati — si riflette su temi e archetipi giunti, attraverso i secoli, fino all’immaginario contemporaneo.
Dalla Venere cosiddetta Callipigia, ovvero dalle belle terga — prestito del Museo archeologico nazionale di Napoli, partner dell’esposizione — fino al tubolare al neon con cui l’americano Joseph Kosuth, classe 1945, cita direttamente i versi del poeta di Sulmona, la mostra è infatti un viaggio nell’universalità di una delle principali fonti del pensiero e dell’arte occidentale. Universalità di cui il primo a esser convinto fu Ovidio stesso: «Ho ormai compiuto un’opera — parole sue — che non potranno cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo divoratore… e il mio nome resterà: indelebile». Ma ancor più che l’ira di Giove, la mostra racconta quella di Augusto, l’imperatore impegnato in una campagna di moralizzazione dei costumi e con il quale il poeta dell’erotismo, delle Veneri frivole e fedifraghe, l’acuto osservatore della Roma contemporanea, il cantore di amori focosi, non poteva che entrare in contrasto. Da qui lo spietato esilio da cui il poeta non farà ritorno, a Tomi, sulle rive del Mar Nero, dove solo e disperato il maestro dell’Ars amatoria vivrà gli ultimi anni implorando un perdono che non arriverà mai.
E Augusto in mostra si impone con la monumentale statua in marmo che lo raffigura, Pontefice Massimo, con il capo velato, giunta dal Museo di Aquileia ed esposta in suggestiva contrapposizione con le tante sensuali figure che animano i versi del poeta, a partire da quelli delle celeberrime Metamorfosi. Storie di dèi, eroi, giovinetti e ninfe che dopo aver popolato l’immaginario antico sono giunti fino a noi grazie al tramite fondamentale dei monaci amanuensi che nel Medioevo, chiusi nei loro cenobi, trascrissero anche i versi più audaci salvandoli dall’oblio. E tra le più celebri delle Metamorfosi, quella di Ermafrodito dalla doppia natura, maschile e femminile, evocata in mostra dalla sensualissima statua (II secolo dopo Cristo, da un originale ellenistico) proveniente da Palazzo Massimo-Museo nazionale romano, oltre che da quadri di Sisto Badalocchio, Francesco Albani e Carlo Saraceni.
Tra gli autori, Benvenuto Cellini, Tintoretto, Poussin o Pompeo Batoni. E tra i soggetti ricorrenti, oltre ad Adoni, Icari, Apolli e Veneri (presente anche nella versione «Pudica» dipinta da Botticelli a fine Quattrocento) c’è, va da sé, Narciso, il bellissimo cacciatore che disdegnò l’amore di Eco e che specchiandosi nell’acqua di una fonte si invaghì di sé stesso morendo di quella passione, non potendo possedere l’oggetto del desiderio. Figura ovidiana per antonomasia, Narciso è ricordato grazie a rilievi antichi e dipinti, tra gli altri, di Domenichino e Giovanni Antonio Boltraffio. «La scelta di riparlare di Ovidio a duemila anni dalla sua scomparsa — spiega la curatrice — è stata dettata dal desiderio di comunicare frammenti di questo grande che ha segnato la cultura europea. L’auspicio è che ciascuno possa provare un’emozione, trovare uno spunto». Festeggiando così il ritorno del poeta nella sua Roma. E da vincitore.
Il Sole Domenica 11.11.18
Parola di Ingmar Bergman
Gli scritti inediti. La Fondazione pubblica in lingua originale la seconda parte dei quadernidi lavoro, dal 1975 al 2001, assieme a una selezione di articoli e saggi del regista svedese
di Andrea Martini
Un racconto lungo e dettagliato offriva l’ordito: su quello veniva stesa una fitta trama fatta di dialoghi nitidi e incisivi. Da lì potevano sortire ugualmente, senza che niente ne marcasse preventivamente il destino, una sceneggiatura o una pièce. Con questo metodo, seguito per molti decenni e più volte rivendicato, Ingmar Bergman ha dato vita a grandi capolavori cinematografici e a testi drammaturgici ingiustamente meno conosciuti. Che Bergman, autore capace come nessun altro di mettere a nudo con le semplici arti del set e del palcoscenico cuore e mente dell’uomo moderno, potesse essere anche un grande letterato era una convinzione che andava radicandosi da tempo. Già una quindicina di anni fa Maaret Koskinen, studiosa nordica e quindi in grado di apprezzare l’espressività di una lingua in cui si fondono asperità strindberghiane e chiarezza hollywoodiana, aveva messo in rilievo la centralità della parola (I begynnelsen var ordet). Del resto i lettori di mezzo mondo hanno avuto la possibilità di apprezzare sia la capacità evocativa (la costruzione del sé in Lanterna magica e Immagini) sia quella puramente narrativa (lo scandaglio dell’anima in Con le migliori intenzioni e Conversazioni private) delle sue pagine.
A corroborare questo assunto arrivano oggi tre volumi di scritti bergmaniani inediti (Norstedts ed.) , primo svelamento di un tesoro custodito dalla Fondazione Bergman, l’ente a cui il regista consegnò nel 2001 una sterminata raccolta di taccuini, appunti, bozze, lettere, soggetti, note di regia, articoli e saggi. Custoditi con riserbo fino alla morte dell’autore, questi testi sono stati da allora decifrati e catalogati a partire dal loro nucleo più prezioso, costituito da sessanta quaderni di lavoro che hanno accompagnato ininterrottamente l’attività creativa e il vissuto quotidiano di Bergman dal 1938 al 2001. Un primo volume che comprende gli anni 1955-1974 è uscito alla fine della scorsa primavera: si tratta del ventennio cruciale, aperto dalla trilogia Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, che protende Bergman verso una affermazione internazionale e che, in ambito teatrale, lo vede passare dai pur grandi palcoscenici della provincia alla direzione del Dramaten.
Scanditi da date, ora quotidiane ora tra loro distanti settimane, queste note ci introducono in un universo lontano, a tratti fiabesco, ma al tempo stesso vagamente noto, come possono essere soffitte o atelier abbandonati, ma già abitati da personaggi familiari di cui riviviamo gli incerti destini, a volte divergenti da quelli poi assunti nei film o sul palcoscenico. Isak Borg avrà una moglie o sarà vedovo? Viaggerà verso la fredda Gävle o la più assolata Lund? Memoria e percezione fisica saranno in lui distinte? In cosa la nuova versione del Sogno dovrà essere diversa dalla precedente? La moglie dell’illusionista (Il Volto) dovrà essere travestita da uomo? Straordinaria e affascinante appare la contemporaneità degli stimoli sicché non v’è cronologia nell’azione creativa e mentre si dà vita alla protagonista di Come in uno specchio, già si pensa all’infermiera di Persona o alla quattro figure femminili di Sussurri e grida.
La forza di questi scritti che, come sostiene il curatore Jan Holmberg, oscillano audacemente «tra il banale e il brillante, il ridicolo e il sublime», risiede soprattutto nella capacità istintiva di intrattenere un lettore, solo ufficialmente non previsto. Leggendoli ci sentiamo al fianco di Bergman e rispondiamo con progressiva sollecitudine a quella che appare come un’apertura verso l’altro da sé, un tentativo di comunicare e di rompere quell’assoluta solitudine dell’individuo che è la sua prima e più intima convinzione esistenziale. Ne è dimostrazione una scrittura diaristica mai assertiva e felicemente lontana dai tic dell’autofinzione, abile nel tenere unite le riflessioni sul lavoro quotidiano e la vita corrente: «Bibi (Andersson) mi dice che ho fatto troppe commedie e che devo cambiare», «Come diavolo si fa per rendere divertente un film?» e talvolta persino quella privata, ingombra di sette figli e cinque matrimoni. Tratto essenziale è una ostentata fragilità, lontana anche da quella lasciata intravedere in Lanterna magica («Mi piacerebbe avere più in fiducia in me stesso, essere meno influenzabile e meno sensibile all’elogio»), non disgiunta da una meno nota sensibilità civile («Hanno assassinato Martin Luther King, vorrei uscire dal mio isolamento ma l’arte può solo ricordare agli essere umani d’essere, prima di tutto, tali»).
A questo primo volume si è aggiunto, appena dieci giorni fa, un secondo (1975-2001) in cui, in linea con l’ultima fase dell’attività creativa più frastagliata e con l’occaso della vita, si dà ampio spazio a riflessioni metalinguistiche e in cui musica cinema e teatro si fondono in unicum in districabile, e ad approfondimenti della coscienza che qui appare ancor più lacerata. A parte, è stato pubblicato dalla Fondazione un volume che, mescolando editi e inediti, raccoglie interviste, diari di lavorazione, prefazioni e qualche saggio in cui figurano, tra l’altro le auto recensioni redatte scherzosamente dallo stesso Bergman sotto falso nome. Nel frattempo è stata annunciata anche l’uscita di una dozzina di piccoli volumi in cui sarà possibile scoprire la versione letteraria che fu alla base dei suoi film più celebri. Tutto questo a dispetto di quanto lo stesso Bergman scriveva il 3 marzo del 1957: «So di non valere come scrittore almeno nell’accezione classica del termine».
Corriere 12.11.18
Torna BookCity (e «la Lettura» lo racconta)
Una storia scritta a sedici mani: gli otto autori del Romanzo italiano de «la Lettura» raccontano nel nuovo numero, il #363 in edicola fino a sabato, il lungo cantiere di questa sfida. Silvia Avallone, Teresa Ciabatti, Mauro Covacich, Maurizio de Giovanni, Fabio Genovesi, Marco Missiroli, Emanuele Trevi e Sandro Veronesi, in un servizio a cura di Ida Bozzi, dialogano sull’esperimento letterario a staffetta, iniziato il 22 luglio e terminato la settimana scorsa.
Il supplemento in edicola è ricco di letteratura. Da giovedì 15 a domenica 18 torna BookCity Milano, la manifestazione dedicata al libro, che quest’anno riparte dai giovani e a cui il supplemento dedica uno speciale di 14 pagine. Mentre il racconto della settimana è dell’inglese Alex Connor, autrice di thriller e romanzi storici, che per «la Lettura» scrive la storia di un puzzle beffardo: al centro un gallerista, un gangster e il rompicapo dei quadri...
Tra i protagonisti di questo numero anche la leggenda del fumetto italiano: Milo Manara, che nel 2019 compirà 50 anni di carriera. Per festeggiare esce Red Light. Art Book (Feltrinelli Comics, dal 22 novembre) un cofanetto che raccoglie 25 ritratti femminili ispirati alle carte di un gioco di ruolo. Lo intervista Alessandra Sarchi.
Nelle pagine dedicate alla scienza la riflessione di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi sul futuro della procreazione solitaria: presto dalle cellule di un solo individuo si ricaveranno uova e spermatozoi. Mentre nello spazio della «Polemica» Chiara Lalli scrive sull’inganno di spacciare l’omeopatia per scienza, perché la sua efficacia non è ancora provata.
Infine il cinema: Filippo Bologna, al suo esordio alla regia, racconta uomini e donne molto diversi tra loro in Cosa fai a Capodanno?, nelle sale da giovedì 15. Nel cast anche Riccardo Scamarcio: li intervista Cecilia Bressanelli. (jessica chia)
https://spogli.blogspot.com/2018/11/corriere-12.html