venerdì 9 novembre 2018

il manifesto 9.11.18
Un’ingegneria sociale con presupposti biologici

«La scienza di nuovo incantata. L’olismo nella cultura tedesca da Guglielmo II a Hitler» di Anne Harrington
di Giovanni Carosotti


Nel 1935 Hans Schemm, Ministro della Pubblica Istruzione della Baviera nella Germania hitleriana, definì il nazionalsocialismo «biologia politicamente applicata». Una definizione che potrebbe apparire scontata, ma che in realtà implica uno specifico modo di considerare la scienza, tale da consentire un’immediata applicazione dei suoi risultati sperimentali all’ambito sociale e politico. La scienza olistica, cui è dedicato l’importante studio di Anne Harrington (La scienza di nuovo incantata, Fioriti Editore, pp. 388, euro 34 a cura di Luigi Corsi), presenta in effetti tutte le caratteristiche per trasformarsi in un prodigioso progetto ideologico e dare vita a un’ingegneria sociale in cui il presupposto biologico assume un ruolo decisivo.
Concepito come una vera e propria «scienza tedesca», l’olismo si fondava sul rifiuto di tutta la tradizione di ricerca derivata dal meccanicismo newtoniano, cui contrapponeva l’organicismo romantico di Goethe; il concetto di «totalità» intendeva opporsi alla continua scomposizione dei fenomeni propri delle scienze meccanicistiche, il cui prototipo era la «macchina» e il cui esito era il trionfo della tecnica. Ciò comportava la rinuncia a ogni lettura teleologica della natura che individuava in essa dei fini più alti (di ordine intellettuale e spirituale), che andavano al di là dell’arida registrazione meccanica dei fenomeni.
A PARTIRE da questa visione era facile però compiere un passo metodologicamente rischioso, quello di concepire qualsiasi organizzazione politica, così come ogni sistema di cultura, alla stregua di un organismo, una totalità destinata a comprendere e ad assorbire le differenze individuali, e ad allontanare da sé tutto ciò che poteva mettere a rischio, in campo biologico come in quello psicologico-sociale, la vitalità complessiva del sistema. Il risultato fu quello di provare a fondare, partendo da tali presupposti fisico-biologici, le più retrive teorie del nazionalismo tedesco, nonché una visione demonizzante della modernità e della multiculturalità che avrebbe messo a rischio la specificità della cultura tedesca.
Fu soprattutto dopo l’umiliante sconfitta nella Prima Guerra mondiale che le potenzialità reazionarie dell’olismo emersero in tutta la loro forza, fino a interpretare la parabola weimeriana come il fallimento tout court del meccanicismo. A questo punto, l’idea che una scienza autenticamente tedesca imponesse il principio della totalità organica in campo fisico, biologico e politico, contemporaneamente all’ascesa e all’imporsi del regime hitleriano potrebbe sembrare un esito storico quasi prevedibile.
LO SCOPO del profondo lavoro di ricerca della Harrington intende proprio smentire una così facile relazione causale. Se il nazismo in un primo tempo fu interessato alla visione organicistica dell’olismo, e sembrava cogliere delle evidenti affinità con la propria aberrante rilettura della cultura tedesca, verso la fine della sua parabola politica il regime fece invece prevalere la sua componente tecnocratica, spinto forse dalla necessità di sfruttare al massimo il potenziale tecnico della Germania nel disperato sforzo di vincere il conflitto.
Inoltre, se è vero che alcune personalità dell’olismo tradussero in ambito politico le loro teorie per difendere un’idea di Stato forte, che combattesse contro le tendenze disgregatrici rappresentate dall’egualitarismo giuridico, è anche vero che i due maggiori teorici della Gestalt, Werthmeyer e Goldstein, intendevano invece promuovere attraverso l’olismo un programma politico progressista e giudaico, che finì con l’interessare la stessa Scuola di Francoforte.
Certo, rimane lo stupore dell’autrice nel constatare la ripresa da parte di questi autori di un concetto, quello di Gestalt, teorizzato precedentemente dall’oscuro precursore del nazismo Houston Stewart Chamberlain, che lo utilizzò in senso eminentemente razzista e antisemita. Una tragedia esistenziale vissuta da diverse personalità ebraiche profondamente radicate nella tradizione tedesca, di cui condividevano alcuni aspetti peculiari della cultura nazionalistica così come una evidente avversione nei confronti della modernità.
LA RICOSTRUZIONE anti deterministica della Harrington veicola un contributo soprattutto di carattere metodologico, relativo al problematico rapporto tra scienza e linguaggio. Non si tratta tanto di contrapporre una scienza vera a un’altra corrotta, ma di evitare quel salto mortale epistemologico (praticato non solo dall’olismo) che conduce il linguaggio, attraverso la tentazione della metafora, ad ampliare l’autorità e la portata della scienza in generale, ben oltre gli ambiti e i limiti in cui le sue analisi dovrebbero circoscriversi.
Diventa allora necessario una sguardo interpretativo esterno, di carattere filosofico, irriducibile al superficiale fascino della riduzione di ogni dinamica sociale a dato naturalistico. Una pretesa che mette in guardia ancora oggi contro la tentazione di piegare le scienze sociali alle logiche esatte della quantificazione statistica, per esempio con la pretesa di poter risolvere la relazione educativa a condizionamenti comportamentistici predeterminati, relegandone la singolarità a puro spontaneismo.
Il rischio, ora come allora, è quello di coltivare un uso ideologico della scienza che si propone di condizionare gli stessi processi di soggettivazione, riconducendoli a dinamiche psicologiche uniformi.

il manifesto 9.11.18
Strage a L.A., ex marine ammazza tredici persone
American Psycho. Le vittime sono in prevalenza ragazzi giovani. Il killer, Ian Long 28 anni, è morto. Nel 2018 308 episodi simili. Ma al midterm 88 candidati finanziati dalla Nra sono stati eletti
L’interno del Borderline Bar & Grill di Thousand Oaks prima dell’attacco
di Luca Celada


Stavolta è toccato a un bar californiano: mercoledì attorno alla mezzanotte un uomo si è avvicinato al Borderline Bar & Grill di Thousand Oaks, a 50 km da Los Angeles, e ha aperto il fuoco freddando il buttafuori. Poi Ian Long, 28 anni, è entrato nel locale affollato di universitari dei vicini college, ha ucciso una cassiera e successivamente fatto fuoco indiscriminato sugli avventori con la sua Glock 21 uccidendo dodici persone compreso uno sceriffo colpito da numerosi proiettili mentre allertato della situazione entrava nel locale. Le vittime erano in prevalenza studenti fra i 18 e i 25 anni.
IL BORDERLINE si trova a Thousand Oaks un tranquillo quartiere di villini e centri commerciali caratteristico dell’«exurbia» di L.A., dove i comprensori unifamiliari si inerpicano per quelle che pochi anni fa erano ancora colline di macchia mediterranea che circondano i centri abitati della California meridionale. Il bar è arredato in stile saloon con un bancone western, pista da ballo texana e tavoli da biliardo, aggrappato alla freeway 101 per Santa Barbara, all’altezza dello svincolo per la Reagan Library. Qui, come ogni mercoledì numerosi giovani avventori erano venuti per ballare il line dancing e stare in compagnie nella serata settimanale a tema country
L’ATTENTATORE, anche lui rimasto ucciso, era un reduce della guerra in Afghanistan residente nella vicina Newbury Park. Mercoledì sera ha preso in prestito la macchina della madre con cui abitava ed è andato al bar. Gli inquirenti hanno appurato che Long in passato avrebbe dato segno di scompensi psichici, legati a una sindrome di stress post traumatico. L’ex soldato era stato esaminato dall’autorità sanitarie del servizio sociale lo scorso aprile. Nella sua ultima azione commando Long avrebbe lanciato bombe fumogene all’interno del locale per disorientare le vittime prima di aprire il fuoco mentre ragazzi nel panico usavano sgabelli del bar per infrangere le vetrine e mettersi disperatamente in salvo.
IL TRAGICO EPISODIO – strage numero 307 nel solo 2018 – ripropone l’ordinaria follia che ricorre con regolarità e che stavolta ha colpito all’indomani di una campagna elettorale mid-term caratterizzata da toni asprissimi in particolare da parte del presidente. Due settimane fa un fanatico seguace di Trump è stato arrestato per aver spedito 15 ordigni esplosivi per posta ad esponenti politici democratici . Il 29 ottobre un fanatico anti immigrazione ha ucciso 11 persone in una sinagoga di Pittsburgh.
Tre giorni prima un altro esagitato razzista aveva ucciso due avventori afro americani di un supermercato del Kentucky. Una settimana fa un fanatico misogino ha fatto strage in uno studio di yoga della Florida. Le armi da fuco e la vistosa scia di sangue che lasciano sulla società americana sono state fra le questioni centrali delle elezioni anche grazie alla campagna per norme più severe organizzata dai liceali sopravvissuti alla strage del liceo Parkland lo scorso inverno.
MARCH FOR OUR LIVES, il movimento fondato da Emma Gonzalez, David Hogg si è battuto contro l’elezione di candidati favorevoli al Nra (la potente lobby delle armi) ed è riuscito a sconfiggere 41 di essi – vittoria importante ma parziale: 88 candidati finanziati dalla Nra sono stati eletti. Continua quindi il dibattito su una antica piaga americana ma che stavolta è avvenuta sullo sfondo di un registro politico sempre più stridente esasperato dall’astio utilizzato come grimaldello politico, come dimostrato dall’ennesima rissa scatenata da Trump con la stampa proprio il giorno della strage. Il presidente che tra l’altro sta stringendo in questi giorni la morsa attorno ministero di giustizia col licenziamento di Jeff Sessions, ieri si è limitato a una dichiarazione preconfezionata sull’eroismo delle forze dell’ordine seguita di immediato coro di sostegno dei sodali al secondo emendamento che garantisce il diritto costituzionale al porto d’armi.

il manifesto 9.11.18
La guerra incivile americana
di Tommaso Di Francesco


Mentre l’attenzione sull’America era rivolta alla sconfitta a metà di Trump nel referendum di midterm, ecco che è subito strage. L’ennesima e rituale: 13 morti in una sparatoria provocata da un ex marine in un bar di Los Angeles, al ritmo di musica country. È il clima da Far West profondo – bipartisan anche per le presidenze democratiche – che ora il magnate della Casa bianca, schierato da sempre con la lobby delle armi – sono 310 milioni le pistole e i fucili in mano ai cittadini americani -, alimenta con nuovi provvedimenti sulla pistola facile, pronto ad abolire le gun free zone, noncurante del movimento di giovani – target delle sparatorie di massa scolastiche – che dice no alle armi. Un Trump disposto ad armare ogni soggetto sociale coinvolto nei mass shooting, insegnanti, rabbini, preti, piloti; e rivendicando il diritto alla difesa, fondamento storico degli Stati uniti della frontiera.
È il modello che, con la pistola facile, i facili porto d’armi, la legittimazione a sparare per primi per «legittima difesa», il Taser salvifico, avvia in Italia il governo giallo-verde del «contratto» con l’ imprimatur del ministro razzistaleghista Salvini.
Ma vale la pena riflettere. Visto che ogni anno le vittime di questa strage da armi da fuoco sono negli Usa 38mila, il 60% suicidi, mentre il 36%, ben 11mila persone, sono state uccise: più di 300mila negli ultimi dieci anni.
«Sono molti di più delle vittime del terrorismo», ha ricordato Obama. Altro che 11 Settembre, insomma. Sono quasi le cifre di una guerra civile a pezzi, come per l’allarme della deflagrazione di una Terza guerra mondiale a fronte delle tante nostre «piccole» guerre in corso. Ma non è una guerra civile a pezzi. Non solo perché la guerra civile negli Stati uniti c’è stata e con due milioni di morti, ma almeno per il motivo «nobile» di un conflitto sul modello di sviluppo. È la barbara degenerazione armata della giustizia fai da te, confortata dall’ideologia della sicurezza e della costruzione del «nemico». Una barbarie tutta occidentale, stavolta: non c’è il jihadismo a seminare terrore ma la quotidianeità alienata che si consuma di merci, nuova tecnologia piena di promesse inconsapevoli e rapporti umani degradati.

La Stampa 9.11.18
L’ex marine tornato da Kabul con la sindrome del reduce
di Paolo Mastrolilli


Un ex marine, vittima del Post Traumatic Stress Disorder, che aveva comprato legalmente la pistola con cui ha fatto strage. Il profilo di Ian Long, che mercoledì sera ha ammazzato 12 persone in un bar della California, prima di togliersi la vita, riassume tutti gli elementi ricorrenti di queste tragedie: problemi mentali non curati a dovere, e facile accesso alle armi con cui sfogare la propria rabbia. Fino a quando l’America non accetterà l’evidenza di queste due emergenze, e non farà qualcosa di concreto per affrontarle, la storia si ripeterà.
Ian aveva 28 anni, il corpo coperto da tatuaggi, e viveva a Newbury Park. Era un ex marine e aveva servito in Afghanistan, da cui era tornato con il Post Traumatic Stress Disorder, il male oscuro che colpisce il veterani, e spinge molti di loro a suicidarsi o commettere atti violenti quando tornano a casa e non riescono a integrarsi.
Fredda determinazione
Mercoledì, alle 11 e 20 minuti della sera, Long si è presentato all’ingresso del Borderline Bar and Grill, una sala per concerti a Thousand Oaks, paese vicino a Los Angeles. In programma c’era la College Country Night, che attira sempre decine di studenti della Pepperdine University e della California Lutheran University. Ian era vestito di nero, portava gli occhiali da sole e un cappello da baseball, e la parte inferiore della sua faccia era coperta da una maschera. Addosso aveva una Glock .45, con cui ha subito sparato al buttafuori. Quindi è entrato nel locale e ha ammazzato la giovane cassiera. A quel punto ha lanciato fumogeni sulla pista da ballo per confondere i clienti, e ha ripreso a sparare. Ha ucciso 11 persone e lo sceriffo Ron Helus, che aveva cercato di fermarlo, e poi si è tolto la vita.
Il motivo del suo attacco non è ancora chiaro, ma nell’aprile scorso uno psichiatra era stato chiamato a casa sua, perché si comportava in maniera aggressiva. Aveva deciso di non ricoverarlo. Ian aveva acquistato legalmente la sua Glock in un negozio della Ventura County, e l’aveva modificata per sparare più colpi. Se lo avessero curato seriamente, e non avesse avuto la possibilità di comprare un’arma, tredici persone oggi sarebbero ancora vive.

La Stampa 9.11.18
Merkel: “Il nazionalismo porta alla guerra, fermiamolo”
di Amedeo La Mattina


La virata a destra auspicata da Matteo Salvini e dai populisti europei non c’è stata al congresso del Ppe. I Popolari a Helsinki preferiscono per la presidenza della Commissione europea il conservatore bavarese Manfred Weber al più duro anti-populista Alexander Stubb, ex premier finlandese. Si coprono a destra, ma la standing ovation tributata ad Angela Merkel dai delegati racconta che, nonostante le ammaccature e la sua annunciata uscita di scena nel 2021, è sempre e ancora lei a dare la linea. Quando la Cancelliera tedesca si piazza davanti ai microfoni con la sua giacca color aragosta, una selva di telefonini si alza per fotografarla. E lei, senza scomporsi di fronte a tanto entusiasmo: «Ma se ancora non sapete cosa sto per dire...». Gli applausi crescono, tutta la presidenza del Ppe è in piedi. Pure i due premier sovranisti Sebastian Kurz e Victor Orban, che si trasformano in statue di sale, quando la Merkel attacca con una serie di rasoiate. Partendo dal ricordo della Prima e della Seconda guerra mondiale, dai lutti e dalle vittime provocate. «E lo dice una Cancelliera tedesca...». Fa una pausa amara. Un brivido attraversa la platea mentre evoca i conflitti sanguinosi del Novecento. E ammonisce: «Spetta al Ppe lottare contro i vecchi fantasmi del nazionalismo in vista delle prossime europee. Dobbiamo dimostrare di avere imparato dagli orrori del XX secolo. Insieme si è più forti, da soli non si può vincere se l’altro perde». Poi la stoccata finale: «Il nazionalismo porta alla guerra». La leader dei Popolari tedeschi riconosce gli errori commessi negli ultimi anni, la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini, il controllo delle frontiere europee. Non è però la polifonia e chiudersi nelle proprie nazioni che può risolvere problemi. «Se vediamo la nostra posizione nel mondo - scandisce - manca l’unità. Come Europa verremo presi in considerazione dagli Usa, Cina e Russia se parleremo all’unisono».
Anche Orban e Kurz votano per Weber, che sulle note di “One vision” dei Queen diventa, sfiorando l’80%, lo “Spitzenkandidat” del Ppe. Lo sfidante Stubb, sostenuto dai Paesi del Nord Europa, si ferma al 20. I due rivali si abbracciano e ricevono i complimenti anche dal premier ungherese, capofila dei governi di Visegrad ai quali guardano Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ma qui lui gioca un’altra partita tutta interna al Ppe, al partito che alle elezioni europee vuole vincere. Sa che solo dentro il Ppe può contare, avere un ruolo. Orban vuole presidiare il confine della destra, non unirsi alle forze della destra. Lo ha spiegato in questi giorni ad Antonio Tajani che gli chiedeva di moderarsi, soprattutto dopo che il Parlamento europeo ha votato una condanna per violazione dello stato di diritto in Ungheria. «Caro Antonio, io potrei anche moderarmi ma se non faccio il duro in Ungheria arrivano i nazisti». «La verità - dice il presidente dell’Europarlamento e coordinatore di Forza Italia - è che l’Italia è isolata. Orban usa Salvini e non viceversa».
Il congresso del Ppe si chiude con l’Inno alla gioia, ma ora i Popolari, in forte calo nei sondaggi, dovranno vincere se vorranno continuare a decidere le sorti politiche del Vecchio Continente assediato da Est e da Ovest.

Corriere 9.11.18
Gli Obama, due capi per l’opposizione
E su Donald si allunga l’ombra di Michelle
dal nostro inviato a New YorkAldo Cazzullo
Lei può vincere. È un’ipotesi, ma condiziona il partito

di Aldo Cazzullo

La donna più vicina a Trump, Kellyanne Conway, nel luglio 2016 fu mandata a Philadelphia alla convention di Hillary Clinton. Al ritorno riferì: «Capo, vinciamo noi. Il messaggio dei democratici è che tu sei il Male, e loro sono diversi. Per il resto, in quattro giorni hanno parlato solo di diritti delle minoranze, delle donne e degli omosessuali».
Ovviamente la Conway restituiva una versione caricaturale dei rivali: proprio quella che il capo voleva sentire. Resta il fatto che Trump vinse davvero. E in fondo neppure stavolta ha perso.
Anche in queste elezioni, i democratici non hanno puntato su economia, sanità, politica estera. Hanno eretto contro Trump un muro di alterità, distanza antropologica, presunta superiorità morale. E l’uomo che ha impersonato questa linea è ancora lui, il vero capo dell’opposizione, l’unico leader indiscusso per quanto ineleggibile: Barack Obama.
Mai un presidente in carica aveva insultato gli avversari come ha fatto Trump. Però mai un ex presidente si era battuto contro il successore come ha fatto Obama; che non ha mai accettato la sconfitta del 2016, destinata a travolgere, con Hillary, gran parte della sua eredità. Non solo la riforma sanitaria, quanto il superamento della questione razziale. L’idea di un’America pacificata, il sogno del concerto globale, della crescita equa, dell’ambiente, dei diritti civili.
Prima del voto, Obama ha tenuto discorsi dai toni apocalittici: «Sono le elezioni più importanti della nostra vita. In gioco non c’è la mia riforma della sanità; c’è molto di più. La posta siamo noi. Dobbiamo decidere chi siamo. In quali valori crediamo. Come ci comportiamo con gli altri. Dimostriamo che Trump non è chi noi siamo!».
Dopo si è dato una calmata e su Twitter si è inoltrato nella classica analisi del voto: «È un buon inizio. Non è solo importante aver vinto, ma come abbiamo vinto. Siamo stati competitivi in posti dove non lo eravamo». Obama si è compiaciuto per la buona prova della sua coalizione: donne, neri, ispanici (anche se i due candidati governatori per cui si è speso di più, David Gillum in Florida e Stacey Abrams in Georgia, hanno perso). In effetti queste elezioni hanno giustamente valorizzato personaggi freschi e interessanti: i deputati pellerossa, la musulmana con il velo, la cameriera messicana che ieri serviva ai tavoli e oggi siede alla Camera. Ma c’è tra loro qualcuno che può battere Trump?
Scalzare il presidente nel 2020 non sarà facile. E i democratici per il momento non hanno un candidato sicuro. Joe Biden funzionerebbe, ma è considerato un vecchio arnese, come Bernie Sanders. Michael Bloomberg è stato il sindaco repubblicano di New York; può essere il centrista che ricompatta il Paese in un’emergenza economica o internazionale, che all’orizzonte per fortuna non si vede. Tra le figure emergenti la più accreditata resta Kamala Harris, la senatrice della California di origine indiana; ma è la persona giusta per recuperare l’elettorato operaio di Pittsburgh o Cincinnati?
Una donna che potrebbe vincere c’è. Obama era certo che avrebbe battuto Trump senza problemi, se avesse potuto scendere in campo. Anche oggi la sua non è una candidatura — da lei sempre esclusa — ma una suggestione; destinata come ogni suggestione a non realizzarsi forse mai, e ad aleggiare sempre. Martedì prossimo esce, in contemporanea in 24 Paesi, Becoming, Diventare, l’autobiografia di Michelle Obama. Sarà presentata nei palazzetti dello sport di dodici città americane: non c’è più un posto libero. L’autrice racconta l’infanzia nel South Side, la metà di Chicago riservata ai neri. Il padre operaio dell’azienda municipale dell’acqua, malato di sclerosi multipla, «che faticava ad alzarsi dal letto ma sorrideva sempre». L’incontro con Barack, «l’amore della mia vita», «un uomo onesto e integro». La comunità della Trinity United Church of Christ, dove il controverso reverendo Wright — quello della preghiera «Dio maledica l’America» — celebrò il matrimonio di Barack e Michelle e battezzò le loro figlie Sasha e Malia. (Non parlerà di una vicenda rivelata dalla sua biografia Rachel Swarns e da lei mai commentata: il trisnonno di Michelle, Dolphus Shields, era figlio di Melvina, schiava nera, e del suo padrone bianco, Charles Shields).
Obama aveva una meravigliosa storia da raccontare, ed è stato il primo a usare la rete per farlo. Ma non è mai stato in sintonia con l’anima profonda dell’America, che diffida dello Stato, del governo, degli avvocati, degli intellettuali; e Obama è l’ex capo dello Stato e del governo, è avvocato, e ha guadagnato come scrittore 15 volte più che come presidente. Rimarrà nei libri come il primo afroamericano alla Casa Bianca. Ma si è formato con i nonni materni alle Hawaii; non ha praticamente mai conosciuto il padre kenyota, che se ne andò quando lui aveva due anni per poi rivederlo una volta sola; secondo gli stereotipi non del tutto scomparsi pure in un Paese multietnico come gli Stati Uniti, Obama si muove, pensa e parla come un bianco.
La vera nera è Michelle. All’inizio la chiamavano «Mrs Grievance», Signora Rancore. Disse che si era sentita «per la prima volta fiera di essere americana» solo quando il marito aveva vinto le primarie. Dopo l’elezione, a lungo rifiutò un ruolo pubblico. Si dovette insistere perché lasciasse Chicago per la Casa Bianca. Poi però la prese in pugno. Le doti di attrice le consentono di mimetizzare una durezza e un’ambizione con cui si sono scontrati i collaboratori di Obama. Sia Rahm Emanuel, capo dello staff, sia David Gibbs, portavoce, litigarono con la first lady. Entrambi se ne andarono.
Trump la detesta. Secondo un dossier Fbi che però Bob Woodward nel suo libro Paura considera inattendibile, a Mosca si sarebbe fatto dare la stessa stanza d’albergo e lo stesso letto in cui avevano dormito Barack e Michelle, per il gusto di profanarla con un team di prostitute russe. Michelle considera Trump un barbaro. Anche se la vera distanza tra i due non è segnata dall’età — 72 anni lui, 54 lei — o dal colore della pelle, ma dall’idea dell’America.
Per gli Obama e i democratici l’America è un popolo, e il governo deve badare a chi non ce la fa, ospitarlo, mantenerlo, curarlo. Per Trump e i repubblicani l’America è un territorio. Che i padri hanno liberato dagli inglesi, comprato da Napoleone, conquistato agli spagnoli, strappato ai messicani, conteso ai Sioux, difeso dai clandestini. Chi riesce a entrare ha la propria opportunità; non pretenda però che gli si paghino la casa, il cibo, la salute; che non sono diritti, ma beni.
Tra due anni, al di là delle persone che la incarneranno, vedremo quale idea prevarrà.

il manifesto 9.11.18
Internazionale   
Ahmed Sa’adat: «La Palestina sarà liberata dal popolo escluso dalle élite»
Intervista. Per la prima volta dopo oltre un decennio, il segretario generale del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina parla con un giornale straniero dal carcere: «La via per la libertà: il ritorno dei rifugiati e la creazione di un unico Stato libero, democratico e laico. Per farlo dobbiamo ricostruire il nostro movimento nazionale, l’Olp»
di Stefano Mauro


Ahmed Sa’adat è diventato segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), il più importante partito della sinistra radicale palestinese, nel 2001 dopo l’assassinio di Abu Ali Mustafa, ucciso da due razzi lanciati da un elicottero israeliano contro il suo ufficio a Ramallah. Come risposta un commando del Fplp uccise l’anno seguente Rahavam Zeevi, ministro israeliano e ideologo della deportazione dei palestinesi. L’Autorità nazionale palestinese fece arrestare Sa’adat che, nonostante il parere contrario dell’Alta Corte di giustizia palestinese, rimase nel carcere di Gerico fino al 2006.
Quell’anno, in violazione di qualsiasi convenzione internazionalmente riconosciuta sulla detenzione, i militari israeliani prelevarono Sa’adat, lo deportarono nelle carceri israeliane e lo condannarono a 30 anni di carcere come «referente politico» di un’organizzazione considerata da Tel Aviv come «terrorista». Da allora vive nelle carceri israeliane e periodicamente viene tenuto in regime di isolamento per lunghi periodi, il che ha provocato una campagna di solidarietà (#FreeAhmedSa’adat) da parte della sinistra internazionale che ne chiede il suo rilascio.
Il manifesto, grazie alla rete dei detenuti del Fplp, è riuscito a intervistarlo dal regime carcerario in cui è segregato, dopo oltre dieci anni dalle ultime dichiarazioni rilasciate a quotidiani stranieri.
Come valuta la situazione attuale in Palestina e l’atteggiamento dell’amministrazione Usa di Donald Trump?
Per prima cosa voglio ringraziare il manifesto per questa intervista. È fondamentale comunicare ai lettori italiani e spiegare la visione della sinistra palestinese per l’attuale situazione in Palestina e nella regione. Vediamo gli Usa e l’amministrazione Trump come un potere pericoloso non solo per il popolo palestinese, ma per tutti i popoli del mondo. L’unica differenza tra Trump e le precedenti amministrazioni è che Trump mostra chiaramente la vera faccia del capitalismo e dell’imperialismo portando all’estremo l’utilizzo dell’egemonia e dello sfruttamento.
La decisione di nominare Gerusalemme capitale dello Stato israeliano e di spostare l’ambasciata da Tel Aviv è la naturale continuazione di 100 anni di colonizzazione in Palestina, dalla dichiarazione Balfour (1917), con l’obiettivo di annullare i diritti dei palestinesi e di accelerare la pulizia etnica del nostro popolo, specialmente per quanto riguarda Gerusalemme. Tutti i palestinesi rifiutano e combattono i tentativi di Trump di eliminare la questione palestinese. Il nostro popolo sta contrastando questo tentativo non solo a parole, ma con i fatti che sono la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, una vera e propria rivolta popolare, dove è presente anche il Fplp, simile allo spirito della prima Intifada.
Ahmed Sa’adat dietro le sbarre
Quale strategia permetterebbe oggi la ricostruzione di un forte movimento di liberazione palestinese?
Il principale compito è la ricostruzione e la riunificazione del movimento nazionale di liberazione della Palestina. L’obiettivo principale è di mettere la Palestina, per l’ennesima volta, sulla strada della liberazione riaffermando l’essenza stessa della lotta palestinese. Questo riguarda principalmente il ritorno dei rifugiati e la costruzione di un unico Stato libero, democratico e laico in Palestina – non quella dei confini del 1967 – dove qualsiasi cittadino possa vivere in pace senza distinzione di religione o razza. Una profonda frattura nel movimento palestinese, a livello storico, c’è stata sicuramente dopo gli accordi di Oslo nel 1993: ha distorto il vero significato della nostra lotta e la reale essenza del conflitto. Un’intera generazione di palestinesi è nata e cresciuta illusa dopo la firma di quel catastrofico documento che ha portato solamente divisione e frammentazione nel movimento di liberazione palestinese.
Proprio in quest’ottica il nostro impegno è quello di ricostruire il fronte di liberazione nazionale, cioè l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina): noi ci vediamo in mezzo tra Fatah e Hamas per creare un equilibrio e salvare l’unità nazionale, portando la nostra idea progressista, di sinistra e di rappresentanza di popolo. Tutte le classi palestinesi devono essere parte di questo processo di unità e le classi popolari non devono essere escluse dalla leadership del movimento, come lo sono state negli ultimi 40 anni.
Quale alternativa politica suggerisce quindi il Fplp?
Pensiamo che la premessa principale del cambiamento sia la partecipazione popolare in modo di consentire ai palestinesi di partecipare alla lotta – e al processo decisionale politico – in modo efficace e significativo. Ciò richiede non solo la lotta contro l’occupazione, ma anche la lotta per il diritto dei palestinesi a parteciparvi. Ad esempio, in Giordania, ci sono oltre quattro milioni di palestinesi. Lo stesso vale per i palestinesi in Libano, Siria e altrove, così come per quelli in Palestina. La partecipazione e la leadership popolare sono necessarie per la ricostruzione del movimento di resistenza contro il sionismo e per l’attuazione di una strategia unitaria per la liberazione della Palestina. Questo ovviamente deve avvenire in Palestina come nei territori della diaspora, in Europa o nelle altre parti del mondo dove ci sono palestinesi.
Se le nostre comunità sono sempre minacciate da ogni tipo di criminalizzazione, leggi repressive e attacchi da parte delle destre, allora i nostri obiettivi saranno più difficili da realizzare. Il punto fondamentale della nostra visione si fonda su questo: il diritto delle persone a partecipare allo sviluppo del loro futuro. È il processo democratico di rappresentanza per il quale stiamo combattendo a differenza di chi ha egemonizzato il popolo palestinese.
Nel 2017 il Fplp ha festeggiato il 50° anniversario dalla sua fondazione. Come valuta il suo ruolo attuale?
Il Fronte ha concluso il suo settimo congresso all’inizio del 2014 e ora ci stiamo avvicinando all’ottavo. Sarà un’opportunità per tutti i nostri compagni, dentro e fuori la Palestina, di valutare i nostri progressi e le nostre sconfitte. Negli ultimi anni, il Fplp ha affrontato tremende difficoltà in termini di repressione politica e finanziaria. Le persecuzioni, gli arresti di massa e l’uccisione dei nostri quadri ne sono un chiaro esempio. Nonostante ciò, siamo migliorati nelle nostre capacità militari a Gaza perché non affrontiamo le stesse condizioni che abbiamo in Cisgiordania. Lì subiamo sia l’occupazione che il coordinamento sulla sicurezza dell’Autorità Palestinese: numerosi compagni, come me, sono imprigionati proprio a causa del coordinamento tra l’Anp e l’occupante. Siamo, però, presenti in tutte le forme di lotta (militare, politica, culturale, sociale) all’occupazione e abbiamo fatto progressi in termini di partecipazione popolare anche tra i giovani, ma è sempre difficile ottenere dei risultati e visibilità (in confronto a Fatah e Hamas, ndr) a causa della situazione attuale. Nonostante le difficoltà siamo sempre impegnati in un processo di costruzione e crescita.
Quanto è cambiato il Fplp dalla sua fondazione fino ad ora?
È cambiato molto in questi anni, parliamo di mezzo secolo. Sono quattro le fasi nella vita del nostro partito. Il primo, che potrebbe essere identificato come «l’era giordana», dal 1967 al 1972; il secondo, l’esperienza della Rivoluzione palestinese e del Fplp in Libano, dal 1973 al 1982; la terza, la prima grande rivolta popolare palestinese, l’Intifada, dal 1987 al 1993; e per concludere la messinscena del cosiddetto processo di Oslo. I cambiamenti hanno interessato il Fronte su diversi livelli: politico, teorico, organizzativo. Queste trasformazioni ci hanno colpito come hanno toccato altri partiti: le guerre nella regione, gli accordi di pace tra i regimi arabi e Israele, la caduta dell’Unione Sovietica e del blocco socialista e il processo di svendita della nostra terra, etichettato come «processo di pace».
Tutti questi fattori hanno influenzato il Fronte, la sua forza e la sua analisi. Abbiamo fatto scelte ed errori che ci hanno penalizzato e che sono emersi, per alcune contraddizioni interne, anche nei precedenti congressi, visto che ci siamo sempre impegnati nell’autocritica. Siamo arrivati alla conclusione, dal 1992 a oggi, a causa delle destre palestinesi e la continua aggressione israeliana alle nostre terre e al nostro diritto di esistere, che il nostro partito, come il nostro popolo, attraversano una crisi globale: teorica, politica, economica. Pensiamo che questa cripossa essere superata solo attraverso la resistenza e la lotta popolare a qualsiasi livello.
Qual è il ruolo del movimento dei detenuti nelle prigioni israeliane?
Il movimento dei prigionieri nelle carceri israeliane ha storicamente svolto un ruolo importante e centrale nella lotta all’oppressione sionista. Non solo nel nostro confronto quotidiano tra occupanti e prigionieri, come «prima linea», ma anche nella scena politica in Palestina. Bisogna ricordare che l’accordo di unità nazionale palestinese, chiamato «Documento dei Prigionieri», è stato redatto all’interno delle prigioni e costituisce la base di tutte le successive discussioni della resistenza palestinese. Il movimento dei prigionieri ha vissuto varie esperienze di lotta, scioperi della fame, con la morte di numerosi prigionieri sotto tortura. Noi detenuti politici siamo stati definiti l’avanguardia e il cuore della rivoluzione palestinese. Questo perché Israele stesso tenta di contrastare la lotta palestinese e i suoi leader con la reclusione, opprimendo qualsiasi movimento di resistenza: studentesco, femminista, sindacale o giovanile.
Le prigioni sono da sempre un luogo in cui tutte le differenti anime della resistenza si incontrano ed è proprio per questo che i palestinesi spesso definiscono le carceri «le scuole della rivoluzione». Non siamo separati dal movimento di liberazione fuori dalle prigioni, ma siamo un tutt’uno visto che i prigionieri provengono da tutti i Territori: Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. Consideriamo come parte del nostro movimento anche i prigionieri politici palestinesi nelle carceri americane e francesi, in particolare Georges Ibrahim Abdallah, imprigionato in Francia da oltre 34 anni.

La Stampa 9.11.18
La malaeducazione: gli studenti italiani tra i peggiori del mondo
di Federico Taddia


Lo sguardo spavaldo. Beffardo. Irriverente. L’espressione provocatoria, da duello emotivo. L’aria è strafottente, tipica di chi vuole sondare i limiti dell’osabile. Di chi vuole andare al di là di quel limite. Chissà quante volte i professori delle nostre scuole si sono trovati in questa situazione: tu alla cattedra nel tuo ruolo di educatore, lui - un lui generico e generazionale, perché fanno parte della crescita il confronto e il confitto - seduto al banco o in piedi alla lavagna a minare la solidità di quel ruolo. E tu, professore, senza bacchetta magica in tasca e senza alcuna ricetta preconfenzionata in tasca, che cerchi un appiglio in quegli occhi che ti guardano ma non ti vedono: cerchi un varco di connessione, cerchi un segnale di comprensione, cerchi una complicità possibile. Cerchi un significato a quella relazione. E, probabilmente, ti chiedi anche cosa cerca e cosa trova in te quell’alunno. Hanno provato a chiederselo anche i ricercatori del Global Teacher Status Index, attraverso uno studio che ha coinvolto 35 mila intervistati tra i 16 e i 65 anni. E i risultati raccontano di una scuola italiana dove si è letteralmente sgretolato il rapporto di fiducia tra docenti e studenti: nella classifica che misura lo status degli insegnanti, ovvero il rispetto che hanno gli alunni nei confronti di chi è seduto alla cattedra, siamo al 33° posto su 35 nazioni analizzate. Un graduatoria che va di pari passo con i risultati scolastici. In sintesi: se non credo nella scuola, la scuola non mi dà quello di cui ho bisogno. Numeri che poco aggiungono ad una quotidianità nota, dove sono all’ordine del giorno docenti presi a schiaffi, a sputi e a sediate. E quando non si arriva ai casi estremi è diffusa l’idea che loro, gli insegnanti, siano i bersagli perfetti su cui scaricare le colpe per brutti voti e bocciature, mancanza di voglia di studiare o comportamenti sregolati, risultati non raggiunti e sogni non realizzati. Basta poi intrufolarsi in una qualsiasi chat dei genitori per rendersi conto di come tutto questo sia amplificato dal chiacchiericcio di madri e padri, che a colpi di tastiera minano la credibilità di chi in aula ci sta per davvero. Si è persa, lo si dice da anni, l’alleanza virtuosa tra famiglia e scuola. Un’alleanza complicatissima da ricostruire. I ragazzi stessi, in una società oggettivamente più volgare e dissacrante, spesso hanno smarrito il senso della misura. E della gentilezza. E i professori, vessati e maltrattati da un sistema sempre più impoverito e da una burocrazia paralizzante, non sempre trovano nella passione e nella motivazione l’ossigeno sufficiente per svolgere al meglio il loro compito. Un compito che è una professione, non una missione. Quella che però si totalmente dissolta, e forse proprio da lì bisognerebbe ripartire, è la consapevolezza che i maestri nella vita servano, e non possano essere sostituiti da una manciata di tutorial. Maestri, ovvero persone di cui fidarsi. Persone in grado di accendere curiosità, sete di sapere e sete di essere. Maestri, perché ci mettono competenza e creatività, perché si spendono per te in quanto persona, non in quanto alunno. Maestri su cui investire, perché da loro passano i cittadini di domani. Maestri, che sono modelli e possono proporre modelli. E sanno che il rispetto non lo si conquista con un concorso di abilitazione, ma è un qualcosa che si costruisce lezione dopo lezione. Con il contributo di tutti: scuola, alunni, genitori. Perché l’insegnamento è una sfida, giornaliera. Contro l’ignoranza, l’incompetenza e la maleducazione. E perderla significherebbe definitivamente perdersi.

Corriere 9.11.18
La politica stia lontana dalla ricerca scientifica
di Carlo Rovelli


L’Agenzia Spaziale Italiana è uno dei punti di forza e di orgoglio della scienza del nostro Paese. Il suo presidente, Roberto Battiston, scienziato di grande valore e con capacità organizzative riconosciute, è stato destituito nei giorni scorsi dal governo. Al suo posto, come possibile successore, la stampa ha fatto il nome di un militare. Queste sono notizie tristissime per la scienza, per la pace, per il paese.
Ci sono due questioni gravi che sono in gioco in questa vicenda. La prima è l’autonomia della ricerca: se mettiamo in questo modo la ricerca nelle mani di una logica di schieramenti politici, affossiamo di sicuro la scienza italiana. La seconda questione è la pesante svolta ideologica e politica che significherebbe passare l’Agenzia Spaziale Italiana dalle mani di uno scienziato alle mani di un militare.
Ma andiamo con ordine: Roberto Battiston è un astrofisico italiano di altissimo profilo. Ordinario di fisica sperimentale all’Università di Trento, ha dato contributi maggiori alla scienza. È il padre, per esempio, insieme al premio Nobel Samuel C.C. Ting, dello strumento AMS-2 montato sulla Stazione Spaziale Internazionale che fa misure di precisione dei raggi cosmici nello spazio. Da quattro anni è presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, la sua competenza ed efficacia non sono state mai messe in dubbio.
Con un decreto datato 31 ottobre, operativo dal 6 novembre, che recita testualmente che la decisione «non necessita di una particolare e pregnante motivazione», Battiston è stato destituito dal ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Marco Bussetti (la sua pagina di Wikipedia lo presenta così: «Docente di educazione fisica di scuola media, ricopre a livello regionale diversi incarichi legati al mondo dello sport. È stato allenatore e dirigente della squadra di basket di Gallarate»).
Il supporto legale per la destituzione è l’articolo 6 della legge 145 del 2002, che permette al governo di revocare le nomine degli organi di vertice degli enti pubblici conferite nei sei mesi antecedenti la scadenza naturale della legislatura. Vale la pena di ricordare qualche parola da una sentenza del Tar del Lazio (3277/2003) a proposito di questa legge: «Lo scopo di questa legge, se correttamente applicata, è evitare situazioni di contrasto che potrebbero emergere dal cambio di Governo. È una legge che sancisce un potere di carattere straordinario, non un potere assoluto, rimesso a una volontà senza controllo. È un potere che si rende necessario quando, a seguito di una valutazione della personalità del soggetto nominato dal precedente Governo, risulti ragionevole il convincimento (non il mero sospetto) che la sua attività di direzione non sia esercitata con il connotato della imparzialità e nel pieno rispetto delle regole del buon andamento, che comprendono la legittimità e la opportunità delle scelte in sintonia con gli indirizzi politici del governo in carica. Nella sostanza la legge 145 del 2002 attribuisce al nuovo governo un potere di verifica della fedeltà del funzionario e della sua capacità di godere di piena fiducia. È bene sottolineare che non si tratta di fiducia politica ovvero, peggio ancora, di fedeltà politica».
Non sembra questa la logica nella quale si sia mosso il ministro, rimuovendo Battiston senza preavviso, senza motivo, senza dargli modo di rispondere ad eventuali obiezioni, e, a quanto si apprende dalla stampa, senza neppure interpellare gli alleati di governo.
Ma a parte questo modo brutale di condurre la cosa pubblica, ci sono le due questioni più gravi che, come ho accennato, sono in gioco in questa triste vicenda.
La prima è l’autonomia della ricerca. La guida dei grandi enti di ricerca, così come quella di una grande agenzia spaziale, richiede una conoscenza approfondita del mondo della scienza e una sensibilità scientifica che permette di prendere le decisioni giuste, riconoscere i pareri affidabili, saper navigare fra le diverse opinioni degli scienziati, e questo può permetterlo solo una lunga pratica e familiarità con il mondo della scienza. La politica può e deve indicare obbiettivi a lungo termine e vigilare, ma se rimuove persone competenti solo perché sono state nominate da un governo di diverso colore politico, e pensa di lottizzare e occupare la ricerca come fa con la Rai, distrugge la scienza in Italia. Nessun governo precedente, a mia memoria, è stato così rapace nel mettere le mani sulla ricerca.
La seconda questione è l’idea tristissima di nominare un militare alla guida di un ente spaziale. Non conosco il militare di cui si fa il nome, e quindi per quello che ne so potrebbe essere persona onestissima e capace. Ma passare enti di ricerca da scienziati a militari a me fa venire in mente le peggiori dittature sudamericane. Certo un’Agenzia Spaziale gestisce anche questioni legate alla sicurezza e all’intelligence, ma la questione è proprio dove stiano le priorità. I militari sono e devono essere competenti per avere uno strumento di eventuale difesa del paese. Non sono certo competenti di scienza o di esplorazione e utilizzo dello spazio. Mettere un militare alla testa della nostra Agenzia Spaziale significa dare un segnale chiaro: il nostro obbiettivo è contribuire a militarizzare lo spazio. Alla militarizzazione del mondo. Vi è nel mondo intero uno sforzo comune e generoso di fare dello spazio un luogo per la crescita del sapere, della dimensione economica, e del benessere dell’umanità intera. Vogliamo che l’Italia sia il Paese che soffia più degli altri sul fuoco della militarizzazione dello spazio e della visione militare e guerresca della convivenza su questo pianeta? È questa l’Italia che vogliamo? Questa sarebbe una direzione di cui ci pentiremmo. L’Italia sia Paese di economia spaziale, di pace, di scienza, non Paese di guerra.

Repubblica 9.11.18
La ricerca e le risorse pubbliche
Scienza, non servono feudi dorati
di Elena Cattaneo


Nell’Italia della ricerca pubblica stremata dalla costante penuria di fondi, dal disinteresse e in questi giorni colpita da un improvvido spoils system, si stanno definendo i tasselli di Human Technopole ( HT), il progetto che assorbirà oltre un miliardo e mezzo di risorse pubbliche nei prossimi dieci anni. A settembre si è aperta la call per i direttori dei centri di ricerca della Fondazione HT e sono state definite alcune nomine spettanti al Consiglio di Sorveglianza, guidato dal Presidente Marco Simoni. Iain Mattaj, già direttore dello Embl, assumerà da gennaio tutti gli oneri e onori del ruolo di direttore della struttura dove operano già i primi ricercatori.
È il giro di boa: attraverso decisioni, nomi e ruoli si definiranno i binari su cui viaggerà HT in un futuro che interessa tutto il Paese. Fuori da Palazzo Italia, intanto, l’universo della ricerca pubblica, che non vede spiragli neanche nella legge di bilancio in discussione, guarda a quei mega- finanziamenti pubblici garantiti temendo una nuova competizione ad armi impari.
Nonostante l’inversione di rotta rispetto al piano originale e uno Statuto che bilancia responsabilità e funzioni, persistono importanti nodi da sciogliere in fretta e senza equivoci. L’infrastruttura di ricerca HT ha di fronte due strade. La prima, virtuosa, la porterà a costituirsi come ente trasparente al servizio del Paese. La seconda, viziosa, la renderà un nuovo “ ente- cittadella dorata della ricerca”, per pochi eletti ricercatori. Perché il modello virtuoso si affermi è necessario che HT si strutturi come hub a servizio della ricerca italiana, con lo scopo principale di sviluppare e aggiornare facilities e tecnologie avanzate a cui devono poter accedere le università, gli enti di ricerca e gli IRCCS italiani per sviluppare la parte tecnologica dei loro progetti.
Per realizzare questa missione, è importante definire — anche attraverso pubbliche consultazioni — le facilities e le tecnologie necessarie al Paese e chiarire le modalità con cui gli enti se ne potranno avvalere, ad esempio prevedendo partecipazioni congiunte ai prodotti scientifici e la possibilità, per ognuno, di mantenere la propria affiliazione. Un’ispirazione possibile, da approfondire e mutuare, è lo “Science for Life Laboratory” svedese: 40 facilities tecnologiche d’avanguardia sostenute dal governo con lo specifico obiettivo di “ alimentare” enti, ricercatori e progetti di tutta la Svezia. Su questo aspetto, per HT manca ad oggi ogni indicazione, anche se sembrerebbe paradossale l’idea di avere facilities ad uso esclusivo di HT, quasi si trattasse di un nuovo centro di ricerca a sé stante e di cui, come migliaia di studiosi in Italia sanno, il Paese non ha bisogno avendo già eccellenze e idee da far crescere.
La mission di hub della ricerca nazionale necessita di uno specifico stanziamento annuale dedicato. È da escludere, invece, la destinazione di somme ingenti per linee di ricerca interne, promosse senza la competizione nazionale necessaria a stabilirne il valore, e che “ replichino” ricerche già avviate e con prodotti che portano il Paese ai vertici della ricerca mondiale sulle scienze della vita, pur senza budget privilegiati. HT non dovrà fagocitare i risultati di questi ricercatori ma essere un “ contenitore” di tecnologie aperte a tutti che ne faciliti il lavoro. Questo sì, sarebbe rivoluzionario.
Nella stessa ottica è vitale chiarire che non si promuoveranno outstation di HT, cioè “ feudi dorati” infiltrati nei luoghi della ricerca nazionale che, forti di quella incredibile disponibilità di risorse targate HT, possano “ appropriarsi” di idee nate e sviluppate con fatica nei tanti centri della penisola.
È indubbio che per realizzare questi indispensabili elementi servirà tempo e — mi auguro — un’intensa consultazione pubblica sulle necessità scientifiche del Paese, ma è uno sforzo indispensabile per immettere linfa vitale in un sistema dissanguato. Quel che si chiede, dopo tutto, è la realizzazione di quanto scritto sul sito istituzionale di HT: « Human Technopole vuole essere un hub di riferimento nazionale per aumentare il valore delle università e dei centri di ricerca esistenti, (...) aiutando e rafforzando le connessioni già esistenti tra loro a livello locale » .
HT lasciato a sé stesso può diventare una sciagura per la ricerca pubblica del Paese. Può essere il “ colpo di grazia” che squilibra in modo irreversibile il sistema, anche dal punto di vista geografico, con un meccanismo che — accentrando le risorse pubbliche — crea sudditanza e comprime la libertà. Sta quindi al governo e ai ministeri fondatori, ma anche alla lungimiranza e alla responsabilità politica e pubblica di chi ha accettato cariche di vertice o negli organi di HT, scienziati compresi, la realizzazione di un disegno PER il sistema della ricerca del Paese. Spetta a tutti noi vigilare su questo “nuovo impero” in costruzione con risorse pubbliche, affinché un’improvvisata “ toppa glamour” ad una impellenza politica del 2015 si trasformi in un’opportunità per la riconosciuta eccellenza dei nostri ricercatori che, malgrado tutto, ancora ( r) esistono.

Repubblica 9.11.18
Eroe o vergogna nazionale le due guerre di Pétain
di Bernardo Valli


Francia, Macron riaccende le polemiche sul generale di Verdun e collaborazionista di Vichy
Il nome di Philippe Pétain spunta puntuale quando si evocano in Francia le due grandi guerre del secolo scorso. Era inevitabile che accadesse nel centenario della vittoria del 1918. L’ ambiguo fantasma del maresciallo, eroe e traditore, non è mancato all’appuntamento. E proteste e polemiche hanno investito Emmanuel Macron che come presidente celebra, nei luoghi in cui si è svolto, il conflitto che ha fatto milioni di morti. Il giovane presidente si è addentrato ingenuamente in quel capitolo di Storia che accende ancora passioni. Ha detto letteralmente: «Il maresciallo Pétain è stato durante la Prima guerra mondiale anche un grande soldato…». Ciò non toglie, ha aggiunto, che «abbia fatto scelte funeste durante la Seconda». Le proteste sono subito esplose. Rivolgendosi a Macron, l’esponente di sinistra Jean-Luc Mélenchon lo ha invitato a non usare la Storia come un giocattolo: «Pétain era un traditore e un antisemita». Ed è sullo stesso tono che si sono alzate tante altre proteste. Al punto che il portavoce del presidente si è affrettato a precisare che Philippe Pétain non farà parte dei marescialli di Francia di cui sarà celebrata la memoria, domani, nel santuario laico degli Invalidi. Invece di quattordici, i comandanti francesi onorati, saranno tredici. La salma di Pétain non si trova del resto a Parigi; è sepolta nell’isola d’Yeu, nella Vandea, dove ha passato gli ultimi anni in una fortezza dopo che la condanna a morte era stata mutata in ergastolo.
Prima di essere l’uomo che ha incarnato la collaborazione nel paese occupato dai nazisti nel 1940, Philippe Pétain è stato il generale, poi maresciallo di Francia, più popolare. Non solo era visto come il vincitore della battaglia di Verdun, nel 1916, ma anche il comandante che non mandava i suoi uomini allo sbaraglio, che si occupava delle loro condizioni di vita nelle trincee. Benché abbia poi rivelato idee tutt’altro che liberali, passava per un militare “umanista”. La fama di vecchio saggio, la sua figura quasi paterna, contribuirono a fare di lui l’uomo adatto a guidare la nazione nella disfatta. Aveva allora ottantaquattro anni.
L’esercito sconfitto era stato ridotto a centomila uomini, relegati nella zona Sud. La Francia “libera” era ridotta a due quinti del territorio. La zona “occupata” si stendeva a Nord di una linea Ginevra-Tours- Bordeaux, con una striscia lungo l’Atlantico che andava fino al confine spagnolo. Il paese doveva pagare all’occupante enormi indennità. I prigionieri francesi dovevano restare in Germania, impegnati in lavori abbandonati dai richiamati alle armi tedeschi, fino alla fine del conflitto. Di questo armistizio disastroso e umiliante (scrive lo storico Pierre Miquel) i francesi, con un certo sollievo, vedevano in particolare un aspetto: la smobilitazione immediata. In sostanza la fine della guerra.
Vedevano in Pétain un salvatore e un padre che diceva: «Nessuno riuscirà a dividere i francesi, in un momento in cui il paese soffre». E il 10 luglio riunì le due camere del Parlamento e chiese che gli venissero conferiti i pieni poteri. Era la fine della Terza Repubblica, votata da deputati e senatori.
Tutti meno ottanta, e in assenza dei comunisti messi fuori legge, prima dell’occupazione, in seguito al patto russo-tedesco Molotov-von Ribbentrop.
Philippe Pétain, con il voto del Parlamento, abolì la Repubblica e diventò il capo dello Stato francese. Che ebbe all’inizio l’appoggio della Chiesa cattolica, non più frustrata dalla laicità proclamata nel 1905 e ritornata in possesso di molti beni.
L’ annessione dell’Alsazia e della Lorena, non prevista dall’armistizio; le severe restrizioni imposte dai tedeschi nella zona occupata e il controllo su quella “libera”; le sanzioni contro gli ebrei, decise con la firma di Pétain (incalzato da Pierre Laval, il primo ministro, fucilato alla liberazione); e poi la loro deportazione nei campi di sterminio tedeschi, prima gli stranieri e poi i francesi; la pubblicizzata stretta di mano tra Pétain e Adolf Hitler a Montoire che equivalse alla dichiarazione di un’alleanza tra lo “Stato francese” e il Terzo Reich: questi avvenimenti hanno distrutto l’idea che l’astuto realismo del vecchio soldato di Verdun, nascondesse un “doppio gioco”. E che consentisse al governo installato a Vichy una certa indipendenza. Ma l’apparizione di Pétain dal palazzo dell’Hôtel de Ville, quando gli Alleati erano già alle porte di Parigi, richiamava ancora migliaia di persone. La convinzione che tra lui e il generale de Gaulle, un tempo suo subordinato, ci fosse una tacita intesa non è mai svanita del tutto.
Prima del giovane Emmanuel Macron, altri presidenti (de Gaulle, Chirac) hanno ricordato il “grande soldato” senza dimenticare il “traditore”, suscitando proteste. François Mitterrand, lo si è saputo molto tardi, faceva deporre un mazzo di fiori sulla sua tomba l’11 novembre, data dell’armistizio e della vittoria del 1918. Ma fu Jacques Chirac che nel 1995 denunciò le responsabilità dello “Stato francese” di Pétain, riconoscendo indirettamente che fosse esistita una Francia petenista, con un esercito, una burocrazia, con organizzazioni giovanili, e alleata degli occupanti tedeschi. Prima di Chirac, nessun presidente aveva parlato di quella Francia con tanta precisione. E questo avvenne in occasione dell’anniversario del rastrellamento del Velodromo d’Inverno, dove il 16 e 17 luglio 1942 furono raccolti dai francesi gli ebrei poi consegnati ai tedeschi.

Corriere 9.11.18
Leggi razziali, misfatto europeo


Le leggi razziali volute da Benito Mussolini, di cui ricorre in questo autunno l’ottantesimo anniversario, non possono essere considerate soltanto una scelta di carattere nazionale. Vanno inserite in un quadro geopolitico e culturale che vedeva crescere ovunque l’antisemitismo, accompagnato dal pretestuoso tentativo di trovargli una base scientifica attraverso teorie pseudobiologiche.
Vi è dunque la necessità di guardare alle drammatiche vicende del 1938 in una prospettiva internazionale, come quella che caratterizza il convegno in programma oggi a Milano (ore 15.30) presso il salone degli Affreschi della Società Umanitaria (via San Barnaba 48). L’incontro, organizzato dall’Associazione Romano Canosa per gli studi storici s’intitola Leggi razziali tra diritto e società.
Sono previste tre relazioni, due di carattere storico e una rivolta all’attualità. Marie-Anne Matard-Bonucci metterà a confronto la legislazione razziale del fascismo con quella adottata più tardi in Francia dal governo collaborazionista di Vichy. Alessandro Somma si soffermerà su analogie e differenze, in materia razziale, tra Italia e Terzo Reich. Ferruccio de Bortoli parlerà di uso e abuso della memoria al tempo dei social network. Coordina il dibattito Andrea Rapini.

https://spogli.blogspot.com/2018/11/il-manifesto-9.html