giovedì 8 novembre 2018

Il Fatto 8.11.18
Le “Metamorfosi” di Picasso: più che all’antica, alla rinfusa
La mostra in corso a Palazzo Reale indaga il rapporto tra lo spagnolo e la civiltà greco-romana: è molto ricca (soprattutto di opere provenienti dal Louvre), ma disordinata
di Filippomaria Pontani


Nel 2017 sono state contate oltre 40 mostre su Picasso nei musei importanti del mondo, e il 2018 ne annovererà almeno altrettante: una di queste è attualmente ospitata al Palazzo Reale di Milano (Picasso. Metamorfosi, fino al 17 marzo), e indaga il rapporto dello spagnolo con l’antichità greco-romana. Pur inserendosi nel solco di altre esposizioni di questo tenore (Andros 2004, Antibes e Malibu 2012, Philadelphia 2014, Münster 2017), questa rinuncia al criterio cronologico, e affronta singoli temi: il bacio, il mito di Arianna, il Minotauro e così via.
Picasso è sempre affascinante, e lo sforzo profuso è ingente. L’idea di fondo della curatrice Pascale Picard sta nel confronto diretto tra Picasso e l’arte antica, ovvero un confronto non mediato da alcun tipo di rielaborazione intermedia: con la sola eccezione del Bacio di Rodin, non vediamo né in originale né in riproduzione opere di altri autori, non Poussin, non Goya, non Ingres, non De Chirico – come se il contatto fosse sempre diretto e primigenio. Eppure la mediazione artistica dovette giocare un ruolo importante, se si considerano gli inizi accademici di Picasso a Barcellona, e se si pensa che egli non mise mai piede in Grecia: la mostra non dà purtroppo conto adeguato (giusto un paio di foto nella penultima sala, quando è ormai tardi) dell’unico contatto diretto – precoce e fondante – tra lo Spagnolo e un’area “antica”, ovvero il viaggio in Italia meridionale con Cocteau nel 1917 (Cocteau gli chiederà poi la scenografia per l’Antigone di Sofocle, con i costumi di Coco Chanel, ma anche di questo – come della Lisistrata di Aristofane del 1934 – qui si tace).
D’altra parte, la mostra insiste giustamente sul fatto che Picasso a Parigi frequentava la sezione d’arte classica del Louvre: e davvero pregevole e importante è l’afflusso di materiali da quel museo, sia in termini di sculture (alcune ragguardevoli: l’Arianna dormiente, il Satiro danzante) sia in termini di ceramiche greche. Ora, sorvoliamo sul fatto che spesso – in grazia del sullodato criterio tematico – in una sala si affastellano opere appartenenti a epoche molto diverse dell’attività di Picasso, con qualche disorientamento; c’è da chiedersi però se davvero alcuni accostamenti formali siano sostenibili: il Concerto campestre del 1959 avrà davvero bisogno del modello di una pelike del Louvre? In che modo la Donna seduta del 1920, tunicata all’antica, richiamerebbe specificamente una Tanagrina? E basta davvero che una donna abbia una brocca in testa per essere promossa a fonte diretta del dipinto Donne alla sorgente (1921)?
Tutt’altra valenza hanno invece gli accostamenti sicuri tra opere che si richiamano senz’altro: qui il vero pregio della mostra sta in un’ampia scelta dei vasi che Picasso realizzò negli anni 50 a Vallauris in Costa Azzurra, imitando senza ambagi temi e iconografia del mondo antico. Ma anche qui: una mostra si giudica in parte rilevante dalle didascalie che offre, e allora perché molte di queste sono quasi illeggibili per mera assenza di luce? Perché molto spesso si omette la provenienza dell’opera antica esposta (non si capisce nemmeno se un vaso o una statua sia greca, romana o iberica: qui il mondo iberico è singolarmente associato sul campo agli altri due)? Perché lo splendido confronto fra il vaso tripode picassiano del 1950 (Volti di donne) e il suo preciso modello, un vaso ritrovato in una necropoli cipriota del 2300 a.C. (dal Louvre), è rovinato nella didascalia dall’indicazione “Pittore di Monaco”, finita lì per un incomprensibile sbaglio (il “pittore di Monaco” è un ceramografo della fine del VI sec. a.C., che non ha nulla a che fare con Cipro)? Perché in un’altra sala si data il celebre Minotauro vaticano al “500-1000 d.C.” (è una scultura romana da un originale del V a.C.)? Perché sistematicamente si sbaglia la grafia dell’area ateniese del Dipylon (Dyplon, Dypilon et sim.: idem anche nell’audioguida)? Perché in una mostra intitolata Metamorfosi, e promossa da Skira, non si presenta nemmeno l’intero portfolio delle trenta tavole ad acquaforte sulle Metamorfosi di Ovidio realizzate nel 1931 proprio per Albert Skira (e delle 19 tavole esposte davvero non si dice nemmeno cosa rappresentino)? E perché si omette del tutto che Picasso realizzò la copertina del primo numero della benemerita rivista surrealista Minotaure (1933), edita proprio da Skira e dal greco Tériade, un crocevia decisivo per una certa ricezione dell’antico nel primo Novecento?
Con un piccolo sforzo, si poteva forse far meglio.