giovedì 8 novembre 2018


il manifesto 8.11.18
Heidegger e il complicato abisso dei «Quaderni neri»
Il libro di Eugenio Mazzarella, edito da Neri Pozza, indaga il rifiuto della storia del pensatore e il nodo del rapporto con il regime nazista
di Alberto Giovanni Biuso


Molto al di là del «teatro filosofico» e del marketing editoriale, Eugenio Mazzarella in Il mondo nell’abisso. Heidegger e i Quaderni neri (Neri Pozza, pp. 110, euro 12,50) delinea un itinerario dentro l’abisso heideggeriano. È un percorso che parte dalla chiara affermazione «che nessun interprete dotato di buon senso possa ritenere che sul terreno degli eventi o anche solo sull’ideologia del Reich – il nazismo e la sua politica, anche nei riguardi degli ebrei – Heidegger abbia avuto un qualche ruolo. Politicamente e ideologicamente (per lui biologismo e principio della razza saranno sempre pura volgarità filosofica), Heidegger per il regime nazista non contava niente già dal ’33, ammesso che avesse mai contato».
L’INTERESSE verso il nuovo movimento politico che si andava affermando in una Germania uscita distrutta dal primo conflitto mondiale affondava nella speranza di oltrepassare le secche del capitalismo anglosassone e della dittatura sovietica. Il disinganno fu pressoché immediato, l’esperienza del Rettorato a Friburgo fu assai breve e da allora Heidegger praticò «un disimpegno sempre più apocalittico, man mano che nell’inoltrarsi negli anni Trenta, negli scenari di politica internazionale della Germania nazista e poi nella guerra, diveniva sempre più chiara la deriva di mera potenza del Reich ‘millenario’». Anche il nazionalsocialismo gli apparve infatti come espressione del Gestell, della dimensione tecnica volta a fare del mondo e di ogni sua espressione uno strumento di mera potenza, di accumulo, di utile finanziario.
In Heidegger non c’è alcun antisemitismo ma vige un profondo anticristianesimo, che ha poi come conseguenza anche la critica al giudaismo, così come accade – in contesti e intenzioni naturalmente assai diversi – per il Voltaire del Dizionario filosofico. Ben al di là dei «diciannove passi un passo ogni cento pagine» che nei taccuini vengono dedicati all’ebraismo, Heidegger si pronuncia assai più di frequente nei confronti dei fondamenti del cristianesimo, come la sacralizzazione della vita e l’incarnazione del Dio.
DA QUI GERMINÒ e crebbe un atteggiamento di progressivo rifiuto della storia, che si declinò nelle forme dell’antiumanismo e di un vero e proprio abbuiamento gnostico che consegna la «gnosi esistenziale di Essere e tempo della privatezza dell’Esserci, della singolarità esistente, a una gnosi che si slarga e si inabissa, nel ‘politico’, perdendo insieme a sé il mondo che voleva ‘salvare’, portare ad un ‘nuovo inizio’».
La tesi di Mazzarella è che da tale abbuiamento Heidegger si sarebbe affrancato tramite la questione della tecnica, che a partire dagli anni Cinquanta rappresenta «una via d’uscita dal ‘buio ontologico’ degli anni Trenta e Quaranta», restituendo il pensare heideggeriano a una immersione nella storia, ai suoi elementi relativi e alla sua apertura a un divenire non segnato dal male.
È, questa, una ricostruzione dell’abisso heideggeriano di grande rigore e plausibilità, che si pone all’altezza nella quale sempre bisogna leggere Heidegger. Rimane aperta la questione dell’anticosmismo. Non è un caso che la critica radicale rivolta da Heidegger al paradigma antropocentrico costituisca uno dei fondamenti dell’ecologia profonda. Forse anche Heidegger, come gli gnostici antichi, osservando con occhi profondi il «kosmos», ne vede tutto il male e lo dice con parole implacabili ma sa anche intravederne l’enigma, la luce che la conoscenza produce.
DENSO, intricato e essenziale è il nodo che questo libro sa indagare, suggerendo ancora una volta che la filosofia – in Heidegger come in Eraclito, Platone, Aristotele, Spinoza, Nietzsche – è simile a una montagna, che ogni tanto degli umani cercano di scalare. Alcuni ben attrezzati arrivano alla cima, altri sono pieni di impegno ma non di strumenti e magari si fermano e tornano indietro, altri ancora pensano di aggredirla e finiscono con il precipitare.

La Stampa 8.11.18
Weimar 1918-2018
Cent’anni dopo la sindrome tedesca torna d’attualità
di Gian Enrico Rusconi

Anche la Germania festeggia il novembre 1918 - a suo modo. Ricorda la sua «rivoluzione democratica» del 9 novembre da cui è nata la prima repubblica tedesca. Questa passerà alla storia come la Germania di Weimar, dal nome della città dove viene elaborata la nuova Costituzione. Ma Weimar rimane nella memoria collettiva e nella storiografia come esperienza politica fallita: come il «fantasma di Weimar».
Nessuno poteva immaginare che anche oggi le difficoltà della situazione politica tedesca potessero rievocare quel fantasma. Dieci anni fa, in occasione del novantesimo anniversario della rivoluzione, era stato molto apprezzato un saggio intitolato Dalla democrazia improvvisata alla democrazia riuscita. «Improvvisata» era considerata la democrazia di Weimar, «riuscita» invece era quella della Bundesrepublik. Questa aveva accolto molti aspetti positivi (soprattutto di ordine sociale) della Costituzione weimariana, ma ne aveva corretti altri. Aveva ridotto drasticamente le competenze del presidente della Repubblica che a Weimar aveva di fatto portato a un regime presidenziale diventato poi (preterintenzionalmente) un regime totalitario; aveva introdotto la «sfiducia costruttiva» per evitare i pericoli della ingovernabilità; aveva imposto ai partiti la soglia di sbarramento del 5% per evitare la frammentazione partitica.
Ma l’iniziativa più importante è stata l’enunciazione di una serie di diritti fondamentali inalienabili che garantiscono l’intangilità stessa della sostanza democratica della Costituzione. Detto in termini più espliciti: nessuna maggioranza parlamentare può modificare i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. A questo scopo è stato istituito un organo di controllo effettivo della costituzionalità delle iniziative politiche partitiche: la Difesa della Costituzione (Verfassungsschutz).
Tutto ciò mancava a Weimar. I suoi nemici godevano della libertà democratica di distruggerla - in nome del «popolo» quale era interpretato dalla destra estrema e poi dal nazionalsocialismo.
Dobbiamo preoccuparci anche oggi? Perché gli organi per la Difesa della Costituzione hanno aumentato la loro attenzione verso i comportamenti di alcuni gruppi e movimenti di estrema destra, comprese alcune sezioni regionali della Alternative für Deutschland, il partito «populista di destra» che siede in Parlamento con il 12,6% ed è presente ormai in tutti i Parlamenti dei Länder? Mette in pericolo la democrazia? Si sta creando una sindrome Weimar?
È sbagliato equiparare senz’altro il «populismo di destra» di oggi con la destra razzista e antidemocratica degli anni Trenta, con il nazionalsocialismo. Anche se non mancano frange neonaziste, saluti hitleriani nelle manifestazioni pubbliche e soprattutto atteggiamenti e linguaggi völkisch, che sono il modo tipico tedesco di essere populisti radicali. L’ Alternative für Deutschland (AfD) non è la Nsdap (il partito nazista); tra i suoi leader non ci sono Führer carismatici o aspiranti tali. I vertici politici dell’AfD non sono «negazionisti». Eppure lamentano il «culto della colpa», che sarebbe stato imposto ai tedeschi dalla sinistra e dal liberalismo di sinistra per quanto è accaduto con il nazismo. A detta del leader della AfD, invece, il nazismo è stata semplicemente una «stronzata» (sic) rispetto alla lunga gloriosa storia tedesca.
Queste parole sono soltanto espressione dell’involgarimento del linguaggio pubblico o segnalano qualcosa di più insidioso? Nelle manifestazioni pubbliche dei movimenti affini alla AfD vengono urlate espressioni che risentono del vecchio linguaggio völkisch, diventato poi nazista, con particolare insistente denuncia della «stampa bugiarda» (Lügenpresse). Il rifiuto dei migranti assume toni ossessivi. Ogni migrante è visto virtualmente come un criminale e soprattutto non integrabile. La presenza di massa di migranti (soprattutto di fede islamica) mette a repentaglio la cultura e l’integrità della popolo tedesco.
L’assoluta centralità del concetto di popolo-Volk, miticamente elevato a criterio di omogeneità etno-culturale, pretende unanimità dei consensi. Chi non è d’accordo in nome di quello che è diffamato come «astratto universalismo» o «impossibile multiculturalismo», è nemico del popolo.
«Noi siamo il popolo» è lo slogan che ha caratterizzato la «rivoluzione pacifica» del 1989 nella ex Ddr comunista. Ora viene usato contro il governo democratico e in generale contro il sistema dei partiti esistenti. Ci sono tutti i motivi perché gli organi della Difesa della Costituzione siano in allerta. Ma probabilmente all’orizzonte non c’è una fine della democrazia in stile Weimar, ma una variante non meno insidiosa per la quale è già pronto il nome, sulla base di alcune esperienze che abbiamo sotto i nostri occhi: una democrazia illiberale.

Repubblica 8.11.18
Ronald Inglehart "La teoria darwiniana di ogni populismo"
di Giancarlo Bosetti


"I valori e i comportamenti umani sono modellati dalla misura in cui la sopravvivenza è garantita". Il sociologo americano, che ha intercettato per primo i grandi cambiamenti progressisti, analizza la controrivoluzione
Intervista di
Ivalori e i comportamenti degli esseri umani sono modellati dalla misura in cui la loro sopravvivenza è sicura».
L’incipit darwiniano (l’evoluzione) e hobbesiano (la paura che scatena il bisogno dell’autorità) dell’ultimo libro di Ronald Inglehart ( Cultural Evolution. People’s Motivations are Changing and Reshaping the World, Cambridge 2018) riflette l’esperienza di cinquant’anni di indagini condotte su scala globale. Il grande sociologo americano ha creato la rete mondiale del World Values Survey, un istituto di analisi che nel tempo, lavorando su 80 paesi del mondo che coprono l’85% della popolazione mondiale, ha dato conto del cambiamento dei valori morali, religiosi, socioculturali e della connessione tra questi e la politica e l’economia. Il lavoro di questo studioso di 83 anni disseziona le tendenze nel mutamento dei valori scrutando i percorsi che portano, per esempio, nella storia all’insorgere sia dei movimenti LGBTQ sia del populismo xenofobo. I suoi lavori precedenti hanno scoperto come dagli anni Settanta e Ottanta si sia affermata, con la sostituzione generazionale, la supremazia dei valori post-materiali su quelli materiali.
Negli ultimi anni è avvenuto però un colpo di scena, che ha rovesciato quella «rivoluzione silenziosa» nel suo opposto, con vaste conseguenze sulla divisione delle parti in società tra destra e sinistra, di cui qui gli chiediamo conto.
Quali sono i criteri per distinguere preferenze materialiste e postmaterialiste?
«Nella nostra indagine sugli Stati Uniti del 2017 abbiamo chiesto di rispondere a sei domande circa la scelta da fare tra gli obiettivi più importanti per il bene del loro paese e possiamo definire "materialisti" quelli che scelgono la crescita economica, la lotta al carovita, l’ordine pubblico, il pugno duro contro la criminalità e postmaterialisti quelli che danno priorità alla libertà di espressione, alla partecipazione politica, a una maggiore autonomia nel loro lavoro, all’autoaffermazione, all’ambiente, alla libertà di scelta sessuale. Già nel 2012, seconde presidenziali vinte da Obama, tra i "materialisti" c’era una certa prevalenza del voto per il repubblicano Romney e tra i "postmaterialisti" una predilezione per Obama, ma questa differenza è cresciuta poi in modo spettacolare: tra i "materialisti" quasi 4 volte più probabile il voto per Trump, tra i postmaterialisti 14 volte più probabile il voto per la Clinton».
Prima di questo "spettacolare" cambiamento lei aveva individuato una tendenza simile in tutte le società a economia avanzata e ne ha ricavato una teoria a cui applica il concetto di evoluzione. Può sintetizzarla?
«Il sentimento che la sopravvivenza propria e della propria prole sia diventata insicura conduce a rafforzare la solidarietà etnocentrica contro gli outsider e la solidarietà interna a sostegno di leader autoritari. Per la maggior parte della propria esistenza le condizioni di scarsità estrema hanno spinto a serrare i ranghi nella battaglia per sopravvivere.
L’evoluzione ha sviluppato un "riflesso autoritario" per il quale la insicurezza innesca il sostegno a leader forti, rifiuto degli altri, rigido conformismo. E all’opposto alti livelli di sicurezza aprono spazi alla libera scelta individuale e a maggiore apertura verso outsider e nuove idee».
La forza della democrazia dipende dalla sicurezza della sopravvivenza ed è esposta a rischi se quella sicurezza vacilla?
«Oggi è in corso un’autentica sfida per la democrazia, che si è finora diffusa a un gran numero di paesi.
Le condizioni di insicurezza portano la gente a desiderare l’uomo forte al potere che la protegga da stranieri pericolosi, ma questa tendenza xenofobico-autoritaria non è un trend globale, riguarda le società industriali avanzate, l’Europa e il Nordamerica. È qui dove è più forte. Non riguarda la Cina, che non conosce una grande ondata di xenofobia, e neppure l’India, che ha seri problemi ma diversi».
Eppure, non abbiamo un collasso economico in Europa e negli Stati Uniti, c’è ancora una ricchezza molto maggiore che nel resto del mondo.
«È vero che non abbiamo la Grande Depressione, ma la cosa determinante non è il tasso di crescita, ma il fatto che esso stia raggiungendo un punto in cui non è più vero che ciascuno possa assumere la sopravvivenza come un dato garantito, mentre la crescente prosperità è quel che sta plasmando Cina e India. Paesi come l’Italia, la Svezia, la Germania e gli Stati Uniti hanno bisogno di una soluzione politica del loro problema, di qualcosa paragonabile alla drastica svolta degli anni Trenta quando grandi risorse sono state riallocate per creare posti di lavoro sicuri».
Se la situazione è così chiara, se il trend populista dipende da questa insicurezza, come spiega che i leader democratici non abbiano saputo rispondere e che riescano a farlo solo leader estremisti e populisti?
«Perché i primi erano fiduciosi che le cose andassero bene. E sembravano davvero andar bene per gli strati più garantiti della popolazione, inizialmente per i due terzi, poi per la metà più in alto, ma alla fine solo per il dieci per cento in cima. I liberal, i progressisti, la parte della popolazione più istruita e più garantita, danno per scontata la sicurezza elementare della propria esistenza e tendono a rimuovere la xenofobia come il vizio di una parte arretrata, ignorante, stupida della popolazione. Non sono consapevoli della necessità di correzioni radicali alle politiche liberali standard degli ultimi due decenni. Bisogna riconoscere invece che ci vogliono nuove soluzioni e un ruolo del governo che nessuno dei leader liberali ha finora concepito».
Alla Bernie Sanders?
«Anche lui ha sbagliato la diagnosi della situazione, ma credo che sul ruolo redistributivo del governo abbia colto un punto».
Le opposizioni al populismo faticano a riorganizzarsi e a riprendere in mano l’agenda.
Poche eccezioni, ma non è ancora cominciata una vera reazione.
«Direi che ora è suonata la sveglia. I cambiamenti radicali non avvengono fino a che non c’è uno shock, fino a che non ti gettano nell’acqua fredda o non ti prendono a schiaffi. I partiti xenofobi costringono a guardare una genuina serie di problemi: il primo è quello della crescente ineguaglianza, ma c’è anche l’immigrazione che va gestita meglio. I leader politici tendono a seguire il tracciato della minor resistenza fino a che non prendono una vera grande legnata».
Il problema migrazioni. Tutto sembra decidersi lì in Europa e negli Stati Uniti. Ed è qualcosa che durerà nel tempo, con l’aggravante in Europa dell’invecchiamento.
«L’ineguaglianza geografica è il maggiore problema di lungo termine. Paesi ricchi e paesi poveri vicini e con comunicazioni molto più facili di un tempo. Il risultato è che abbiamo livelli di emigrazione senza precedenti. Gli Stati Uniti hanno ora più gente che parla spagnolo della stessa Spagna.
Qualcosa che cambia la faccia degli Stati Uniti. Nessuna società è capace di reggere una immigrazione illimitata. La Svezia, per esempio, che ha una lunga e solida tradizione liberale e tollerante, ora con il 18% di immigrati etnicamente diversi ha dato luogo a un movimento xenofobo. Così in Danimarca, Norvegia e Olanda. Il punto è che abbiamo una capacità limitata di assorbire immigrazione prima di scatenare una reazione xenofoba che può essere molto dannosa e distruttiva».
Ora la legnata è arrivata, in America con Trump e in buona parte d’Europa.
«Ora nel mondo sviluppato siamo consapevoli che c’è qualcosa di sbagliato nella vita politica, ma siamo ancora nella fase in cui ci si chiede "che cosa è?". Abbiamo seminari come questo che fate a Milano che cercano di rispondere e stiamo comprendendo che non si tratta di qualcosa di piccolo e temporaneo, ma di qualcosa che richiede un fondamentale riorientamento del governo e che le vecchie politiche liberal non sono adeguate a tirarci fuori da qui».

il manifesto 8.11.18
Non Una Di Meno, il 24 novembre corteo nazionale a Roma
Verso lo sciopero globale dell'8 marzo 2019. Da Bari a Palermo, da Milano a Napoli: tutte le piazze contro il Ddl Pillon convocate sabato 10 novembre. La rivendicazione del reddito di autodeterminazione contro la proposta leghista della "terra gratis in cambio del terzo figlio"
di Madi Ferrucci


ROMA In tutte le città di Italia sabato 10 novembre «Non una di meno» e la rete dei centri anti-violenza manifesteranno insieme contro il disegno di legge Pillon. A Bari il movimento organizza un’assemblea pubblica alle ore 17 in Piazza della Madonnella. A Napoli si scende in piazza San Domenico alle 18, 30 con al seguito una passeggiata serale transfemminista per le strade della città. In Emilia Romagna, a Bologna, presidio in Piazza Re Enzo con la Casa delle donne, mentre il corteo inizierà alle 17.30 diretto verso Piazza Indipendenza. Anche in Toscana, a Pisa ci si riunisce in piazza Vittorio alle 16 per poi continuare col corteo lungo il corso. Per Firenze, invece l’appuntamento è alle ore 10 in Piazza dei Ciompi. Al Nord si uniscono alla manifestazione Milano, Torino, ore 13, in Piazza della Repubblica e Venezia, Campo San Giacometo di Rialto, ore 11.30. Nella capitale romana la partenza della manifestazione è in Piazza Madonna di Loreto, ore 11; per l’occasione le attiviste si vestiranno da ancelle, con una tunica rossa e una cuffia bianca: “simbolo del potere politico, clericale ed economico che tenta di allungare le mani sulle nostre vite”. (L’elenco completo delle piazze è qui)
Lo «stato di agitazione permanente» dichiarato dal movimento femminista lo scorso 5 ottobre a Bologna durante l’assemblea nazionale è contro la riforma della mediazione familiare che impone una figura terza responsabile di contrattare la relazione dei genitori col bambino; e la proposta di un assegno di mantenimento diretto al figlio che indebolirebbe le tutele dell’altro coniuge. Il Ddl Pillon è basato su«un modello di società fondato sulla famiglia patriarcale e assicurarla attraverso l’intervento dello Stato, attaccando direttamente l’autodeterminazione delle donne che la mettono in questione».
Quello di sabato 10 novembre è il primo passo di un percorso in vista della manifestazione nazionale del 24 novembre e dello sciopero femminista globale dell’8 marzo 2019. Nel testo di convocazione della mobilitazione sono esplicitati gli altri punti nell’agenda del movimento. In primo luogo viene rivendicato “un reddito di autodeterminazione, universale e individuale,un salario minimo europeo, welfare universale e servizi”. Il reddito di autodeterminazione è considerato l’antitesi alla famigerata proposta della Lega sulla “terra gratis in cambio del terzo figlio”.
La proposta del reddito è contenuta nel «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne»: «Garantisce un aiuto concreto che permetta una più veloce fuoriuscita dalla violenza e/o un’efficace prevenzione del rischio di recidiva di maltrattamenti» si legge nel «piano». Il reddito è considerato uno degli strumenti per liberare le donne dallo stato di «”vittimità” e dipendenza e per porre al centro la riaffermazione della loro autonomia».

La Stampa 8.11.18
La Camera ai democratici
“È pronto l’impeachment”
La sinistra vuole sfruttare l’inchiesta sui rapporti del presidente con Mosca
di Paolo Mastrolilli


Investigare, legiferare, o fare un misto delle due cose. È il dilemma che devono sciogliere i democratici, per decidere la strategia da adottare nei prossimi due anni, con cui lanciare la corsa alla Casa Bianca nel 2020. Nelle dichiarazioni ufficiali, la probabile speaker della Camera Nancy Pelosi ha offerto la collaborazione bipartisan a Trump, per realizzare obiettivi comuni concreti nell’interesse dei cittadini. Una fonte interna al Partito democratico però ci rivela: «Diversi deputati stanno già preparando la richiesta per l’impeachment, e la presenteranno appena entreranno in carica».
La conquista della Camera consente all’opposizione di bloccare l’agenda del presidente, presentare la propria, e usare il potere di inchiesta delle commissioni per paralizzare l’amministrazione. Legiferare e realizzare obiettivi condivisi sarebbe la scelta più responsabile, ma non è detto che pagherebbe alle urne nel 2020. Investigare e ostruire sarebbe la reazione istintiva naturale, ma Trump già minaccia di usarla per costruirci su la sua campagna di rielezione, accusando i democratici di aver paralizzato gli Usa.
Pelosi ha indicato di voler seguire entrambe le strade. Ha detto che il suo partito ha già pronte diverse proposte di legge, alcune finalizzate all’approvazione collaborando con i repubblicani, e altre pensate per marcare il territorio. Tra le prime c’è un piano per ricostruire le infrastrutture, creando lavoro e crescita, mentre si ammoderna il paese. Poi c’è un’iniziativa per abbassare i prezzi delle medicine. Su questi due punti Trump è d’accordo, e quindi potrebbero procedere. Altri progetti di legge riguardano la protezione dei «dreamers», cioè gli immigrati illegali portati negli Usa dai genitori quando erano minorenni; la difesa della riforma sanitaria Obamacare; e l’aumento del salario minimo. Questi sono provvedimenti che serviranno ai democratici soprattutto per marcare il territorio e inviare segnali al proprio elettorato, perché il Gop e il presidente li bloccheranno. Trump invece ha sollecitato di lavorare insieme per un taglio alle tasse finalizzato ad aiutare la classe media, ma in cambio dovrebbe fare concessioni, e certamente non avrà i fondi per costruire il muro.
Pelosi ha detto anche che la conquista della Camera consentirà di ristabilire i «checks and balances» del governo, ossia i controlli sull’amministrazione che i repubblicani hanno evitato per due anni. Assumendo la presidenza delle commissioni, i democratici avranno il potere di aprire inchieste e obbligare i membri dell’esecutivo a testimoniare.
Tra i temi probabili ci sono la richiesta di vedere la dichiarazione dei redditi di Trump, il Russiagate, il licenziamento del capo dell’Fbi Comey, la decisione di separare i migranti bambini dai genitori, l’uso delle mail private e dei cellulari, l’intreccio fra gli interessi personali del presidente e della sua famiglia con quelli del governo. Il capo della Casa Bianca ha già avvertito che se scatteranno queste inchieste lui smetterà di collaborare, e chiederà al Senato di lanciarne altre contro i democratici.
Sullo sfondo, poi, c’è la questione Russiagate e impeachment, complicata dalle dimissioni del ministro alla Giustizia Sessions, il cui successore potrebbe cacciare il procuratore Mueller. Pelosi e i leader democratici finora sono stati prudenti su questo punto, perché sapevano che avrebbe incendiato gli animi della base trumpista, e perché ricordano come l’incriminazione di Clinton aveva finito per aiutarlo politicamente. Il licenziamento di Sessions però precipita la situazione.
Un operativo del Partito democratico, che ha lavorato personalmente al finanziamento delle campagne di diversi candidati vincenti contro i deputati repubblicani, ci ha spiegato così la strategia: «Le dichiarazioni sulla collaborazione bipartisan sono chiacchiere dovute, ma gli atti del presidente dimostrano già oggi che sarà impossibile. Ci attendono due anni di guerra, e aspettate di vedere il rapporto di Mueller».
La linea ufficiale era che i democratici volevano leggere il contenuto dell’inchiesta, prima di decidere se avviare la procedura per l’incriminazione, ma il nuovo segretario alla Giustizia potrebbe cacciare il procuratore speciale prima ancora di vedere il suo rapporto. «Io so per certo - conclude la nostra fonte - che alcuni deputati hanno già scritto la richiesta di impeachment, e la presenteranno appena si insedieranno».

La Stampa 8.11.18
Cento donne sui banchi del Congresso per innovare l’agenda politica dell’America
di Francesco Semprini


La prima donna nativa americana eletta in Congresso, le prime due di fede musulmana ad occupare un seggio alla Camera dei rappresentanti, la prima donna a rappresentare Tennessee e Arizona al Senato degli Stati Uniti, la prima governatrice della storia del South Dakota, la prima deputata sotto i 30 anni a salire la scalinata di Capitol Hill.
È senza dubbio il «voto delle prime volte» quello che ha segnato le sorti delle elezioni di metà mandato del 2018, con la riconquista da parte democratica della maggioranza alla Camera ma non al Senato. Prime e primati sono stati il filo conduttore di questa tornata elettorale che rappresentava, prima di tutto, un referendum sull’operato di Donald Trump. E proprio perché modulato attorno alla figura del presidente degli Stati Uniti l’esito del voto ha assunto le sembianze di un cambiamento forte (simile a quello registrato su fronte del Grand Old Party in Usa 2016), destinato a mutare lo stesso Dna della politica a partire dal partito democratico. Un cambiamento che ha il volto di donna e il carattere della diversità.
Erano 272 le donne che correvano per Camera, Senato e governi degli Stati, che sommate ai 138 tra uomini appartenenti a minoranze razziali e candidati apertamente caratterizzati da differenze di genere (Lgbt), porta a 410 l’esercito della diversità che ha contagiato il Midterm. Le deputate elette sono ad ora 84 per i democratici e 14 per i repubblicani su un totale di almeno 98, che polverizza il precedente record di 85 unità.
Svolta storica
Il numero complessivo di donne a costituire la 116ª legislatura è destinato a battere il precedente record di 107 unità, e segna un passaggio storico di portata simile al 1992, anno in cui raddoppiò la rappresentanza femminile a Capitol Hill. Del resto già alle primarie dei due rami del Congresso le candidate in corsa erano 256, di cui 59 repubblicane e 197 democratiche. Un’onda che ha il volto di Alexandria Ocasio-Cortez, nata nel Bronx 29 anni fa, la donna più giovane eletta a Capitol Hill, icona dei democratici scontenti, spesso donne e minoranze, che cercano di spingere il partito a sinistra.
Rashida Tlaib, figlia di immigrati dalla Palestina, è la prima donna musulmana ad essere eletta al Congresso, nel suo distretto per la Camera in Michigan. Come Ilhan Omar, anche lei musulmana ma di origini somale, vincitrice in Minnesota. Ha trascorso quattro anni in un campo rifugiati in Kenya prima di giungere negli Stati Uniti, e per la sua storia ha conquistato la copertina di «Time». Sarà la prima rifugiata africana al Congresso e la prima deputata a indossare l’hijab, il copricapo tipico. Sempre per la Camera in Kansas ha vinto Sharice Davids, in New Mexico invece Debra Haaland, entrambe native americane, le prime a sedere al Congresso. Davids è membro della Grande nazione Ho-Chunk Nation, ex combattente di arti marziali, ed è stata cresciuta solo dalla mamma. Il suo è un doppio primato visto che è la prima donna dichiaratamente gay ad essere eletta. Un altro alfiere della diversità di genere è il democratico Jared Polis, vincitore in Colorado e primo governatore dichiaratamente omosessuale. La repubblicana Marsha Blackburn è la prima donna senatore del Tennessee, mentre l’Arizona avrà la sua prima senatrice in assoluto, chiunque vinca tra la democratica Kyrsten Sinema e la repubblicana Martha McSally, impegnate in un confronto al fotofinish.
Il nuovo «movimento»
Il Texas invia la prima ispanica al Congresso, è la deputata Veronica Escobar, mentre la repubblicana Kristi Noem è la prima governatrice donna del South Dakota. L’onda delle donne conquista Washington e fa così da apripista alla diversità prendendo le sembianze di un movimento, più che di un partito politico, che poco ha a che fare con i vecchi volti dell’establishment democratico come Nancy Pelosi o ancor più Hillary Clinton. Una diversità che marcia su binari progressisti tanto quanto su piattaforme moderate. E che pertanto esige figure nuove per essere codificata e guidata al 2020. Un movimento che viene visto con interesse anche a destra come conferma il leader della maggioranza Gop al Senato, Mitch McConnell: «Dobbiamo lavorare meglio per reclutare donne, candidarle e farle eleggere».

il manifesto 8.11.18
L’onda rosa nelle fila democratiche che promette di cambiare il paese
L'invasione. Mai cosí tante donne si erano candidate, e mai cosí tante donne avevano vinto. Per la prima volta si tratta di un numero record: tra Camera e Senato a Capitol Hill il prossimo gennaio arriveranno 110 neo elette
di Marina Catucci


NEW YORK Non ci sará stata l’onda blu o l’onda rossa, ma di sicuro gli Usa in questo voto di midterm hanno avuto un’onda rosa. Mai cosí tante donne si erano candidate, e mai cosí tante donne avevano vinto; per la prima volta il numero record di donne che arriverà a Capitol Hill sarà di almeno 110 neo elette che entreranno al Senato e alla Camera dei Rappresentanti il prossimo gennaio.
UN NUMERO MAI VISTO, ma che tuttavia rappresenta solo il 20% del Congresso, dove le donne sono ancora sottorappresentate, nonostante comprendano oltre il 50% degli elettori. Eppure questo è un progresso, considerando, per dire, che la percentuale delle donne Ceo in Usa si aggira attorno al 5%.
SE C’È UNA CLASSE DI POLITICI decisa ad attuare un cambiamento negli Usa, quest’anno sono le donne. L’ondata di donne entrate direttamente in politica, in prima persona e non come attiviste a sostegno di altri candidati, è stata attribuita alla profonda frustrazione delle donne derivata dalle elezioni del 2016, e dal motore propulsivo che sono stati i movimenti #MeToo e TimesUp.
La Marcia delle donne e le successive proteste sono state focalizzate (anche se non erano e non sono limitate a questo) sulla perdita di diritti delle donne, sulle preoccupazioni per l’aborto o su come vengono trattate le accuse di molestie sessuali.
SECONDO IL CENTRO per donne e politica americane della facoltá di Scienze politiche di Rutgers Eagleton, New Jersey, le donne hanno portato nel loro impegno politico le ragioni del loro sdegno, che vanno al di là delle rivendicazioni di genere; Trump è stato il motore di questo impegno, certo, ma il campo in cui questo sdegno si è poi tramutato in azione, ricopre un ventaglio molto ampio, come nel caso dell’eletta dello Stato di Washington, Kim Schrier: un medico pediatra la cui campagna e impegno si sono concentrati sull’accesso all’assistenza sanitaria, tema, questo, che è stato uno dei principali messaggi dei democratici in queste elezioni.
Dopo una battaglia tesissima con il rivale repubblicano, in politica da due decenni, Schrier ha vinto la corsa per il seggio nell’ottavo distretto di Seattle, da sempre controllato dal Gop. «Non penso ci sia nulla di radicale nel voler che le persone in questo Paese possano avere l’assistenza sanitaria», ha detto Schrier. E questa calma sicurezza nei propri programmi è stata un po’ la cifra delle candidate di questo midterm.
«Io non sono un personaggio particolarmente carismatico – ci ha detto la socialista Julia Salazar, eletta al Senato di New York – ma ciò che mi ha guidato sono le idee in cui credo. Idee socialiste riguardo il diritto alla copertura sanitaria, all’istruzione, ad un salario minimo adeguato. Quello che spero è che molte altre giovani donne socialiste siano ispirate da me, e corrano tra due anni».
STORICA ANCHE L’ELEZIONE di Veronica Escobar e Sylvia Garcia, prime donne di origine latinoamericana a rappresentare il Texas alla Camera, nonostante lo Stato abbia una popolazione ispanica vicina al 40%.
Anche donne native americane sono arrivate al Congresso sempre nelle fila democratiche più di sinistra: Deb Haaland del New México e Sharice Davids del Kansas.
Rashida Tlaib del Michigan e Ilhan Omar del Minnesota sono le prime donne musulmane ad arrivare a Capitol Hill. Tlaib, twittando a proposito dei commenti stizziti di Trump a chi lo interrogava sulla bellezza dell’America multiculturale, ha scritto: «Se pensate che Trump sia pazzo di rabbia ora, aspettate che Fox e Friends inizino a parlare di me e Ilhan Omar. Non puoi cacciarci dal Congresso!».

La Stampa 8.11.18
Laboratorio di opposte rivoluzioni
di Maurizio Molinari

I democratici conquistano la Camera dei Rappresentanti, i repubblicani rafforzano il controllo del Senato e l’America dimostra di essere una grande democrazia in grado anche di coesistere con l’ondata populista del XXI secolo, frutto della rivolta del ceto medio innescata dalle ferite della globalizzazione.
Ai democratici di Nancy Pelosi non riesce l’«Onda Blu» che si proponeva di espugnare l’intero Congresso di Washington per riscattare l’umiliazione presidenziale subita da Hillary Clinton nel 2016, ma grazie ad una generazione di nuovi candidati - con in prima fila le donne del #metoo - e ad una campagna nel segno del rispetto dei diritti, di ogni genere, riesce a dimostrare che il movimento di Donald Trump non è imbattibile. Lo scontro per la Camera, combattuto con un’affluenza record e sfide nei distretti spesso all’ultimo voto, consegna ai democratici una vittoria che dà ragione a Steve Bannon, l’ideologo di Trump nella campagna del 2016, quando lo scorso anno previde che il più temibile avversario dei repubblicani sarebbe venuto da «un’altra rivoluzione»: pari per energia, ma opposta nei contenuti. E ciò dimostra che l’America, la prima democrazia guidata da un leader populista, a 24 mesi di distanza ha generato già il suo possibile antidoto: per battere la paura dei dimenticati bisogna puntare sui diritti di chi non li ha.
Dalle donne vittime degli abusi ai minori bersagliati dalle violenze a mano armata fino ai migranti che anelano l’American Dream oggi come fu nel 1620 per i pellegrini a bordo del vascello «Mayflower».
Ma è altrettanto vero che i repubblicani hanno consolidato il controllo del Senato grazie a seggi conquistati da candidati espressione diretta del pensiero e delle politiche del presidente Trump, dimostrando che sul fronte conservatore la trasformazione del partito repubblicano sta accelerando verso l’identificazione con il movimento di protesta del ceto medio, bisognoso di protezione, che si affermò per la prima volta nel voto di Midterm 2010 con i «Tea Party» che umiliarono i democratici e poi vinse a sorpresa la Casa Bianca nel 2016. E ciò prova che l’America resta anche il laboratorio avanzato del populismo contemporaneo, che si nutre delle diseguaglianze economiche, del timore per i migranti e della necessità di sentirsi protetti da pericoli che non venivano neanche percepiti nel secolo scorso. Per questo Trump ha fatto campagna - e con successo - nelle ultime settimane indicando l’avversario in una carovana di migranti in arrivo dall’Istmo senza puntare troppo sui risultati di un’economia che corre ad alta velocità.
La somma fra la capacità di elaborare una risposta al populismo d’Occidente e di esprimere al tempo stesso un consolidamento dello stesso fenomeno ribadisce come l’America rimanga il più vivace, vibrante ed imprevedibile laboratorio delle democrazie avanzate. Ciò è possibile grazie alle caratteristiche di una nazione-continente con oltre trecento milioni di anime diverse in tutto tranne che nel riconoscersi in un’Unione federale basata sulla Costituzione scritta dai Padri Fondatori in maniera tale da renderne possibile l’adattamento ai cambiamenti della Storia. Quel testo così fermo sui principi di libertà e così flessibile di fronte all’impatto degli eventi resta il segreto della vitalità della democrazia a stelle e strisce. Che appartiene, per definizione, ad ogni cittadino del mondo libero e dunque può offrire idee, spunti e invenzioni a chiunque vorrà farle proprie. Per un’Europa alle prese con il populismo anti-establishment ciò significa sapere che non si tratta della fine del mondo, ma solo di una stagione politica, che può contribuire a rinnovare nazioni e governi. A patto che i cittadini condividano valori comuni.
Da qui le conseguenze di uno degli Election Day più combattuti: per l’America inizia subito la corsa verso le presidenziali del 2020 dove avremo la resa dei conti fra le opposte rivoluzioni in corso mentre per le altre democrazie Washington diventa l’orizzonte verso cui guardare in cerca di ricette per battere o consolidare il populismo dei nostri tempi.

il manifesto 8.11.18
Palestinesi in festa, eletta al Congresso Rashida Tlaib
Elezioni Usa. Entusiamo a Beit Ur al Fouka, il villaggio d'origine della neo parlamentare che assieme a Ilham Omar forma la coppia delle prime donne musulman nel Congresso
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Siamo felici per la nostra famiglia e per Beit Ur al Fouka. Dio darà a Rashida la forza per svolgere bene il suo compito. E’ una donna forte e coraggiosa, non ha esitato ad attaccare frontalmente Trump». Bassam Tlaib ieri, rispondendo alle nostre domande, non riusciva a contenere la gioia per l’elezione alla Camera dei Rappresentanti Usa di sua nipote, Rashida Tlaib, che assieme a Ilham Omar, di origine somala, forma la coppia delle prime donne musulmane che entreranno nel Congresso. «Siamo stati in contatto con Rashida in questi giorni, è molto felice. A gennaio, quando si insedierà ufficialmente, faremo una grande festa nel villaggio e speriamo di rivederla al più presto». Le elezioni americane di medio termine hanno portato una buona notizia alla piccola comunità di Beit Ur al Fauka, meno di mille persone, e l’opportunità per una rivincita sul più famoso villaggio gemello, Beit Ur a Tahta, dove a distanza di 40 anni gli abitanti si vantano ancora di essere stati determinanti per la conversione all’Islam di Cat Stevens. La speranza di Bassam Tlaib è che sua nipote, oltre a svolgere il suo mandato al servizio dei cittadini americani, porti al Congresso la voce della Palestina e quella del villaggio colpito dalle politiche di Israele. Situato ad ovest di Ramallah a ridosso della “linea verde” tra Israele e Cisgiordania, Beit Ur al Fouka ha subito dopo il 1967 la confisca di molte terre.
Grazie al successo di alcuni dei candidati proposti dai Democratici, il Congresso è l’immagine, molto più che in passato, della composizione sociale attuale degli Stati uniti. E le musulmane Ilhan Omar e Rashida Tlaib, assieme alla giovane di origine portoricana Alexandria Ocasio-Cortez, incarnano questo cambiamento. «Abbiamo cambiato il corso della storia in un momento in cui pensavamo fosse impossibile. Se continuerai a crederci, allora crederai sempre nelle possibilità di qualcuno come me», ha dichiarato Tlaib alla Cbs mostrandosi consapevole della svolta rappresentata dalla sua vittoria elettorale. In Israele invece le cose si guardano con occhi ben diversi. Il Congresso resta saldamente pro-israeliano ma da gennaio si potranno ascoltare al suo interno voci diverse sul Medio oriente e la questione palestinese. La cosa non preoccupa più di tanto il governo Netanyahu – forte anche dell’alleanza di ferro con Donald Trump – ma in casa israeliana si pensa alle elezioni future che potrebbero portare nel Senato e nella Camera degli Usa molti più parlamentari che la pensano come Tlaib. La neo parlamentare di recente è passata dal sostegno alla soluzione a Due Stati (Israele e Palestina) a quella per lo Stato unico democratico per ebrei e palestinesi, perdendo così l’appoggio di J Street, un’organizzazione ebraica progressista ma ancorata ai Due Stati. Tlaib peraltro vede con favore il taglio degli aiuti militari statunitensi a Israele. L’altra parlamentare musulmana eletta Ilham Omar, nata in Somalia ed eletta in Minnesota, riconosce il diritto dello Stato ebraico di esistere ma descrive Israele come un «regime di apartheid» colpevole di «azioni malvagie».
Il media israeliani ieri davano un certo risalto anche lo spoglio delle schede elettorali nel distretto di San Diego dove il repubblicano Duncan Hunter, travolto assieme alla moglie da scandali e accuse di corruzione, era impegnato in una battaglia all’ultimo voto con il democratico Ammar Campa-Najjar, nato e cresciuto a Gaza e con il padre ex impiegato dell’Autorità nazionale palestinese, che in più occasioni ha mostrato il suo attaccamento personale e politico alla terra d’origine. Sarà da scoprire anche la linea sul Medio oriente che avrà al Congresso Alexandria Ocasio-Cortez che pur avendo di recente moderato il tono dei suoi attacchi alle politiche di Israele continua a sostenere apertamente il diritto dei palestinesi ad essere liberi ed indipendenti.

Il Fatto 8.11.18
Desirée, “il giorno prima un italiano tentò di violentarla”
Roma - “Le diedi 10 euro, si comprò l’eroina”. Una testimone: “Era con lei nelle ultime 48 ore della sua vita Una donna voleva chiamare il 118 ma le offrirono cocaina”
di Vincenzo Bisbiglia e Valeria Pacelli


Il giorno prima di morire a soli 16 anni dopo esser stata drogata e abusata, Desirée Mariottini potrebbe aver subito un altro tentativo di violenza sessuale. Il condizionale in questa terribile storia è d’obbligo, ma a raccontare questa circostanza è Antonella, 20enne sudafricana. Che dice di essere diventata un punto di riferimento per la ragazza di Cisterna di Latina negli ultimi due giorni della sua vita. A partire dal pomeriggio del 17 ottobre, quando in uno stabile di via dei Lucani, la incontra la prima volta.
“Era disperata e piangeva: voleva acquistare eroina ma non aveva i soldi”, racconta Antonella agli agenti della Squadra mobile, guidata da Luigi Silipo, che conduce le indagini con i pm Maria Monteleone e Stefano Pizza.
Quel giorno, Antonella le dà 10 euro e “lei ha acquistato la dose di eroina da un africano di cui non conosco il nome”. “Sono diventata da quel momento – continua la sudafricana – il suo punto di riferimento. Mi ha poi detto che era preoccupata di tornare a casa in quanto le avevano rubato il tablet”. Circostanza, questa del furto, non riscontrata dalla Procura.
A questo punto Antonella dice di esser andata via e di aver lasciato nello stabile abbandonato Desirée. Lì “c’era un africano che secondo me ha pianificato tutto”.
Il giorno dopo – e siamo al 18 ottobre scorso – verso mezzogiorno riceve una telefonata da Desirée, che le chiede di tornare in via dei Lucani: “Aveva passato la notte – continua Antonella – con un ragazzo che aveva avuto intenzione di stuprarla”.
“Uno normalissimo, fuori dai giri di quartiere”
Insomma prima dei quattro che, secondo le accuse, hanno abusato della minorenne, ci sarebbe già stato un altro tentativo di violenza. Sentita dal Fatto però Antonella aggiunge anche un particolare: “Quella sera non sapeva dove andare a dormire e si è fatta ospitare da un ragazzo italiano. Un tipo normalissimo, che non c’entra con il giro di via dei Lucani”. Insomma, Desirée cercava ospitalità, non rapporti sessuali.
La circostanza è al vaglio degli investigatori che stanno cercando riscontri, per poi, eventualmente, identificare il giovane.
Il 18 ottobre, Antonella vede Desirée due volte, all’ora di pranzo e verso le 18. Qui, nello stabile abbandonato, c’era un africano, uno “che si approfitta di tutte le ragazze che vanno lì, poiché chiede costantemente prestazioni sessuali”. Quando Antonella decide di andare via, pensa di chiedere a Desirée – che declina l’invito – di andare con lei: “La situazione che si stava creando era ‘strana’, nel senso che si stavano radunando troppi uomini nella stanza dove fumavano, mentre l’uomo con i dread continuava a offrirle droga”.
La telefonata: “Dicevano: ‘Sta stirando’”
Quando arriva a casa, però, il telefono di Antonella squilla. È Muriel, una congolese. “Mi diceva testualmente: ‘Sta stirando, cosa devo fare?’. Io le dicevo di chiamare l’ambulanza (…). Mi assicurava che lo avrebbe fatto”.
Promesse non mantenute: Desirée poteva salvarsi ma nessuno quella notte chiama il 118. Agli agenti, Antonella racconta un altro dettaglio: “Venivo a conoscenza tramite ‘Pi’ di aver ascoltato Muriel dire che voleva chiamare l’ambulanza per soccorrere Desirée, ma non lo faceva perché aveva paura di chiamare e perché, come mi riferiva ‘Pi’, le venivano offerti dei tiri”. Al Fatto, Antonella, spiega di averlo saputo solo de relato.
“Su Marco non dico nulla, è amichetto mio”
Conosce invece direttamente Marco, l’italiano che, secondo una testimonianza, avrebbe fornito al gruppo gli psicofarmaci il cui mix avrebbe ucciso Desirée. Gli agenti stanno cercando ancora di identificarlo, e in questo Antonella non è stata d’aiuto: “Non posso descrivere lo stesso poiché è mio amichetto. Penso che quel giorno fosse lì perché ci va tutti i giorni, è una persona che io ritengo brava”. E si barrica dietro il silenzio.
Marco viene citato anche da Brian Minteh, uno dei quattro africani arrestati, l’unico a non essersi avvalso della facoltà di non rispondere. “Marco – dice al giudice – ha quelle medicine personali (…) Ha lasciato le medicine, un cartone di medicine”.
Agli atti c’è un altro episodio finora inedito, rivelato da Kais, marocchino senza fissa dimora, anche lui quella sera nel quartiere romano di San Lorenzo. Ascoltato il 23 ottobre, l’uomo ha raccontato che la sera successiva alla morte di Desirée, ha chiesto ad alcune persone di accompagnarlo dalla Polizia: “Mi volevo presentare per raccontare quello che sapevo. Nessuno è voluto venire”. Quindi “sono rimasto lì, e durante la notte sono stato aggredito da un africano e credo tre italiani, mi hanno sbattuto con un sasso sull’orecchio”, ma “poi mi hanno chiesto scusa perché si sono resi conto che io non avrei mai fatto una cosa del genere”. Ossia, aiutare gli investigatori a scoprire chi ha violentato una minorenne, drogandola fino alla morte.
Per domani è attesa la decisione del Tribunale del Riesame sulle istanze di scarcerazione presentate dai legali del senegalese Gara Mamadou, del connazionale Brian Minteh e del nigeriano Chima Alinno. Sono accusati di violenza sessuale e omicidio volontario aggravato.
Reato che il Tribunale di Foggia ha fatto decadere nei confronti di un quarto fermato, il ghanese Yusuf Salia. Per il legale di Alinno, l’avvocato Giuseppina Tenga, “non vi è prova che abbia violentato, ucciso o fatto sesso con Desirée. Se l’esame del Dna dovesse dimostrare il contrario, lascio l’incarico: non difendo gli stupratori”.

La Stampa 8.11.18
Cade l’obbligo di riferire ai superiori per i poliziotti
di Grazia Longo


Stop all’obbligo per la polizia giudiziaria di riferire ai superiori con il rischio di far arrivare le notizie di reato dritte alla classe politica. La Corte Costituzionale, accogliendo il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal procuratore capo di Bari nei confronti del governo, ripristina il segreto investigativo.
Il vincolo delle comunicazioni alla scala gerarchica era stato stabilito dal governo Renzi nell’agosto 2016, nel decreto con cui la Forestale veniva accorpata all’Arma dei Carabinieri. Solo pochi mesi dopo iniziò a infuriare lo scandalo Consip. Fuga di notizie e manipolazione delle prove furono la punta dell’iceberg che videro i vertici della centrale acquisti della pubblica amministrazione informati troppo presto dell’indagine.
Tanto per capirci: l’amministratore delegato Luigi Marroni, come si evince da un’intercettazione del 20 dicembre 2016, riferì al capo dell’ufficio legale di sapere dell’esistenza degli accertamenti «4-5 mesi prima».
La decisione della Consulta
Ma ora la Consulta sancisce che la polizia giudiziaria deve confrontarsi solo con la procura, con il pubblico ministero titolare dell’inchiesta. In questo modo, i ministeri dell’Interno, della Difesa e dell’Economia, anelli finali delle forze investigative come polizia, carabinieri e guardia di finanza, non verranno informati in tempo reale. Con la norma censurata si prevedeva che, per un coordinamento informativo, «i vertici delle Forze di Polizia» adottassero «istruzioni affinché i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato» trasmettessero «alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale». La sentenza della Consulta bolla, invece, il filo diretto tra investigatori e superiori come «lesivo delle attribuzioni costituzionali del pubblico ministero, garantite dall’articolo 109 della Costituzione».
Si allontana così l’allarme sollevato da vari procuratori e dal Csm su un tema così delicato da aver provocato anche tensioni tra Palazzo dei Marescialli e il capo della polizia, Franco Gabrielli. Quest’ultimo, in difesa del decreto e in merito ai malumori che esso aveva scatenato, si definì «offeso». «Come se il sottoscritto e i vertici delle forze dell’ordine - disse in un’intervista - non avessero giurato fedeltà alla Costituzione, ma alla maggioranza di governo del momento».

Repubblica 8.11.18
Per chi indaga cade l’obbligo di riferire ai propri superiori" la Consulta dà ragione ai pm
La norma sulla polizia giudiziaria introdotta da Renzi. Il procuratore di Bari autore del ricorso: " Evitate fughe di notizie"
di Liana Milella


Roma Uno a zero tra magistrati e polizia. Per mano della Consulta. Il segreto d’indagine è sacro e i pm, come stabilisce la Costituzione all’articolo 109, ne sono gli " angeli custodi" e unici garanti. Di conseguenza gli ufficiali di polizia giudiziaria, a qualsiasi forza appartengano, non possono riferire notizie e atti ai loro superiori, a meno che non siano stati autorizzati a farlo espressamente dal pm titolare delle indagini. In una parola, la Corte dà ragione alle toghe e boccia il governo Renzi e la norma " fantasma" del 2016 che autorizzava la contestata trasmissione.
Il procuratore di Bari Giuseppe Volpe vince il conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Consulta e parla di « una sentenza storica» e di «un grandissimo successo » che mette fine a « fughe di notizie legittimate » , perché il comma 5 dell’articolo 18 del decreto legislativo numero 177 del 2016 (pubblicato in pieno agosto e dedicato al nuovo inquadramento del corpo forestale) autorizzava il passaggio di notizie d’indagine riservate «anche a organi che non sono di polizia giudiziaria, fino ai vertici nazionali di nomina politica, in dipendenza diretta dal Governo » . Per intenderci, come la fuga di notizie sul caso Consip di luglio 2016 che da Napoli arriva al comandante dei carabinieri Del Sette.
La Consulta ne ha discusso per due giorni. E non ha deciso all’unanimità sulla relazione di Nicolò Zanon. Ma la nota che rende ufficiale il verdetto non è certo anodina. Soprattutto laddove sottolinea che «pur riconoscendo le esigenze di coordinamento informativo poste a fondamento della disposizione impugnata come meritevoli di tutela » ritiene che quel comma 5 sia « lesivo delle attribuzioni costituzionali del pm».
Tecnicamente, trattandosi di un conflitto di attribuzioni, non si può parlare di incostituziona-lità, ma l’effetto è di cancellare le poche righe che hanno allarmato i procuratori d’Italia, a partire da quello di Torino Armando Spataro. Il quale " scopre" la norma quando diventa pubblica la circolare dell’ 8 ottobre 2016 con cui il capo della polizia Franco Gabrielli dà direttive sull’applicazione e raccomanda di « preservare il buon esito delle indagini in corso » . La reazione di Spataro è netta, norma "incostituzionale" perché viola i poteri dei pm. Immediata la sua circolare in cui in cui è scritto che la norma « rischia di determinare gravi conseguenze sul piano della segretezza delle indagini più delicate » . Inviata a tutte le forze di polizia giudiziaria e ai colleghi, con l’ordine che solo il pm può autorizzare il passaggio di informazioni. La circolare di Spataro fa scuola, perché anche il Csm, con l’allora vice presidente Giovanni Legnini, prende posizione in linea con Torino. Volpe da Bari passa ai fatti e solleva il conflitto.
Che succede adesso? Polizia e Gdf dovranno rispettare la decisione, mentre non dovranno farlo i carabinieri, che grazie a una disposizione del loro regolamento, conservano lo stesso obbligo di trasmettere le notizie che già avevano prima dell’agostano comma 5. Una disparità che suscita più di una perplessità ai vertici della polizia.

Repubblica 8.11.18
Dopo secoli di contrasti
Grecia, storica pace tra Stato e Chiesa
di Ettore Livini


Alexis Tsipras fa la pace con la Chiesa ortodossa greca e raggiunge con l’arcivescovo Geronimos un’intesa che chiude l’eterno contenzioso tra i governi ellenici e il Sacro Sinodo. Il compromesso, che dovrà essere approvato dalle massime autorità ecclesiastiche copre tutti i punti (molto terreni), che hanno avvelenato i rapporti tra Stato e Chiesa negli ultimi 70 anni. Primo fra tutti il destino delle terre confiscate nel 1939 dalla politica e per cui la gerarchia ortodossa, riconosce ora la bozza di intesa, non è stata adeguatamente compensata.
Tutto il patrimonio immobiliare conteso verrà ora riunito in un maxi-fondo che provvederà alla gestione e a distribuire a proventi dividendoli a metà tra le parti. L’altro caposaldo dell’accordo riguarda il pagamento dello stipendio dei circa 10mila preti ortodossi, che oggi sono dipendenti pubblici che ricevono la busta paga dallo stato. Ora cambierà tutto. A garantire le retribuzioni sarà direttamente la Chiesa, cui il Governo però girerà 200 milioni l’anno di sussidi per garantire gli esborsi. In cambio di queste concessioni Geronimos si è impegnato a far cadere tutte le cause contro lo stato sul patrimonio immobiliare.
Il compromesso storico con la Chiesa rappresenta una grande vittoria politica per Alexis Tsipras. La prima questione, estetica, è che l’annuncio dell’intesa ha offuscato mediaticamente la decisione dell’opposizione di centrodestra di chiedere modifiche della Costituzione. I vantaggi politici sono però altri. Specie in vista delle elezioni politiche del 2019.
Il primo è che l’uscita dalle fila dei dipendenti pubblici di 10mila preti consentirà all’esecutivo di assumere altrettante persone nella sanità e nella scuola senza superare i limiti imposti dalla troika. Il secondo è che grazie alla stretta di mano di ieri, Geronimos darà via libera alla revisione dell’articolo 3 della Costituzione che riguarda il suolo della Chiesa. Tsipras cambierà il testo garantendo la separazione tra lo Stato e il potere ortodosso, una soluzione "laica" chiesta da sempre dall’ala più a sinistra di Syriza senza irritare il resto del Paese grazie alla benedizione dell’arcivescovo. Il premier ellenico è stato il primo nella storia del Paese a non giurare sulla Bibbia.

Il Fatto 8.11.18
Le “Metamorfosi” di Picasso: più che all’antica, alla rinfusa
La mostra in corso a Palazzo Reale indaga il rapporto tra lo spagnolo e la civiltà greco-romana: è molto ricca (soprattutto di opere provenienti dal Louvre), ma disordinata
di Filippomaria Pontani


Nel 2017 sono state contate oltre 40 mostre su Picasso nei musei importanti del mondo, e il 2018 ne annovererà almeno altrettante: una di queste è attualmente ospitata al Palazzo Reale di Milano (Picasso. Metamorfosi, fino al 17 marzo), e indaga il rapporto dello spagnolo con l’antichità greco-romana. Pur inserendosi nel solco di altre esposizioni di questo tenore (Andros 2004, Antibes e Malibu 2012, Philadelphia 2014, Münster 2017), questa rinuncia al criterio cronologico, e affronta singoli temi: il bacio, il mito di Arianna, il Minotauro e così via.
Picasso è sempre affascinante, e lo sforzo profuso è ingente. L’idea di fondo della curatrice Pascale Picard sta nel confronto diretto tra Picasso e l’arte antica, ovvero un confronto non mediato da alcun tipo di rielaborazione intermedia: con la sola eccezione del Bacio di Rodin, non vediamo né in originale né in riproduzione opere di altri autori, non Poussin, non Goya, non Ingres, non De Chirico – come se il contatto fosse sempre diretto e primigenio. Eppure la mediazione artistica dovette giocare un ruolo importante, se si considerano gli inizi accademici di Picasso a Barcellona, e se si pensa che egli non mise mai piede in Grecia: la mostra non dà purtroppo conto adeguato (giusto un paio di foto nella penultima sala, quando è ormai tardi) dell’unico contatto diretto – precoce e fondante – tra lo Spagnolo e un’area “antica”, ovvero il viaggio in Italia meridionale con Cocteau nel 1917 (Cocteau gli chiederà poi la scenografia per l’Antigone di Sofocle, con i costumi di Coco Chanel, ma anche di questo – come della Lisistrata di Aristofane del 1934 – qui si tace).
D’altra parte, la mostra insiste giustamente sul fatto che Picasso a Parigi frequentava la sezione d’arte classica del Louvre: e davvero pregevole e importante è l’afflusso di materiali da quel museo, sia in termini di sculture (alcune ragguardevoli: l’Arianna dormiente, il Satiro danzante) sia in termini di ceramiche greche. Ora, sorvoliamo sul fatto che spesso – in grazia del sullodato criterio tematico – in una sala si affastellano opere appartenenti a epoche molto diverse dell’attività di Picasso, con qualche disorientamento; c’è da chiedersi però se davvero alcuni accostamenti formali siano sostenibili: il Concerto campestre del 1959 avrà davvero bisogno del modello di una pelike del Louvre? In che modo la Donna seduta del 1920, tunicata all’antica, richiamerebbe specificamente una Tanagrina? E basta davvero che una donna abbia una brocca in testa per essere promossa a fonte diretta del dipinto Donne alla sorgente (1921)?
Tutt’altra valenza hanno invece gli accostamenti sicuri tra opere che si richiamano senz’altro: qui il vero pregio della mostra sta in un’ampia scelta dei vasi che Picasso realizzò negli anni 50 a Vallauris in Costa Azzurra, imitando senza ambagi temi e iconografia del mondo antico. Ma anche qui: una mostra si giudica in parte rilevante dalle didascalie che offre, e allora perché molte di queste sono quasi illeggibili per mera assenza di luce? Perché molto spesso si omette la provenienza dell’opera antica esposta (non si capisce nemmeno se un vaso o una statua sia greca, romana o iberica: qui il mondo iberico è singolarmente associato sul campo agli altri due)? Perché lo splendido confronto fra il vaso tripode picassiano del 1950 (Volti di donne) e il suo preciso modello, un vaso ritrovato in una necropoli cipriota del 2300 a.C. (dal Louvre), è rovinato nella didascalia dall’indicazione “Pittore di Monaco”, finita lì per un incomprensibile sbaglio (il “pittore di Monaco” è un ceramografo della fine del VI sec. a.C., che non ha nulla a che fare con Cipro)? Perché in un’altra sala si data il celebre Minotauro vaticano al “500-1000 d.C.” (è una scultura romana da un originale del V a.C.)? Perché sistematicamente si sbaglia la grafia dell’area ateniese del Dipylon (Dyplon, Dypilon et sim.: idem anche nell’audioguida)? Perché in una mostra intitolata Metamorfosi, e promossa da Skira, non si presenta nemmeno l’intero portfolio delle trenta tavole ad acquaforte sulle Metamorfosi di Ovidio realizzate nel 1931 proprio per Albert Skira (e delle 19 tavole esposte davvero non si dice nemmeno cosa rappresentino)? E perché si omette del tutto che Picasso realizzò la copertina del primo numero della benemerita rivista surrealista Minotaure (1933), edita proprio da Skira e dal greco Tériade, un crocevia decisivo per una certa ricezione dell’antico nel primo Novecento?
Con un piccolo sforzo, si poteva forse far meglio.

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