il manifesto 7.11.18
Niente tagli alla cultura? Parole, parole…
Ri-Mediamo.
Forse l’attuale compagine «gialloverde» non ha interesse per un
incremento della consapevolezza di massa, figlia di istruzione e di
diffusione dei saperi. Trionfa l’era della soggezione alla dittatura
degli algoritmi su cui si reggono i social. È il momento di rilanciare
gli obiettivi della giornata di mobilitazione del 6 ottobre. Contro la
macelleria attuata dai governi presieduti da Berlusconi l’iniziativa si
fece sentire. E ora?
di Vincenzo Vita
Non ci si crede. Ma
la maledizione dei tagli alle attività culturali non finisce mai. Da
quelli ruvidi dell’allora ministro Tremonti in poi, con l’eccezione di
Franceschini ma pure lui senza una reale strategia alternativa, la linea
recessiva è diventata la normalità.
La legge di bilancio, ora in
discussione in parlamento, conferma la solita storiaccia. Eppure il
ministro Bonisoli aveva esternato tutt’altro, al punto che si era alzata
nel settore qualche voce di plauso e si diffondeva un certo ottimismo.
Insomma, i patetici discorsetti sui «giacimenti» culturali, il Belpaese,
il patrimonio artistico «unico al mondo» sono meno delle chiacchiere da
bar. Parole, parole.
Al dunque riemerge la filosofia profonda
maturata negli anni dell’egemonia liberista: il mercato è tutto e la
cultura è una noiosa spesa e non già un prezioso investimento.
Indirettamente produttivo e anti-ciclico. In epoca di crisi economica e
finanziaria il rilancio dello stato come «impresario culturale» sarebbe
essenziale.
Purtroppo, salvo eventuali emendamenti durante l’iter
delle camere, l’articolo 59 del testo («Ulteriori misure di riduzione
della spesa») taglieggia diverse misure significative: i crediti di
imposta previsti per librerie ed esercizio cinematografico (linea
Netflix?) sono diminuiti di circa 6 milioni di euro. Di 20 milioni è
sminuzzato il bonus per i giovani, giusto o meno che fosse. Prosegue la
logica del commissariamento delle fondazioni lirico-sinfoniche.
E
chissà che fine farà il tax credit per cinema ed audiovisivo, legato a
scelte tuttora incerte. Anzi. Il difetto della riforma del cinema del
novembre del 2016, sotto l’egida proprio di Franceschini, è – tra gli
altri – di aver rinviato ad una sequenza davvero eccessiva di decreti
attuativi e di regolamenti l’effettiva entrata in vigore di taluni dei
punti cruciali del testo. Le disposizioni sulle quote obbligatorie di
investimento da parte delle emittenti televisive nella produzione
cinematografica ed audiovisiva e la complessa normativa (pur monca e
indefinita) sul tax credit rimangono appese ad un filo esile.
Perché
mai un simile stillicidio? Eppure la domanda ci sarebbe, come ha ben
spiegato il rapporto annuale di Federculture. I consumi aumentano del
3,1% sull’anno scorso, pur con una forte disparità tra nord e sud. Ciò
significa che un’oculata politica di investimenti potrebbe dare luogo ad
un vero e proprio salto di qualità. È assurdo, dunque, che la legge di
bilancio sia la noiosa e amara riedizione di una tendenza dura a morire.
Forse,
però, l’attuale compagine «gialloverde» non ha interesse per un
incremento della consapevolezza di massa, figlia di istruzione e di
diffusione dei saperi. Trionfa l’era della soggezione alla dittatura
degli algoritmi su cui si reggono i social. In crisi la lettura di libri
e di giornali , travolte le sale dal travolgente successo del video on
demand, umiliate scuola, università e ricerca: il futuro è segnato.
L’abbattimento delle varie forme di intermediazione lascia sul campo
morti e feriti. E sì, perché ai tagli corrispondono disoccupazione e
impoverimento di un sistema ormai allo stremo.
Senza parallelismi
meccanici, va ricordato che l’attacco al «culturame» è stato (ed è) un
tratto distintivo della nascita degli autoritarismi, magari in salsa
digitale.
È proprio il momento di rilanciare gli obiettivi della
giornata di mobilitazione del 6 ottobre. Contro la macelleria attuata
dai governi presieduti da Silvio Berlusconi l’iniziativa si fece
sentire. E ora?il manifesto 7.11.18