La Corte Ue: l’Italia recuperi l’Ici non pagata dal Vaticano
Casa e Chiesa. Il ricorso partito da una scuola privata appoggiata dai Radicali: si stimano 4-5 miliardi. Dal Lussemburgo arriva il dietrofront sui pareri della commissione dal 2006 al 2011
di Luca Kocci
Ce lo chiede l’Europa: l’Italia deve riscuotere le somme dell’Ici non pagate dagli enti ecclesiastici cattolici (e non profit) fra il 2006 e il 2011, quando era in vigore un regime speciale di esenzione.
Bruxelles aveva già bocciato quel privilegio fiscale (un improprio aiuto di Stato), ma senza obbligare l’Erario a farsi restituire le tasse non versate, in un singolare scurdámmoce ‘o ppassato in versione europea.
Ieri i giudici della Corte di giustizia dell’Ue hanno annullato le precedenti decisioni – una prerogativa della Corte di Lussemburgo – e stabilito che lo Stato italiano deve recuperare l’Ici non pagata. Un conto salatissimo che, secondo alcune stime, sarebbe di 4-5 miliardi di euro. Addirittura il triplo se venissero conteggiati anche gli anni precedenti, a partire dal 1992, quando venne istituito l’Ici. «Faremo un altro ricorso per il recupero dell’Ici dal 1992», annuncia Maurizio Turco, dei Radicali, in prima fila a condurre questa battaglia.
LA CORTE HA ANNULLATO due deliberazioni dell’Ue. La prima del 2012, quando l’Imu sostituì l’Ici. La Commissione approvò la nuova misura («non implica aiuti di Stato dal momento che le esenzioni si applicheranno solo agli immobili dove sono condotte attività non economiche») esentando però l’Italia dal chiedere indietro l’Ici non pagato, perché sarebbe stato «impossibile» in base ai dati catastali e fiscali determinarne l’entità. La seconda del 2016, quando il Tribunale Ue respinse un ricorso presentato dalla scuola elementare (privata) Montessori di Roma (insieme ai Radicali) contro la decisione della Commissione del 2012: noi paghiamo l’Ici, le scuole cattoliche nostre concorrenti no, quindi sono ingiustamente privilegiate, la tesi rigettata dal Tribunale.
Ieri invece la Corte di giustizia ha dato ragione alla Montessori e ai Radicali ed ha cancellato i pronunciamenti del 2012 e del 2016, spiegando che le «difficoltà organizzative» dell’Italia non possono determinare un colpo di spugna sul passato. Respinto invece il ricorso sull’Imu.
ORA TOCCHERÀ alla Commissione europea recepire la sentenza. Margrethe Vestager, commissaria alla Concorrenza, dovrà correggere la vecchia decisione e valutare, insieme all’Italia, le modalità di recupero delle imposte. In caso contrario, la Commissione potrà deferire Roma alla Corte di giustizia con una procedura d’infrazione accelerata.
L’esenzione Ici sugli immobili della Chiesa fu introdotta subito, nel 1992. A metà anni ‘90 il Comune dell’Aquila avviò un contenzioso con l’Istituto delle suore zelatrici del Sacro Cuore, chiedendo il pagamento dell’Ici per alcuni edifici usati come casa di cura per anziani e pensionati per studentesse universitarie. Dopo una lunga battaglia legale, la Cassazione stabilì che l’attività delle suore non era né di culto né benefica ma commerciale: anziani e studentesse pagavano l’ospitalità, quindi l’Ici andava versato.
A QUEL PUNTO CI FU l’intervento “provvidenziale” di Berlusconi e Tremonti, che nel 2005 modificarono la legge: esentati dall’Ici tutti gli immobili ecclesiasticI in cui si svolgevano anche attività commerciali purché «connesse a finalità di culto». Un condono tombale.
L’ANNO SUCCESSIVO PRODI (premier) e Bersani (ministro dello Sviluppo economico) corressero la rotta – anche perché l’Ue si stava muovendo, dopo una denuncia dei Radicali –, giocando di avverbio: esenzione per gli immobili di proprietà ecclesiastica (e non profit) destinati al culto e ad attività assistenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, purché «non abbiano esclusivamente natura commerciale». Il «non esclusivamente» sanò alcune situazioni limite, ma mantenne intatti i privilegi delle migliaia di conventi trasformati in alberghi.
NEL 2012 ARRIVA L’IMU (governo Monti) che conferma l’esenzione, ma separando le superfici in cui venivano svolte attività sociali e di culto da quelle destinate ad attività commerciali: esenti le prime, paganti le seconde. Una formula che ottenne anche il gradimento di Bruxelles, confermato ieri.
È «una sentenza storica», commenta Edoardo Gambaro, avvocato della Montessori. Maurizio Turco: «È una condanna anche alla Commissione e ai governi italiani che in questi decenni si sono inventati di tutto».
La Stampa 7.11.18
Gialloverdi al test della laicità
di Gian Enrico Rusconi
L’operazione si presenta complicata, le contestazioni saranno innumerevoli, strumentali o legittime, ma il principio è stato affermato in modo autorevole dalla Corte di giustizia dell’Unione europea: lo Stato italiano deve recuperare l’Ici non pagata dalla Chiesa e dal no profit.
La cifra stimata (dall’Anci) è ragguardevole con i tempi che corrono per l’Italia: attorno ai 4-5 miliardi.
Che cosa farà adesso «il governo del popolo» giallo-verde? Come reagirà la Chiesa «aperta» di Francesco?
Probabilmente né gli uomini di governo né gli uomini di Chiesa si rendono conto che non si tratta soltanto di soldi e benefici materiali, ma dell’idea semplice e concreta della laicità dello Stato. Invece probabilmente, in modi diversi ma speculari, penseranno che siano in gioco sentimenti di ostilità o di benevolenza verso la Chiesa - se non addirittura di fede religiosa .
Che cosa succederà? È probabile che gli uomini di Chiesa rimangano zitti, sperando che con quello che sta succedendo, la faccenda finisca nel nulla. Dopotutto tocca al governo italiano prendere l’iniziativa.
Non c’è più l’alibi offerto nel 2016 dal tribunale Ue che parlava di impossibilità di recupero delle tasse non versate nel periodo 2006-2011 «a causa di difficoltà organizzative». Con tono fermo ora la Grande Chambre della Corte di giustizia denuncia che si tratta di inefficienza dello Stato italiano, di difficoltà interne esclusivamente ad esso imputabili. «Avrebbe dovuto esaminare nel dettaglio l’esistenza di modalità alternative volte a consentire il recupero, anche soltanto parziale, delle somme». Al contrario quel condono tombale è stato una turbativa di mercato, un aiuto di fatto di Stato alla Chiesa e alle organizzazioni non profit.
Ma a questo punto il governo non saprà che cosa fare. Da un lato, tutto proiettato a denunciare le ingiustizie, le magagne, le inadempienze dei governi precedenti, si vede tra le mani un nuovo motivo di accusa per chi lo ha preceduti - con in più la prospettiva di ricuperare qualche preziosissimo miliardo. Ma dall’altro lato, è difficile vedere il premier Giuseppe Conte, devotissimo di Padre Pio e del suo sistema d’accoglienza e assistenza, mettere in difficoltà gli uomini di Chiesa. Non sarà da meno Matteo Salvini, che dopo la sua esibizione in piazza Duomo con Vangelo e rosario, è apparso recentemente nel giro sociale (e mediatico) con la statua della Madonna di Medjugorje alle spalle. Oltre tutto sarà pure imbarazzato di fronte ad una iniziativa presa da una delle molte istituzioni europee da lui tanto malviste.
In breve probabilmente «il governo del popolo» vedrà in questa vicenda una grana in più anziché un’opportunità per un coraggioso atto di «laicità» - concetto per la verità assente nel suo lessico.
La Stampa 7.11.18
Sospetti nel governo: “Manovra contro di noi
L’Ue sa che non chiederemo mai quei soldi”
di Federico Capurso
I rapporti tra Bruxelles e Roma si sono deteriorati a tal punto che persino una sentenza della Corte di giustizia europea viene ormai vista dagli uomini del governo giallo-verde come una ritorsione contro di loro.
Il verdetto dovrebbe portare nelle casse dello Stato tra i 4 e i 5 miliardi di euro (secondo una stima dell’Anci), provenienti dalla riscossione dell’Ici per gli enti non commerciali risalente al periodo tra il 2006 e il 2011. Riguarderebbe, quindi, soprattutto gli immobili di proprietà del Vaticano. «Per questo è un cavallo di Troia», spiega una fonte dell’esecutivo, «perché in Europa sono ben coscienti che non potremo mai chiedere così tanti soldi alla Chiesa cattolica, specie prima delle elezioni europee».
Il sospetto che si tratti di un boccone avvelenato lanciato da Bruxelles circola con forza sulla sponda grillina di Palazzo Chigi. Poco importa che il pagamento dell’Ici da parte del Vaticano fosse una storica battaglia del Movimento 5 Stelle. È stato archiviato il ricordo di Beppe Grillo, che nel 2015 diceva: «I partiti sanno benissimo che i soldi, quando servono a loro, ci sono sempre. Per esempio per acquisirsi benemerenze presso gli Usa con l’acquisto degli F35 o regalando l’Ici al Vaticano». Oggi il Movimento è al governo e, così come continua ad acquistare i bombardieri americani F35, non mostra alcun interesse a intervenire con un provvedimento per dare seguito alla sentenza della Corte europea. Senza una legge ad hoc, infatti, non si può procedere alla richiesta di pagamento di tasse che sono già cadute in prescrizione, e le intenzioni del governo - questa volta compatto - vanno in tutt’altra direzione. Anche per i rapporti molto stretti fra il premier Conte e il Vaticano.
C’è stato un momento,però, nella convulsa giornata di ieri, in cui era pronta a uscire una nota ufficiale del Movimento 5 Stelle nella quale si sarebbe salutata con favore il verdetto della Corte europea. In molti, tra i parlamentari grillini, si erano già esposti pubblicamente con dichiarazioni battagliere.«È sacrosanto che la Chiesa cattolica paghi l’Ici - diceva il senatore Elio Lannutti in un’intervista a Radio Radicale - Questa è una battaglia che facciamo da tanto tempo». E anche il presidente della commissione Bilancio alla Camera, Daniele Pesco, si augurava che «questi soldi possano rientrare. Lo diciamo da anni». Nel giro di poche ore, però, da Palazzo Chigi arriva lo stop. Ad arginare il desiderio di rivendicare la vittoria di una storica battaglia, è l’intervento dell’anima leghista dell’esecutivo. Il Carroccio non ha mai nascosto le sue critiche nei confronti del pontificato di Papa Francesco, ma non per questo ha intenzione di condurre in porto una legge con cui farsi tanti, troppi nemici all’interno del mondo cattolico. «Nel caso in cui si affrontasse questo discorso - mette in guardia il senatore leghista Roberto Calderoli - si dovrebbero comunque distinguere gli enti no profit veri da quelli farlocchi». Come a dire che se proprio qualcuno vuole spingere in questa direzione, la mano del governo dovrà essere più che morbida.
Ascoltate le preoccupazioni leghiste, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si sarebbe convinto a muovere gli sherpa della maggioranza per rassicurare Oltretevere sulle buone intenzioni del governo. E ai parlamentari del Movimento sarebbe stata comunicata la retromarcia. Tanto che, improvvisamente, il referente dei Cinque stelle che si doveva occupare di studiare una legge con cui far tornare l’Ici nelle casse dello Stato, all’improvviso, scompare. «La questione è in mano a Gianluca Perilli», assicurava in mattinata il capogruppo M5S a Palazzo Madama Stefano Patuanelli. Nel pomeriggio, però, lo staff di Perilli assicura che «il senatore vuole mettere in chiaro che non si sta occupando di nessun provvedimento inerente alla sentenza. Se ne era occupato in passato». Ecco, una cosa è il passato, le battaglie, l’opposizione. Un’altra il governo.
La Stampa 7.11.18
“Danno erariale. Ora sentiremo la Corte dei conti”
di Andrea Carugati
«Ora ci rivolgeremo alla Corte dei conti affinché vigili sull’effettivo recupero dell’Ici degli immobili della Chiesa tra il 2006 e il 2011. Si tratta di almeno 3,6 miliardi, secondo le stime dell’Anci: un enorme danno erariale che lo Stato ora è obbligato a recuperare». Maurizio Turco, ex deputato dei radicali, è uno dei protagonisti della battaglia legale sull’Ici degli immobili ecclesiastici che è durata 12 anni.
Pensa che sia possibile il recupero di queste cifre?
«Sono consapevole che non sarà facile, anche perchè in oltre dieci anni molti immobili sono stati venduti a privati. Ma la Corte di giustizia dell’Ue ha corretto quanto stabilito dalla Commissione Ue che aveva accettato la versione dello Stato italiano sull’impossibilità di recuperare quei soldi. Ora lo Stato è obbligato a farlo, non ci sono altri gradi di giudizio e non ci sono più alibi. E noi chiederemo alla stessa Corte di estendere la sua azione fino al 1992, quando l’Ici fu introdotta».
Se il governo non si muoverà cosa farete?
«Intanto l’Italia se non recupera quelle somme rischia una procedura di infrazione. E c’è la possibilità di chiamare in causa il governo in carica per danno erariale. La sentenza è appena arrivata, i nostri legali la stanno valutando, ma non escludiamo di chiamare in causa anche i decisori politici del passato. Sulla materia hanno messo mano il governo Berlusconi del 2001-2006 e il secondo governo Prodi, ci sono dei funzionari che hanno firmato i provvedimenti di esenzione totale o parziale per gli immobili della Chiesa».
La Cei si è mostrata soddisfatta per la sentenza...
«Sono soddisfatti perché intanto sono passati 12 anni, noi ci eravamo mossi nel 2006».
il manifesto 7.11.18
Sui migranti uno sfregio alla Costituzione
Dl sicurezza. Il decreto è una summa di incostituzionalità che potrebbe essere portato ad esempio di ciò che non può essere fatto in materia di migrazioni
di Gaetano Azzariti
Il voto del Senato sul decreto sicurezza è uno sfregio alla costituzione. Il governo, scegliendo di porre la fiducia, ha persino impedito al Parlamento di discutere delle palesi incostituzionalità delle norme che si dovranno obbligatoriamente votare nella versione imposta dal Consiglio dei ministri. Se neppure alla Camera verrà concesso di discutere modifiche al testo predisposto, sarà evidente la crisi del nostro sistema parlamentare. Che accadrà dopo la conversione in legge del decreto?
Spetterà prima al capo dello Stato, in sede di promulgazione, poi alla Consulta, in sede di sindacato incidentale, esprimersi sulla manifesta incostituzionalità delle norme. Non è detto dunque che la ferita inferta dal Senato alla costituzione non possa essere almeno in parte riassorbita, sempre che i garanti sappiano far sentire con coraggio e rigore la loro voce. Rimane in ogni caso il fatto inquietante che l’attuale maggioranza non sembra preoccuparsi minimamente dei limiti che la costituzione impone.
Eppure il decreto sicurezza è una summa di incostituzionalità che potrebbe essere portato ad esempio di ciò che non può essere fatto in materia di migrazioni. Anzitutto lo stesso strumento prescelto vìola la costituzione e la giurisprudenza costituzionale in materia. Illegittimo è infatti l’uso del decreto legge per regolare fenomeni – quali le migrazioni – di natura strutturale che non rivestono alcun carattere di straordinarietà ed urgenza. Né può farsi valere in questa materia un’interpretazione estensiva dei presupposti costituzionali, che altre volte ha portato ad abusare dello strumento del decreto legge, poiché i dati relativi al calo dell’80 % degli sbarchi, vanto dell’attuale governo, in caso dimostrano la cessazione dell’emergenza. Si deve anche dubitare che siano stati rispettati due altri caratteri ritenuti essenziali dalla Corte costituzionale e dalla legge 400 del 1988: l’omogeneità e l’immediata applicabilità di tutte le disposizioni del decreto.
Ma è nel merito del provvedimento che si riscontrano le più insidiose incostituzionalità. In materia di migrazioni la nostra costituzione pone un principio fondamentale che non può essere in nessun caso disconosciuto: l’articolo 10 assicura allo straniero il diritto d’asilo. Secondo la consolidata giurisprudenza dei giudici ordinari esso si configura come diritto soggettivo perfetto attribuito direttamente dalla costituzione. Un Parlamento costituzionalmente orientato dovrebbe dare la massima attuazione del principio costituzionale, ma con i tempi che corrono ci si accontenta di molto meno. Ecco perché, in assenza di una normativa adeguata, la Cassazione ha indicato nella misura del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie la «forma di attuazione» del principio costituzionale (da ultimo sez. I, n. 4445/18). Una soglia minima, dunque.
Non si può certo impedire che la normativa vigente sia precisata e, magari, migliorata; quel che si deve però senz’altro escludere è che essa possa essere eliminata. Ebbene il primo articolo del decreto sicurezza invece proprio questo fa: abroga la protezione umanitaria, sostituita da casi tassativi di permessi di protezione speciale. In tal modo si viola l’articolo 10.
Quante volte abbiamo sentito ripetere da esponenti politici di ogni tendenza che un’indagine giudiziaria non può essere pregiudizievole. La presunzione di non colpevolezza è un principio di civiltà, prima ancora che giuridico, di enorme valore, scolpito nel testo della nostra legge suprema all’articolo 27. E la nostra costituzione non fa certo differenza tra cittadini e stranieri (si riferisce in generale all’«imputato»).
Il decreto, invece, in evidente violazione con la richiamata disposizione costituzionale, permette la lesione dei diritti degli stranieri relativi alla difesa e impone l’obbligo di lasciare il territorio nazionale qualora essi siano sottoposti a procedimento penale per una serie di reati. Come se si fossero riscritti in un colpo solo tre articoli della costituzione (24, 27 e 113) ritenendo che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, senza poter essere considerati colpevoli prima della sentenza definitiva e senza limitazioni particolari per determinate categorie di atti. Tutti, salvo gli stranieri.
D’altronde la discriminazione nei confronti degli stranieri nel decreto non viene meno neppure quando questi abbandona il proprio status. Anche qualora riuscisse ad ottenere la cittadinanza italiana, non sarà mai considerato alla pari degli altri, a rischio di revoca nei casi di condanna definitiva per alcuni reati. Questa previsione appare in contrasto con due principi. Quello d’eguaglianza, introducendo nel nostro ordinamento una irragionevole discriminazione tra cittadini, e contravvenendo all’espressa indicazione di divieto della perdita della cittadinanza per motivi politici (articoli 3 e 22)
Potrei continuare a lungo, esaminando tutte le altre disposizioni del decreto, dal prolungamento della detenzione amministrativa nei centri di permanenze per il rimpatrio in contrasto con le garanzie legate alla libertà personale, alle diverse previsioni che confliggono con il principio di solidarietà, che vengono spazzate via dalla cancellazione dei sistemi di accoglienza pubblica (Sprar). Lo spazio di un articolo non consente di andare oltre. Il tempo della democrazia lo pretende.
Il Fatto 7.11.18
Libertà e Giustizia contro il testo: “È incostituzionale”
Il decretoSicurezza “lede basilari principi costituzionali”. Lo sostiene l’associazione Libertà e Giustizia, che in una nota firmata, tra gli altri, dal presidente Tomaso Montanari, da Nadia Urbinati, Lorenza Carlassare, Salvatore Settis e Sandra Bonsanti ha commentato la possibile approvazione del decreto Salvini. Secondo l’associazione, la misura viola principi cardine della Carta, come “la presunzione di non colpevolezza, il diritto di difesa, l’uguaglianza”, e “rischia ora di venire convertita in legge in assenza di un libero dibattito parlamentare di merito, causa l’imposizione della fiducia”. “Come se ciò non bastasse – continua l’appello – esponenti dell’esecutivo pretendono le dimissioni dei parlamentari della maggioranza che non accettassero di curvare la schiena e si ostinassero a esercitare il libero mandato seguendo i propri convincimenti, così come la Costituzione impone di fare”. Un comportamento che ricorderebbe alcune storture della scorsa legislatura: “Abbiamo denunciato il comportamento di chi pretese la sostituzione dei parlamentari non allineati nelle Commissioni. A maggior ragione, denunciamo il comportamento di chi vorrebbe imporre le dimissioni ai dissenzienti”.
il manifesto 7.11.18
Troppi silenzi, pubblici e privati
Femminicidi . La serialità, nello spettacolo come nella vita reale, ha il potere di spegnere sorpresa, emozione e, alla lunga, anche la voglia di pensare
di Lea Melandri
Violentano e uccidono. Gli stupri di cui si ha notizia avvengono per strada, i femminicidi quasi sempre tra le mura domestiche. «Il boia – si leggeva negli striscioni della grande manifestazione dei collettivi femministi e lesbici del 2007- ha le chiavi di casa». Gli aggressori sono uomini di cui generalmente si dice che abbiano condotto una vita normale fino al giorno in cui – spesso a seguito di una separazione-hanno impugnato un’arma. Vittime: una moglie, una fidanzata, un’amante. Nel corso di quest’anno sono 78 le donne uccise, l’ultima pochi giorni fa a Sala Consilina, nel Salernitano,bruciata viva dal convivente.
LA SERIALITÀ, nello spettacolo come nella vita reale, ha il potere di spegnere sorpresa, emozione e, alla lunga, anche la voglia di pensare. Si assiste, si registra il dejà vu, e se resta un po’ di forza si scrive su fb a lettere cubitali “Basta!”. Anche i tentativi di stornamento – il mostro è lo straniero- sembra che abbiano i giorni contati, come l’ipocrisia di chi non si arrende a chiamare la violenza contro le donne col suo vero nome: sessismo. Allora vuol dire che non c’è più niente da fare, che non resta che rassegnarsi e di tanto in tanto comparire sulle piazze con slogan e manifesti ormai logori per il silenzio che va crescendo intorno? Il silenzio è di uomini ma anche di donne inconsapevoli del potere che è passato sul loro sesso, o arrese per troppe delusioni.
SONO PASSATI sette anni da quando una imponente manifestazione, Se Non Ora Quando, portò al declino il berlusconismo, che aveva offeso la dignità delle donne, ridotte a «oggetto di scambio sessuale».
Oggi non si tratta più di pudore e di rispetto, ma di ripetuti attentati alla loro vita.
DOVE SONO finiti i giornali, le televisioni che allora sostennero a gran voce la necessità di una mobilitazione del femminismo, dato fino a quel momento per silenzioso o morto? La verità è che, se i femminicidi sono tornati a essere solo casi di cronaca nera per la maggior parte dell’opinione pubblica, è perché non possiamo incolpare un governo – anche se ha il volto di un uomo, come Matteo Salvini, che semina odio, xenofobia, misoginia, omofobia – , e perché non c’è nessun partito che possa trarre vantaggi elettorali da una causa come questa.
LA VIOLENZA di maltrattamenti, atti persecutori che degenerano in aggressioni mortali, gode di molteplici coperture: la riservatezza del privato, la vergogna e talvolta persino il senso di colpa della donna che la subisce, la paura di esporsi con una denuncia, ma anche l’esitazione a vedere l’odio in quella che è stata una relazione intima. Riconoscerla, quanto meno a parole, come «fenomeno strutturale», legarla alla storia del dominio di un sesso sull’altro, alla cultura che le donne hanno loro malgrado dovuto fare propria, evidentemente non è bastato ad aprire quelle porte di casa, a districare il perverso annodamento di amore e violenza, sentimenti e logiche di potere, la tenerezza dell’uomo-figlio e la tirannia del marito-padrone.
UOMINI che oggi si interrogano sul peso che ha avuto la «virilità» nella loro formazione e nei modelli di civiltà finora conosciuti non mancano, ma sono l’esigua minoranza che i media, non a caso, si guardano bene dal portare a conoscenza di un vasto pubblico.
È DAVVERO paradossale che, in una delicata fase storica, come quella che stiamo attraversando, sospesa tra nuove, promettenti prospettive antropologiche di cambiamento e l’insorgenza di forme arcaiche di barbarie, non ci si ponga la domanda più ovvia: perché la libertà delle donne, ma anche quella di soggetti che escono dall’ombra di un secolare discredito per chiedere un qualche risarcimento- come i poveri, i migranti in fuga da guerre, disastri ambientali, tirannie e fame- fanno tanta paura? Quali fragilità, dipendenze sono rimaste innominabili dietro l’apparente autonomia della comunità storica degli uomini? Perché ancora tanta omertà?
Viene il dubbio che, sotterraneamente, si sia fatta strada la consapevolezza del capovolgimento avvenuto all’origine della specie che, come dice Rousseau, ha visto il più forte soggiacere al più debole, il potente corpo materno farsi umile e bisognoso di protezione agli occhi del figlio, una volta divenuto padre di se stesso. Nel momento in cui le donne non si fanno più trovare nei luoghi e nei ruoli in cui sono state messe, a sostegno dell’individualità e del compito sociale dell’altro sesso, anche la figura dell’uomo si rimpicciolisce, come scrive Virginia Woolf, «diventa meno adatta alla vita».
NON SI CAPISCE altrimenti perché la separazione, quasi sempre al seguito di maltrattamenti e violenze psicologiche che la donna ha subito, possa scatenare nell’uomo angosce odi così profondi da voler dare la morte, all’altra e talvolta anche a se stesso.
A questo punto, viene da fare un’altra domanda: riusciranno le donne
Il Fatto 7.11.18
“Se si taglia la prescrizione i processi si accorciano”
“Basta bufale: solo in Grecia il sistema è simile al nostro. Per me lo stop dovrebbe partire anche prima”
di Gianni Barbacetto
La riforma della prescrizione è diventata uno dei punti caldi del confronto politico, anche dentro il governo. Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e oggi componente del Consiglio superiore della magistratura, è durissimo con quelle critiche che ritiene siano, semplicemente, bufale.
Si sta dicendo che la riforma della prescrizione proposta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede finisca per ledere gravemente i diritti dei cittadini.
Il sistema di prescrizione come in Italia c’è soltanto in Grecia. Bisogna farsi delle domande, prima di sostenere che vengono lesi i diritti dei cittadini. Quando in Italia hanno introdotto il nuovo codice di procedura penale, ci hanno raccontato che avremmo avuto il processo all’americana. Ebbene: negli Stati Uniti la prescrizione si blocca con l’inizio del processo. Quasi tutti gli argomenti che sono usati in questi giorni non hanno alcun addentellato con la realtà. È l’Italia l’anomalia: abbiamo un sistema giudiziario in cui un imputato condannato in primo grado fa appello per avere ridotta la pena, ma sperando in realtà di non scontare alcuna pena, neppure ridotta, perché tanto arriverà la prescrizione.
Ma allungando i tempi di proscrizione, dicono i critici, si allungherà anche la durata dei processi, che in Italia è già esagerata.
Non è vero. Intervenendo sulla prescrizione i tempi si accorciano. I processi in Italia durano tanto perché ce ne sono troppi. E una causa è che ci sono troppi appelli e ricorsi in Cassazione, fatti in attesa che arrivi la prescrizione. Altra causa è che alcuni comportamenti che ridurrebbero la durata dei dibattimenti non sono attuati, perché per gli imputati e loro avvocati è più conveniente puntare sulla prescrizione del reato.
Ci fa qualche esempio?
Le prove acquisite in indagine preliminare potrebbero essere acquisite al dibattimento, ma ci vuole l’accordo delle parti, l’accusa e la difesa. Questo accordo non c’è mai, perché le difese aspettano la prescrizione. Se a un poveretto rubano il libretto degli assegni e questi vengono spesi in dieci città diverse, il poveretto deve fare il giro di dieci processi in dieci città, mentre sarebbe più rapido acquisire la sua denuncia. Un altro esempio: l’articolo 525 del codice penale prevede che le sentenze siano pronunciate soltanto dal giudice che ha acquisito le prove. Ma nella vita reale succede che una giudice possa andare in maternità, o che un giudice sia trasferito in un’altra sede. Che succede? Se cambia la composizione del collegio giudicante, il processo deve ricominciare da capo. E si può sperare nella prescrizione. Sa che cosa succede invece negli Stati Uniti?
Che cosa succede?
Che il 90 per cento degli imputati si dichiara colpevole, se lo è, perché ha interesse a limitare i danni. Semmai le critiche da fare potrebbero essere sul momento scelto per bloccare la prescrizione.
Meglio il momento della richiesta del rinvio a giudizio, come propone il suo collega antimafia Nino Di Matteo, o dopo l’avvenuto rinvio a giudizio, con l’inizio del dibattimento, come avviene negli Stati Uniti?
Si può scegliere. Ma c’è un’altra questione che non viene affrontata.
Quale?
In Italia, se appellante è il solo imputato, non è possibile la reformatio in peius della pena: chi fa appello può avere la pena cambiata solo in meglio. Questo, per esempio in Francia, non c’è. Infatti in Francia solo il 40 per cento delle sentenze di condanna a pena da eseguire viene appellato, mentre in Italia il 100 per cento: ti conviene e non rischi nulla. Ma è così che, nella struttura piramidale della giustizia italiana, le Corti d’appello saltano.
Le cifre dicono che solo il 20 per cento dei processi si prescrive dopo la sentenza di primo grado. Dunque la riforma non interverrebbe sull’80 per cento delle prescrizioni.
Il problema è che da noi la prescrizione non parte da quando il pm acquisisce la notizia di reato, ma da quando il fatto è avvenuto. Così le Procure della Repubblica scoprono molti casi che sono successi magari 4 o 5 anni prima, che si prescrivono in 7 anni e mezzo e con solo 2 anni e mezzo per fare le indagini e celebrare tre gradi di giudizio. Impossibile. Sarebbe lavoro inutile, così le Procure li lasciano prescrivere per dedicarsi a inchieste più utili. Poi c’è comunque un imbuto tra Procura e Tribunale: a Roma la Procura ha 60 mila processi pronti da mandare a giudizio, ma il Tribunale di Roma ne può accettare soltanto 12 mila l’anno. Capisce che così il sistema non funziona.
Che cosa si dovrebbe fare? Bisogna ridurre i processi…
Si deve depenalizzare drasticamente il sistema giudiziario. Ci sono troppi processi. Tutti questi processi non li possiamo fare.
Non è che i magistrati lavorano poco e anche per questo i processi in Italia sono lunghissimi?
Le rispondo con le cifre della Commissione europea per l’efficacia della giustizia, che è un organo del Consiglio d’Europa. Dicono che i magistrati italiani, in quanto a numero di processi trattati, lavorano il doppio di quelli francesi e il quadruplo di quelli tedeschi.
Molti che erano in passato favorevoli alla riforma della prescrizione, ora che è stata proposta, sembrano aver cambiato idea. Qualcuno anche tra i suoi colleghi magistrati. Perché?
Lo chieda a loro.
Alcuni sostengono che andrebbe fatta una riforma organica, non introdotta con un emendamento.
Lei ha visto riforme organiche in questo Paese?
il manifesto 7.11.18
Antirazzisti a Roma, sabato contro il decreto Salvini
Decine di pullman e 400 adesioni alla manifestazione che si oppone al «dl sicurezza». Mobilitazione in 58 città e crowfunding. In piazza anche Mimmo Lucano
di Rachele Gonnelli
Sarà un pacco, un regalo graziosamente rispedito al mittente con la grande manifestazione di sabato prossimo a Roma, il decreto Sicurezza. Con o senza la copertura, l’ombrello, della fiducia. Gli effetti del decreto 113, già in vigore dal 5 ottobre e che in questi giorni sarà convertito in legge, impiegheranno un po’ di tempo a dispiegarsi nella loro negatività, ma mentre si vanno moltiplicando gli appelli per l’incostituzionalità e le iniziative spontanee dei Comuni che non intendono adeguarsi all’azzeramento degli Sprar e dei diritti degli asilanten, la mobiliazione dal basso contro le politiche securitarie e razziste del governo gialloverde sta crescendo e così anche l’appuntamento di sabato 10 novembre.
Sono stati organizzati pullman da 58 città e le adesioni all’appello iniziale – lanciato in una assemblea che si è tenuta a Milano a settembre a seguito delle manifestazioni spontanee di Catania e Ventimiglia per l’apertura di porti e confini con la Francia – sono diventate 400, sia di realtà nazionali che locali. Con lo slogan, che probabilmente sarà nello striscione di testa: «Uniti e solidali contro il governo e il razzismo del decreto Salvini».
ADERISCONO comitati antirazzisti appena nati e associazioni storiche come Oxfam, ActionAid e Un Ponte Per, o la sezione italiana dell’ong spagnola Proactiva Openarms, impegnata con le sue navi nei salvataggi a mare dei migranti. Ci saranno I Sentinelli di Milano, promotori della grande manifestazione antirazzista del mese scorso a Milano, che nel frattempo stanno «figliando» associazioni gemelle a Catania, a Roma e, ultima nata, a Macerata. Ci saranno i friulani che domenica scorsa hanno portato in piazza 15 mila persone a Trieste e molti centri sociali del Nord-Est e delle Marche. Ma anche di Napoli (Insurgencia e ex Opg Je so’pazz), città da cui potrebbe arrivare anche il sindaco Luigi De Magistris, tra le personalità che aderiscono a titolo personale.
In piazza – il corteo seguirà il percorso classico da piazza Esedra a piazza San Giovanni passando per via Cavour – ci saranno anche l’europarlamentare Eleonora Forenza di Rifondazione e i parlamentari di Sinistra italiana e di Leu, mentre è ancora incerta la presenza del segretario Nicola Fratoianni, impegnato a dare il cambio come testimone sulla nave Mare Jonio ora ferma a Lampedusa per mare grosso. Il progetto Mediterranea sta ricevendo fondi consistenti grazie al crowfunding che continua in tutta Italia, e lo stesso è per le raccolte di soldi online per sostenere l’esperienza di accoglienza di Riace e le mense per i bambini migranti che non possono pagare la retta a Lodi.
La solidarietà si autorganizza e il simbolo che di questo movimento di risposta alla deriva «cattivista» e xenofoba del governo – il sindaco di Riace, Mimmo Lucano – sabato sarà in testa al corteo. Dalla Toscana già prenotati oltre 10 pullman.
LA MAPPA interattiva delle adesioni, insieme al testo dell’appello iniziale, si può visionare sul sito di Melting Pot e sulla piattaforma Indivisibili della rete Global Project – due dei soggetti promotori, insieme a l’associazione romana Baobab Experience – che dà accoglienza ai transitanti nell’attendamento dietro alla stazione Tiburtina ora sotto sgombero della giunta Raggi – e ai movimenti romani per il diritto all’abitare.
I DUE PERCORSI che – da Milano e da Roma – hanno portato all’appuntamento del 10 novembre non sono stati semplici né lineari. Ma adesso, a ridosso dell’approvazione del decreto legge Salvini, si sono ingrossati prendendo uno spazio nazionale che nel frattempo non era stato occupato. Ci saranno i sindacati di base Cobas e Adl Cobas. Così se l’Anpi nazionale non c’è tra i firmatari, figurano invece le sezioni di Caserta, Catania, Venezia. Ed è la stessa situazione dell’Arci: singoli circoli Arci si vedranno sabato in forze al corteo nazionale antirazzista, anche se l’organizzazione è soprattutto impegnata, sempre sabato, nelle tante iniziative locali contro il decreto Pillon a fianco delle donne di Non Una di Meno. Il sindacato di Aboubakar Soumahoro -l’Usb- ha convocato un suo momento a dicembre e la Cgil, si sa, è impegnata con il congresso, ma singoli sindacalisti ci saranno comunque.
MENTRE SI SPERA di vedere almeno alcuni della lunga lista di attori e musicisti che hanno garantito condivisione: da Ascanio Celestini ai Modena City Ramblers, dagli Assalti frontali a Eugenio Bennato.
il manifesto 7.11.18
Prescrizione, così si fa a pezzi il principio di non colpevolezza
Riccardo De Vito. Il presidente di Magistratura democratica: in nome dell'interesse dello stato viene violato l'articolo 27 della Costituzione. Così la proposta del M5S è sbagliata nel metodo e pericolosa nel merito. Meglio sarebbe stato attendere i risultati della riforma già fatta e concentrarsi sui tempi del processo
di Andrea Fabozzi
Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica, qual è il suo giudizio sulla proposta di interrompere la prescrizione dopo il primo grado di giudizio? La corrente di Davigo chiede che Csm e Anm si schierino a sostegno dell’iniziativa del M5S.
Non condivido, ma è legittimo che una corrente della magistratura possa chiederlo. Così come sarebbe giusto che Csm e Anm prendessero posizione sui punti critici e pericolosi del decreto sicurezza. Sulla prescrizione le posizioni nella magistratura sono diverse, ed è giusto ricordare che l’Anm si è sempre espressa per l’interruzione dopo il primo grado. Non è però la mia opinione. Io penso che gli interventi sulla prescrizione debbano marciare di pari passo con quelli sulla ragionevole durata del processo. Altrimenti per garantire l’effettività del processo penale si sacrifica l’interesse della persona a non rimanere sotto processo all’infinito. C’è l’interesse dello stato a non sprecare le risorse investite nell’amministrazione della giustizia, ma c’è anche l’interesse della persona a non rimanere sotto processo per sempre. Anzi, in un’ottica garantista questo diritto deve venire prima.
Diceva di posizioni differenti nella magistratura, per la verità sono pochi quelli che hanno criticato la proposta.
Il dibattito è condizionato dall’esperienza dei colleghi. Io faccio il magistrato di sorveglianza, lavoro sul carcere, e credo che non sia tollerabile vedere le condanne diventare effettive a distanza di molti anni dal fatto. L’esperienza quotidiana dice anche dopo 12 o 15 anni. Intervenire solo sulla prescrizione scarica tutto il peso sulla parte più debole del processo penale, l’imputato. E lancia il messaggio che si possono dilatare i tempi del processo con totale sacrificio del principio di non colpevolezza, tutelato dall’articolo 27 della Costituzione. Per questo mi pare una riforma non solo incompleta, ma anche estremamente pericolosa.
Una riforma che peraltro arriva a poca istanza da un’altra. È possibile valutare l’impatto della legge Orlando?
Non ancora, è questo il paradosso. Quella legge ha già modificato in maniera consistente i tempi della prescrizione del reato, interrompendoli per complessivi tre anni dopo il primo grado. Naturalmente può riguardare solo i reati commessi dopo l’entrata in vigore (3 agosto 2017). In attesa di una serena valutazione meglio sarebbe stato lavorare per cercare di ridurre i tempi del processo, per esempio rivedendo le impugnazioni e le notifiche, consentendo un accesso diffuso accesso ai riti abbreviati.
La maggioranza non sta facendo il contrario? Un disegno di legge approvato ieri alla camera esclude i riti alternativi per i reati punibili con l’ergastolo.
Proprio così. Anzi, peggio di così perché è lo stesso disegno di legge anti corruzione, quello nel quale si vuole infilare una riforma epocale della prescrizione – con un metodo inaccettabile – che impedisce il ricorso ai riti alternativi per tutta una serie di reati. E ne scarica il peso sul rito ordinario, ingolfando ulteriormente.
L’interruzione della prescrizione dopo il primo grado è però prevista in altri paesi europei.
È vero, per esempio in Spagna o in Germania. Che però hanno sistemi processuali diversi dal nostro. Ad esempio, nel caso il processo non si concluda in tempi ragionevoli è previsto il rimedio compensativo della riduzione della pena.
In Italia la maggior parte dei reati si prescrive in fase di indagini, è una responsabilità della magistratura?
Influiscono certamente le scelte delle procure che, a fronte di risorse scarse, tendono a sacrificare alcuni processi per garantire quelli più importanti. Ma si prescrivono soprattutto i reati di più difficile accertamento che sono poi quelli commessi dai colletti bianchi. Mentre arrivano a conclusione i processi per i poveracci. È una selezione che lede il principio di uguaglianza e che avviene ben prima delle sentenze di primo grado.
Se il compromesso tra Lega e 5 Stelle prevedesse l’interruzione della prescrizione dopo il primo grado solo per i reati più gravi?
Quale sarebbe la differenza? I reati più gravi sono anche quelli che hanno anche la prescrizione più lunga, dunque in pratica parliamo della stessa cosa.
il manifesto 7.11.18
Niente tagli alla cultura? Parole, parole…
Ri-Mediamo. Forse l’attuale compagine «gialloverde» non ha interesse per un incremento della consapevolezza di massa, figlia di istruzione e di diffusione dei saperi. Trionfa l’era della soggezione alla dittatura degli algoritmi su cui si reggono i social. È il momento di rilanciare gli obiettivi della giornata di mobilitazione del 6 ottobre. Contro la macelleria attuata dai governi presieduti da Berlusconi l’iniziativa si fece sentire. E ora?
di Vincenzo Vita
Non ci si crede. Ma la maledizione dei tagli alle attività culturali non finisce mai. Da quelli ruvidi dell’allora ministro Tremonti in poi, con l’eccezione di Franceschini ma pure lui senza una reale strategia alternativa, la linea recessiva è diventata la normalità.
La legge di bilancio, ora in discussione in parlamento, conferma la solita storiaccia. Eppure il ministro Bonisoli aveva esternato tutt’altro, al punto che si era alzata nel settore qualche voce di plauso e si diffondeva un certo ottimismo. Insomma, i patetici discorsetti sui «giacimenti» culturali, il Belpaese, il patrimonio artistico «unico al mondo» sono meno delle chiacchiere da bar. Parole, parole.
Al dunque riemerge la filosofia profonda maturata negli anni dell’egemonia liberista: il mercato è tutto e la cultura è una noiosa spesa e non già un prezioso investimento. Indirettamente produttivo e anti-ciclico. In epoca di crisi economica e finanziaria il rilancio dello stato come «impresario culturale» sarebbe essenziale.
Purtroppo, salvo eventuali emendamenti durante l’iter delle camere, l’articolo 59 del testo («Ulteriori misure di riduzione della spesa») taglieggia diverse misure significative: i crediti di imposta previsti per librerie ed esercizio cinematografico (linea Netflix?) sono diminuiti di circa 6 milioni di euro. Di 20 milioni è sminuzzato il bonus per i giovani, giusto o meno che fosse. Prosegue la logica del commissariamento delle fondazioni lirico-sinfoniche.
E chissà che fine farà il tax credit per cinema ed audiovisivo, legato a scelte tuttora incerte. Anzi. Il difetto della riforma del cinema del novembre del 2016, sotto l’egida proprio di Franceschini, è – tra gli altri – di aver rinviato ad una sequenza davvero eccessiva di decreti attuativi e di regolamenti l’effettiva entrata in vigore di taluni dei punti cruciali del testo. Le disposizioni sulle quote obbligatorie di investimento da parte delle emittenti televisive nella produzione cinematografica ed audiovisiva e la complessa normativa (pur monca e indefinita) sul tax credit rimangono appese ad un filo esile.
Perché mai un simile stillicidio? Eppure la domanda ci sarebbe, come ha ben spiegato il rapporto annuale di Federculture. I consumi aumentano del 3,1% sull’anno scorso, pur con una forte disparità tra nord e sud. Ciò significa che un’oculata politica di investimenti potrebbe dare luogo ad un vero e proprio salto di qualità. È assurdo, dunque, che la legge di bilancio sia la noiosa e amara riedizione di una tendenza dura a morire.
Forse, però, l’attuale compagine «gialloverde» non ha interesse per un incremento della consapevolezza di massa, figlia di istruzione e di diffusione dei saperi. Trionfa l’era della soggezione alla dittatura degli algoritmi su cui si reggono i social. In crisi la lettura di libri e di giornali , travolte le sale dal travolgente successo del video on demand, umiliate scuola, università e ricerca: il futuro è segnato. L’abbattimento delle varie forme di intermediazione lascia sul campo morti e feriti. E sì, perché ai tagli corrispondono disoccupazione e impoverimento di un sistema ormai allo stremo.
Senza parallelismi meccanici, va ricordato che l’attacco al «culturame» è stato (ed è) un tratto distintivo della nascita degli autoritarismi, magari in salsa digitale.
È proprio il momento di rilanciare gli obiettivi della giornata di mobilitazione del 6 ottobre. Contro la macelleria attuata dai governi presieduti da Silvio Berlusconi l’iniziativa si fece sentire. E ora?il manifesto 7.11.18
La Stampa 7.11.18
Midterm, i democratici conquistano la Camera
I repubblicani si rafforzano al Senato. La corsa delle donne: Alexandra Ocasio a New York è diventata la più giovane deputata mai eletta al Congresso. Ilhan Omar, ex rifugiata somala, alla Camera per il Minnesota
qui
Corriere 7.11.18
Alexandria, la deputata più giovane, guida l’onda di volti nuovi
A ventinove anni Ocasio-Cortez conquista New York e si propone come portabandiera della sinistra liberal
di Massimo Gaggi
NEW YORK Pochi mesi fa, a febbraio, lavorava ancora al banco del bar di un ristorante messicano di Union Square. Oggi è la rockstar della politica democratica: battendo il repubblicano Anthony Pappas in un distretto che copre due quartieri di New York, Bronx e Queens, a 29 anni Alexandria Ocasio-Cortez diventa la più giovane deputata della storia americana. Ma non è la sua elezione a renderla il personaggio-simbolo del voto Usa di midterm, visto che, tra l’altro, «correva» in un collegio nel quale i democratici sono storicamente sei volte più numerosi dei repubblicani e che Pappas non solo non ha fatto campagna elettorale ma, accusato di aver commesso in passato violenze domestiche, ha pure perso il sostegno del suo partito.
Alexandria, figlia di una modesta famiglia portoricana, è un simbolo perché incarna i tre fenomeni sociali sui quali il partito democratico ha cercato di costruire la sua riscossa dopo l’umiliante sconfitta infertagli due anni fa da Donald Trump: il nuovo attivismo delle donne nei posti di lavoro e nella società dopo il caso Weinstein e la nascita del movimento #MeToo; la reazione delle minoranze etniche a una presidenza che, criminalizzando i lavoratori stranieri senza documenti, finisce per creare un clima ostile nei confronti di tutti gli immigrati; il risveglio dei giovani progressisti che, disertate le urne quando c’era da votare per Hillary Clinton, potrebbero risvegliarsi oggi per personaggi più vicini alle loro sensibilità. Come, appunto, la Ocasio-Cortez.
La nuova stella democratica, però, può anche diventare un simbolo di divisione: quella tra i leader che hanno fin qui diretto il partito democratico tenendolo su posizioni moderate e liberali, aperte al libero commercio, e un’ala più radicale e socialisteggiante che diffida dell’economia di mercato e tende a mutuare da Trump, declinandolo in una versione di sinistra, il suo lessico populista e protezionista. La stella Ocasio nasce, infatti, da una frattura: alle primarie del 26 giugno scorso questa debuttante della politica - una studentessa prodigio alla quale è stato dedicato, per meriti scolastici, un asteroide, il 23238 Ocasio-Cortez, ma che poi, laureata a Boston in economia e relazioni internazionali, ha preferito tornare a New York per fare lavoro sociale mantenendosi con impieghi umili — ha battuto a sorpresa, mettendo fine alla sua carriera, un personaggio-chiave dell’establishment democratico: Joe Crawley, il numero tre nella linea di comando del partito che aveva l’appoggio del sindaco di New York, Bill de Blasio, del governatore dello Stato, Andrew Cuomo, dei due senatori di New York (Chuck Schumer e Kirsten Gillibrand), di 31 sindacati e anche di organizzazioni ambientaliste come il Sierra Club.
Alexandria, che è cresciuta politicamente lavorando per la campagna presidenziale di Bernie Sanders, il radicale che nel 2016 contese fino all’ultimo la nomination democratica alla Clinton, si definisce una socialista democratica. Oltre che per i diritti delle donne e delle minoranze etniche e sessuali e per un «sentiero verso la cittadinanza» per tutti gli immigrati, clandestini compresi, la pasionaria di New York si batte anche per far avanzare una piattaforma fatta di sanità universale, di college gratuito per tutti gli studenti universitari e di vincoli stringenti per combattere l’emergenza del deterioramento ambientale. Misure che non hanno nulla di rivoluzionario, ma che spaventano molti americani, se non altro per i loro enormi costi.
Oltre che un referendum su Trump, il voto di ieri è stato una verifica sul futuro del partito democratico. La sinistra liberal, sempre più venata di populismo, incarnata da Sanders, dalla senatrice Elizabeth Warren e, ora, da Ocasio, riuscirà a conquistare l’anima dei democratici o diventerà una sorta di Tea Party di sinistra?
La rivista Vogue, tra le prime a dedicare un profilo ad Alexandria, l’ha condito con un dubbio inquietante: «Difficile prevedere se diventerà una Sarah Palin, un Barack Obama o un dittatore venezuelano».
Repubblica 7.11.18
Amy Chozick
"Donne alla carica Siamo ripartite dalla sconfitta di Hillary Clinton"
intervista di Anna Lombardi
NEW YORK Sono convinta che l’alto numero di deputate donne che vedremo nel 2019 al Congresso non nasce solo dalla reazione alla misoginia di Donald Trump. Lo dobbiamo in parte a Hillary Clinton. Nel bene e nel male: perché se è vero che la sua corsa non ha rotto il "soffitto di cristallo", la barriera che da sempre impedisce alle donne di arrivare ai vertici, di sicuro ha mostrato a tante - soprattutto in casa democratica - che la strada è possibile. E a sue spese ha mostrato anche come non va percorsa». Amy Chozick, 39 anni, lo sa bene: è la reporter del New York Times che fra 2008 e 2016 fu al seguito di Hillary seguendone la parabola politica. Fino a sentirsi in parte responsabile della sconfitta: il suo giornale, si disse, dedicò troppo spazio al caso delle email private, rischiando di fare – lo si scoprì dopo – il gioco degli hacker russi. A quell’esperienza Amy ha dedicato un libro che esce domani in Italia, "In corsa con Hillary", edito da Harper Collins.
L’ombra di Hillary anche su queste elezioni?
«In America la sua figura divide ancora molto. Certo, molte neo elette – ma anche le donne scese in piazza a protestare e perfino le tante che hanno trovato il coraggio di denunciare abusi sessuali – hanno guardato a lei. Il fatto che sia stata sconfitta da Donald Trump le ha indignate.
E allo stesso tempo le ha fatte infuriare per i tanti errori da lei commessi. In questo Hillary ha fatto scuola: portano avanti il suo esempio, ma non il suo stile».
In che cosa si distinguono?
«Hanno capito che non c’è nessun bisogno di mostrarsi perfette. Hillary era impeccabile con i suoi tailleur a pantaloni e i focus group per dire sempre la cosa giusta: il risultato fu che sembrava finta. Le donne che hanno corso questa campagna hanno mostrato i tatuaggi, si sono portate dietro i figli, hanno raccontato le loro storie, passati non sempre edificanti.
Sono state il più possibile loro stesse».
Un esempio di comunicazione di successo?
«La più conosciuta, Alexandria Ocasio-Cortez, a New York, fu attaccata dalla destra perché in certe foto su una rivista aveva un abito griffato molto costoso. Le diedero della "socialista ipocrita": lei li ha zittiti senza vergognarsi di dire che quel vestito lo aveva comprato a un mercatino dell’usato per soli 29 dollari.
Impensabile in passato».
Quando vedremo un’altra donna correre per la Casa Bianca?
«Presto. Si fanno già i nomi di Elizabeth Warren, Kamala Harris, Kirsten Gillibrand.
Forse nei prossimi due anni emergeranno altre che entrano ora per la prima volta al Congresso».
E lei che ha vissuto da testimone la sconfitta di Hillary che consiglio darebbe?
«Parlare molto: anche con la stampa. Può sembrare autoreferenziale, ma uno dei problemi della Clinton fu proprio che non si concedeva a nessuno: perfino noi che la seguivamo da vicino faticavamo a capirla. Ora basta: devi dire chiaro tondo chi sei e cosa vuoi per cambiare davvero questo paese».
Repubblica 7.11.18
Isabel Wilkerson
"Eppure oggi i neri d’America lottano ancora per poter votare"
di A, L.
NEW YORK Ci saranno contestazioni e riconteggi. E ho paura. Prendete i risultati in certe contee del Sud. Lì migliaia di persone sono state cancellate dai registri oppure il loro voto è stato congelato per accertamenti, sfruttando regole burocratiche costruite proprio per escludere afroamericani e nuovi cittadini dalle urne. Ecco: tutto questo non può restare impunito». Isabel Wilkerson, 57 anni, nel 1994 fu la prima giornalista afroamericana a vincere il Pulitzer. Ma da tempo ha lasciato la cronaca per dedicarsi alla storia: e con il suo "Al calore di soli lontani", edito in Italia da Il Saggiatore, ha raccontato la grande migrazione degli afroamericani che fuggirono dal Sud per cercare riscatto al Nord. Un’epopea che adesso Hollywood si prepara a trasformare in una serie tv ispirata proprio ai personaggi da lei narrati.
Com’è possibile che ci si ritrovi ancora qui a 50 anni da quella marcia di Selma che Martin Luther King guidò proprio per dare ai neri il diritto di voto?
«Non è la Storia che si ripete: è un problema che purtroppo è sempre rimasto irrisolto. È vero, oggi non si possono più sottoporre gli elettori a umilianti "test letterari". Le Poll Taxes per cui potevi registrati solo se pagavi certe tasse e che escludeva di fatto i poveri sono state abolite nel 1966 insieme alla Grandfather Clause per cui votavi solo se i tuoi antenati godevano di quel diritto prima della guerra civile. Ma nel tempo i governanti razzisti hanno continuato a creare impedimenti».
Gli episodi denunciati di "voting suppression" sono stati tantissimi.
«Dipende dal cambio demografico del paese. L’alto numero di persone di colore – neri, latini, asiatici – che hanno oggi l’età e la volontà di votare.
Non dimentichiamo che il Voting Rights Act che dichiarò che le discriminazioni razziali erano illegali è solo dal 1965.
Quello a cui abbiamo assistito oggi è solo la tecnologizzazione di un vecchio sistema che da sempre cerca di tenere gli afroamericani lontani dalle urne».
Donald Trump ha fatto campagna proprio per alcuni dei politici accusati di aver creato nuove barriere al voto.
«Naturalmente lui copre le spalle: ma la realtà è che il fenomeno non nasce con Trump. Succede da prima del 2016: anche se i numeri di persone bloccate quest’anno sono impressionanti».
Seicentomila persone cancellate dai registri solo in Georgia: però queste elezioni hanno anche visto scendere in campo un altissimo numero di donne afroamericane.
«Le donne nere hanno dimostrato di essere la spina dorsale del partito democratico. Unite e organizzate sono state le artefici, un anno fa, della sconfitta di Roy Moore in Alabama, il giudice razzista accusato di aver molestato minorenni. Il suo avversario, Doug Jones, ha vinto con il loro voto più che con quello delle donne bianche. E questo ha dato fiducia e coraggio a molte.
Hanno capito la loro forza. E credo che questo abbia contribuito a spingerle a correre in massa. Ma basterà contro le trappole del voto?».
Corriere 7.11.18
«La sinistra vince se punta sul patriottismo»
di Viviana Mazza
Yascha Mounk, politologo di Harvard, analizza l’effetto dei populismi sulle istituzioni. «I pilastri costituzionali sono costantemente erosi da Trump»
«La vittoria dei democratici alla Camera vuol dire tre cose importanti: la prima è che Trump non potrà più dire che lui e solo lui rappresenta il popolo americano. Secondo: i democratici potranno bloccare molte iniziative legislative e impedire che abbia altri due anni per cambiare questo Paese. Terzo: possono cominciare ad aprire inchieste sulle sue possibili violazioni della legge». Yascha Mounk, politologo di Harvard, ha analizzato la fragilità della democrazia liberale di fronte al populismo nel suo libro «Popolo vs Democrazia, dalla cittadinanza alla dittatura elettorale», temi di cui parlerà a Milano, ospite dell’associazione «Reset Dialogues on Civilizations» il 9 novembre. I fan di Trump come giudicheranno questa elezione? «G li scienziati politici hanno scoperto che tra gli americani c’è un consenso sull’importanza della Costituzione e dello stato di diritto, ma che i repubblicani non vedono quello che fa Trump come un attacco alla democrazia. La mia paura non è che fra due o sei anni gli americani dicano “Io me ne frego della Costituzione”. Piuttosto, temo che si arrivi ad un punto in cui non esisteranno più istituzioni indipendenti, Trump avrà preso sempre più potere, e tuttavia i suoi fan lo riterranno il vero rappresentante del popolo, che ha reso il Paese più democratico. È la retorica di Orbán in Ungheria e di Erdogan in Turchia che può arrivare negli Stati Uniti».
La democrazia illiberale è ormai accettabile in America?
«L’idea è: se io sono stato eletto e rappresento il popolo, allora perché la Corte Suprema dovrebbe avere il potere di prendere decisioni che non mi piacciono? Secondo questa visione, opporsi a una Fbi indipendente o ad organi che possono ostacolare il presidente rende l’America più democratica. Questa è l’argomentazione dei populisti ma non è la verità, perché perdendo le tutele si riduce anche la possibilità di rimuovere in modo democratico un presidente o un premier. Ma l’argomentazione dei populisti è efficace: molta gente ci crede».
C’è stata un’erosione delle istituzioni democratiche con Trump?
«Assolutamente sì. Innanzitutto sul piano retorico: Trump attacca tutti i giorni i principi della democrazia liberale. Secondo: ci sono gli attacchi d’intesa con i repubblicani, come in Georgia (migliaia di afroamericani esclusi dal voto, ndr). Infine quelli nuovi, eclatanti: voler cambiare lo ius soli con un ordine esecutivo è un attentato all’idea stessa di repubblica costituzionale. E se i giudici nominati dai repubblicani alla Corte Suprema cominciano a comportarsi da membri di una squadra politica, Trump avrà corrotto una delle istituzioni più importanti che dovrebbe limitare il suo potere».
Destra e sinistra Usa contrappongono due diverse visioni di patriottismo?
«C’è l’idea di Trump di un’America definita dai vecchi privilegi, dove un vero americano è bianco e forse anche maschio. Ora per la sinistra è fondamentale decidere come parlare dell’America in un contesto di ingiustizie razziali scioccanti e di lunga durata. Ci sono due risposte possibili. La prima è quella di Obama: riconosciamo le ingiustizie, ma diciamo anche che non definiscono cos’è l’America, il cui significato sta nel superarle per realizzare i principi fondatori. Questa forma di patriottismo inclusivo lo ha aiutato a vincere due volte. Ma un’altra strategia, sempre più influente nella sinistra americana, è di dire, al contrario, che le ingiustizie definiscono questa nazione, denunciando il patriottismo americano come razzista e inaccettabile. Questa sfortunatamente non è una strategia vincente. Se lasciano quel campo ad altri, sarà la destra estrema che ha un patriottismo esplicito, a guadagnarci ».
Il partito democratico vincerà nel 2020?
«Da due anni dibattono come fare: c’è chi vuole mobilitare la base e chi punta sui moderati come le donne bianche di periferia. Ma gli strateghi sbagliano a credere che la base sia un gruppo molto a sinistra, dominato da giovani donne di colore meno istruite, che in economia vuole il socialismo e ha richieste culturali radicali su gender e sessismo. In realtà questo gruppo non esiste. Ce ne sono due molto diversi: il primo di attivisti ricchi, soprattutto bianchi, ben istruiti, più radicali; l’altro di giovani donne di colore che vogliono un salario migliore, l’assicurazione medica, ma a cui non interessano il socialismo né i dibattiti culturali su Twitter. La sinistra vincerà se saprà mobilitare tutti con un messaggio solo, basato sulle somiglianze anziché sulle differenze».
il manifesto 7.11.18
“La nuova sinistra vuole Sanders alla Casa Bianca”
di Giulio Calella
Bahaskar Sunkara aveva solo 21 anni nel 2010 quando ha pensato di fondare la rivista Jacobin, coinvolgendo molti coetanei nell’ambizione di fare una rivista marxista ma non propagandistica, accurata ma non accademica, innovativa senza rimuovere il passato, con un linguaggio capace di dialogare anche con l’immaginario pop e arrivare a più persone possibili. Bhaskar Sunkara oggi è direttore ed editore di una rivista che è arrivata a contare circa 40 mila abbonati, che ha settanta gruppi di lettura in tutto il Paese.
Bhaskar Sunkara, qual è la situazione della nuova sinistra socialista Usa?
Una cosa è l’ampia mobilitazione a sostegno di Bernie Sanders che ha attirato molto e continua a galvanizzare grazie alle sue assemblee e comizi nelle città; poi ci sono le persone che si sono entusiasmate con i nuovi candidati alle primarie del Partito democratico che si auto-definiscono socialisti come Alexandria Ocasio-Cortez; e infine c’è quel che si muove all’estrema sinistra. La mobilitazione più ampia si riattiverà con la campagna a favore di Sanders per le presidenziali del 2020, che ha molte potenzialità di far crescere la sinistra in generale. Poi c’è la sinistra radicale, per lo più organizzata nei Democratic Socialists of America (Dsa).
Quanto è recente il fenomeno?
Quando, nel 2007, ho aderito a Dsa c’erano non più di cinquemila membri attivi. Oggi sono più di cinquantamila. Quindi c’è stata una crescita enorme. In questo momento negli Stati Uniti non ci sono dei veri e propri movimenti sociali, almeno per la definizione che ne do io. Black Lives Matter si è oggi in larga parte esaurito o si è spostato in una direzione egemonizzata dalle Ong. Il movimento femminista del #MeToo è importante e ha consentito a molte donne di ribellarsi a molestie e discriminazioni di genere, ma la mobilitazione è stata in larga parte mediatica. Vedremo se si riusciranno ad avere un maggior numero di azioni di lavoratrici intorno alle rivendicazioni del #MeToo, ma per ora non sono sicuro che sia un movimento sociale paragonabile a quelli che avete avuto in Europa o che esistono oggi in paesi come Brasile o India.
Negli Usa manca di una forte sinistra politica, che invece si sta affermando in Europa solo recentemente.
La storia della sinistra italiana mi sembra una storia di opportunità sprecate, sconfitte autoinflitte e fallimenti. Anche la sinistra statunitense ha fatto la sua parte di errori, ma abbiamo dovuto cimentarci con la classe dirigente più potente della storia e con l’eredità storica dell’assenza di partiti laburisti o socialdemocratici che abbiano rappresentato gli interessi del mondo del lavoro. Direi che in Europa ci sono nuovi spazi. Non credo nel populismo di sinistra come teoria, ma penso che ci siano aspetti della sua retorica popolare – come quelli utilizzati da Podemos in Spagna – che dovremmo prendere come esempio. Penso che serva anche una posizione credibile sull’Europa, avanzando critiche da sinistra alle istituzioni europee, in modo che la destra non finisca per presentarsi come la sola credibile forza di opposizione.
Con quali prospettive?
La sinistra non deve perdere la fiducia nella capacità dei lavoratori di lottare per la propria emancipazione. C’è ancora una working class, può ancora essere organizzata, ci sono ancora interessi comuni che la uniscono. La working class è cambiata, è stata frammentata, ma le intuizioni fondamentali del marxismo e del socialismo tengono ancora.
La versione integrale di questa intervista è pubblicata dalla rivista Jacobin Italia in uscita il prossimo 15 novembre e pubblicata anche da www.jacobinitalia.it
Il Fatto 7.11.18
“Non lasciamo il nazionalismo ai nazionalisti”
di Giuliano Battiston
“La bestia del nazionalismo va addomesticata”. È sul piano della nazione, “rigettata a torto con tutti i suoi orpelli” dalla sinistra, che i difensori della democrazia liberale devono combattere. È quel che sostiene Yascha Mounk, politologo della Harvard University, conosciuto soprattutto per Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale (Feltrinelli 2018).
Yascha Mounk, democrazia e liberalismo vanno tenuti distinti ?
Se noi definiamo la democrazia in modo tale da includervi tutto ciò che ci appare desiderabile, risulta impossibile capire per esempio quanto accaduto in Svizzera, dove la maggioranza dei cittadini ha votato per proibire la costruzione di una moschea. Un voto che è allo stesso tempo democratico ma comunque illiberale. La distinzione, dunque, ci aiuta a comprendere l’emergere di due nuovi sistemi politici. Da una parte, da molti anni viviamo in sistemi di un liberalismo insufficientemente democratico, nei quali i diritti di libertà individuale vengono più o meno rispettati, ma le persone maturano l’impressione di non avere più il potere di assumere decisioni davvero rilevanti. Dall’altra parte, si affermano le democrazie illiberali, in cui alcuni leader, spesso popolari come Matteo Salvini in Italia, cominciano a violare i diritti individuali, a negare i diritti delle minoranze.
Il liberalismo non democratico corrisponde alla tecnocrazia oligarchica, mentre la democrazia illiberale al populismo autoritario. Quali sono i pericoli di questa forma di populismo?
In un primo momento il populismo autoritario si rivolge contro le minoranze, indebolisce le istituzioni, nega lo stato di diritto, esercitando una violenza contro il primo dei nostri valori, la libertà individuale. Ma una volta che i politici illiberali hanno indebolito le istituzioni indipendenti, modificato la natura degli equilibri costituzionali, assicurato l’elezione dei propri lealisti nelle commissioni elettorali, diventa impossibile rimuoverli dal governo attraverso strumenti democratici.
Lei suggerisce ai progressisti di adottare una forma di “patriottismo pragmatico” I nazionalisti di destra possono essere sconfitti sul loro stesso terreno?
Il nazionalismo rimane una forza politica molto presente e forte, un fattore centrale di mobilitazione e identità. Se tutti coloro che si oppongono al razzismo e al nazionalismo esclusivo abbandonassero il campo, personaggi come Matteo Salvini potrebbero monopolizzarlo, provocando la bestia fino a farne un animale nuovamente selvatico. La strategia migliore, non senza rischio, è di provare ad addomesticare ancora di più il nazionalismo. Occorre battersi per un nazionalismo inclusivo appunto.
La strategia da lei proposta non rischia di lasciare il campo transnazionale ai populisti? Bernie Sanders sul Guardian invoca un fronte progressista internazionale da opporre a “l’asse autoritario”.
Ho apprezzato l’articolo di Sanders: è stato molto esplicito sul pericolo rappresentato dall’autoritarismo illiberale, incluso quella russo. Sanders è un fiero patriota. Sa che il problema principale non è il fatto che Trump prometta la difesa degli interessi degli Stati Uniti: lo hanno fatto tutti i presidenti americani, e lo farebbe anche Sanders, da presidente. Il problema è che, per Trump e per gli altri membri dell’internazionale illiberale, l’unico modo per tutelare e proteggere gli interessi nazionali è quello di opporsi agli altri Paesi. Un’internazionale democratica o progressista dovrebbe basarsi sull’idea che ogni leader politico può voler mantenere gli interessi del proprio Paese, ma senza rinunciare alle forme di cooperazione internazionale che beneficiano tutti.
Il testo integrale su Reset.it
il manifesto 7.11.18
Grande guerra, tra i promotori del massacro i fabbricanti d’armi
Lutto, non festa. Le "celebrazioni" del Primo conflitto mondiale
Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa (Opal)
Stanno ormai per concludersi anche in Italia le manifestazioni del centenario della 1a Guerra Mondiale. Notiamo che il clima entro cui si sono svolte da noi è stato quello delle «celebrazioni», da una parte, e dall’altra quello della ripresa della retorica nazionalista e militare che, a fatica, era statamitigata negli scorsi decenni dal lavoro di pochi storici preparati. Si è tornati a una visione patriottica della storia, da cui sono scomparsi del tutto gli episodi scomodi, veri tabù, del pacifismo, della renitenza di massa e della diserzione, degli ammutinamenti e della fraternizzazione con i nemici, della demenziale incompetenza dei comandi, del generale e crescente odio per la guerra. Si è compattata l’unanimità intorno alla «sacralità» del «sacrificio» dei caduti e dell’eroismo dei combattenti della Grande Guerra, in un odierno rilancio di un’«identità nazionale» in verità assai problematico.
Opal, l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere, che ha tra i suoi compiti principali quello di promuovere e diffondere la cultura della pace, ritiene che nelle celebrazioni si sia dato troppo rilievo non solo al punto di vista «nazionale» (la guerra come cemento degli italiani e realizzazione del risorgimento) ma soprattutto alla cultura della guerra (le nuove armi, la guerra di trincea ecc.). Non si è dato abbastanza rilievo, invece, alle cause di questa guerra, che harappresentato l’entrata dell’umanità nella modernità, con il suo corredo di inutili stragi di massa, di esodi di popolazioni civili, di genocidi, di «pulizie etniche» e di un fallimento della «pace» post-bellica i cui effetti si sono protratti per tutto il Novecento, e si ri-presentano oggi.
Tra le cause, una delle principali fu la volontà bellica di tutto il ceto affaristico e imprenditoriale, capace di mobilitare risorse e propaganda anche quando la classe politica era decisamente schierata su posizioni neutralistiche. Durante la guerra, gli industriali delle armi furono i maggiori beneficiari della carneficina che falciò soprattutto contadini ed ex contadini di recente inurbati per andare a lavorare nelle fabbriche, anche in quelle poi militarizzate. Si costruirono allora ingenti fortune industriali, anche in Italia (dagli Agnelli ai Perrone dell’Ansaldo, ai Bombrini e ai Parodi-Delfino della Bpd, i Donegani della Montecatini, i Ro-meo dell’Alfa Romeo, i Caproni e i Macchi della nascente aviazione ecc.) e anche a Brescia (dai Beretta ai Franchi, dagli Gnutti ai Morselli della Caffaro). Una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese di guerra accertò «guadagni illeciti» ingenti e avrebbe recuperato la gigantesca cifra di 340 milioni di lire di «sovraprofitti» se non fosse stata prontamente soppressa da Mussolini due giorni dopo aver ottenuto la fiducia dal parlamento, nel novembre 1922.
Nell’imminenza della 2a edizione del Festival della Pace di Brescia, dedicato quest’anno al tema della nonviolenza, vogliamo ricordare il coraggio di Giacomo Matteotti che nel 1915 sostenne conveemenza le ragioni dell’antimilitarismo e dell’internazionalismo, e che fu condannato per disfattismo a tre anni di confino scontati a Campo Inglese (Messina). Le sue parole contro la guerra come violenza sono state poi riprese da Aldo Capitini, di cui si sono celebrati in questi giorni i cinquant’anni dalla scomparsa, nel suo Antifascismo tra i giovani (1966).
Per tenere attuali e comprensibili alle nuove generazioni le parole di Matteotti, di Capitini e di tutti coloro che hanno testimoniato la forza della pace e della nonviolenza, vogliamo ribadire che il 4 novembre 2018 non è stato un giorno di festa ma di lutto.
Corriere 7.11.18
Ezio Mauro racconta l’Italia del 2018. Partendo da Macerata e da Luca Traini
Ne «L’uomo bianco» (Feltrinelli) il gesto solitario di un folle diventa strumento per capire come siamo cambiati
Metamorfosi di un Paese
di Marco Imarisio
Alle undici del 3 febbraio 2018, Luca Traini ha salito l’ultimo gradino. Quello decisivo, che separa il prima dal dopo. Ha compiuto il passo che molti altri, privi della sua follia da clinicamente sano ma pur sempre follia, non hanno per fortuna il coraggio di fare.
Certo, la persona che per vendicare Pamela, una ragazza che non conosceva, vittima di un crimine orribile, salì sulla sua auto e percorse Macerata sparando ad altre persone che non conosceva, unite solo dal colore «diverso» della loro pelle, aveva davvero segni particolari, persino caricaturali, a cominciare da quelli tatuati sulla pelle, simboli celtici e incisioni naziste. Le copie del Mein Kampf custodite in casa, il saluto romano avvolto nel tricolore con il quale ha concluso la sua scorribanda, hanno reso possibile una lettura quasi rassicurante di quei fatti. Il matto del villaggio, il fascista reietto e solitario. L’eccezione.
La cronaca serve a restituire la portata morale, sociale, emotiva, di un evento. La cronaca ha il dovere di raccontare quel che si agita nella pancia di un Paese, deve o dovrebbe anticiparne le tendenze per meglio comprendere lo spirito del tempo. Ne L’uomo bianco (Feltrinelli), il nuovo libro di Ezio Mauro, i dettagli dell’attentato e la ricostruzione della vita di Traini, diventano lo strumento che consente di allargare lo sguardo. E nel farlo, l’ex direttore di «Repubblica» prova a rispondere a domande legittime in questa Italia del 2018, in questo periodo così confuso, anche a livello sociale. Cosa ci sta succedendo, cosa stiamo diventando, in quale preciso momento abbiamo smesso di auscultarla, la famosa pancia del Paese. Piaccia o non piaccia, sono in molti a chiederselo. Perché qualcosa è davvero cambiato, negli ultimi anni dove sotto ai nostri occhi ha preso corpo ed egemonia un grande risentimento nazionale che tutto sembra avvolgere, dalla chiacchiera da talk show a quella da bar, fino a un discorso che si vorrebbe politico.
«Tra le macerie, cammina lui: un superstite solitario, prima scartato dalla crescita, poi ferito dalla crisi, comunque deluso dalla rappresentanza, convinto di aver accumulato un credito che essendo inesigibile ha finito per trasformarsi in una lunghissima cambiale di rancore privato, da spendere o almeno da ostentare in pubblico. Poiché ciò che è accaduto nell’ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha spinto ancor più lontano gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire la democrazia, l’uomo che si sente solo scopre che nell’improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente».
La natura politica de L’uomo bianco consiste nell’individuazione del modo con il quale questa rabbia degli uomini dimenticati è stata veicolata, facendola diventare consenso, ai danni di chi è ultimo tra gli ultimi. È un processo che arriva da lontano, da quando, per assuefazione davanti a tante tragedie dell’immigrazione, si è cominciato a ridurre le donne e gli uomini che morivano in mare a semplici numeri. Fino al momento in cui è arrivato qualcuno che ha autorizzato una inversione morale, «scommettendo su una sorta di brutalità programmatica (...), perché oggi l’impietoso è un plusvalore e la ferocia delle parole produce un sicuro reddito al banco di una politica impazzita».
Una lettura a senso unico e con un unico responsabile del mito rinnovato dell’uomo bianco porterebbe solo a un altro vicolo cieco. Le pagine più desolate sono invece quelle dedicate agli altri. A una rappresentanza politica e sociale silente, a chi avrebbe dovuto impedire il cedimento dell’argine. «Smuoviamo ogni giorno il limite del consentito a noi stessi: un po’ più in là. Il limite del tollerato. Ciò che fino a ieri non ci permettevamo e non concedevamo agli altri. Contribuiamo a cambiare l’atmosfera, l’ambiente, il carattere stesso della nostra società. Con il silenzio, con l’assenso, con la mancanza di un dubbio, di una posizione forte di minoranza, di una critica, di un’obiezione capace di raccogliere un problema indicando una diversa via di soluzione. Ciò che si chiamava una volta l’opposizione».
Ezio Mauro fa un riassunto di vicende simili a quella di Macerata, cominciando dall’uccisione del migrante Sacko Soumaili, avvenuta a Rosarno dove già nel 2010 erano stati gambizzati quattro immigrati. Altri, meno gravi, ugualmente indicativi, sono sopraggiunti dopo l’uscita del libro, dalla mensa di Lodi alla signora che su un autobus non vuole sedere accanto «a una negra». Gesti isolati, certo. «Ma che non nascono per caso e non vengono dal nulla. Al contrario, possono contare su un clima di legittimazione strisciante, su una banalizzazione crescente e quotidiana dei troppi episodi di intolleranza razziale».
Adesso si può, o almeno sembra sia così. Quel che prima era un pensiero innominabile del quale vergognarsi può diventare senza alcun rimorso parola, nei casi più estremi farsi azione. La semplice pietà o la rivendicazione di un’identità diversa che ha radici nella nostra storia sono diventate buonismo, politicamente corretto, ormai categorie negative, insulti riservati agli intellettuali delle odiate élite, lasciando spazio alla cattiveria esibita, al linguaggio della ruspa. Proprio per questo, quello di Ezio Mauro non è un atto di accusa. È il racconto di una mutazione genetica in corso che riguarda tutti noi. Perché la cronaca non deve assegnare il torto o la ragione. La cronaca è il canarino nella miniera. Piaccia o non piaccia, L’uomo bianco è un libro necessario.
Repubblica 7.11.18
Treccani si lancia sul mercato Sarà sua metà scolastica Giunti
di Simonetta Fiori
L’Istituto dell’Enciclopedia sigla un accordo con la casa editrice fiorentina
La firma dell’accordo è prevista per il 30 novembre: l’Istituto Treccani acquisirà il cinquanta per cento delle azioni di Giunti Scuola (nel ramo che si occupa della secondaria superiore). E nel giro di tre anni dovrebbe arrivare a conquistare la maggioranza fino al sessanta per cento: così stabilisce una clausola contenuta nel contratto.
A Palazzo Mattei la notizia non viene confermata perché si aspetta il pronunciamento del consiglio di amministrazione che si riunirà il 28 novembre. Ma tutto lascia intendere che il cda voterà a favore dell’accordo, che segna l’ingresso dell’Enciclopedia Italiana nel mercato della scolastica.
Una notizia di rilievo per aspetti diversi. Il primo riguarda la fisionomia della Treccani, che prosegue la sua navigazione oltre l’era glaciale delle enciclopedie, entrate in crisi dopo la rivoluzione di Internet. La prima tappa di questa trasformazione consiste nella produzione di manuali per la scuola secondaria superiore – così stabilisce l’accordo con la casa fiorentina – un’attività che appare in continuità con la vocazione dell’Istituto. «Questa è sempre stata la missione dell’Enciclopedia italiana: contribuire alla formazioni delle classi dirigenti», dice il direttore generale Massimo Bray. «E per assolvere il compito non c’è luogo più adatto delle aule scolastiche».
L’idea parte dal successo del portale dedicato alla Scuola. «Il seguito che riscontriamo sul sito ci ha fatto capire in quale direzione muoverci».
Una direzione che si preanuncia remunerativa sul piano economico. In un mercato incerto, la scolastica mostra una discreta solidità: nel 2017 ha registrato una crescita del 3 per cento, raggiungendo quota 722 milioni di euro (rispetto ai 700 dell’anno precedente). E Giunti ne rappresenta una colonna importante. La sua leadership si esercita soprattutto nella scuola materna e primaria, e in quella secondaria con il nuovissimo marchio Giunti TVP, nato dall’accordo con Tancredi Vigliardi Paravia, altro erede di insigne tradizione.
Ma i segni di una metamorfosi della Treccani si riscontrano soprattutto in un passaggio che sarà successivo all’accordo con Giunti. È previsto infatti per la primavera il lancio in libreria di un nuovo marchio Treccani per la "varia" che pubblicherà principalmente saggistica divulgativa di buona qualità. Ci stanno lavorando da tempo Alessandro Grazioli e Giorgio Gianotto, provenienti dal mondo vitale della piccola e media editoria (entrambi hanno lavorato a minimum Fax, Gianotto anche nella direzione editoriale di Codice e di Baldini & Castoldi).
L’iniziativa resta ancora in penombra, dai contorni vaghi, anche perché la direzione teme di dare l’impressione di una mutazione genetica dell’Istituto.
In realtà si tratta di lavorare lungo le direttrici disciplinari della Treccani, che vanta una storia quasi centenaria nell’ambito delle scienze umane e ora dei nuovi saperi legati all’ambiente, alla tecnologia e alla geostoria.
«Abbiamo tante idee ma è troppo presto per parlarne», dice Gianotto, che non esclude la pubblicazione di libri di narrativa. E questa, sì, sarebbe una svolta.
La notizia ha un suo risvolto culturale per il matrimonio di due simboli importanti nella tradizione intellettuale italiana, che già compaiono affiancati nelle edizioni di dizionari, di corsi di letteratura e di libri d’arte. Nata nel 1965 dall’intuizione di Renato Giunti, la casa editrice fiorentina ha svolto un ruolo significativo in ambito letterario, specie nella produzione per i ragazzi, ampliando negli ultimi anni il proprio perimetro fino a divenire il terzo grande gruppo italiano (dopo Mondadori-Rizzoli e Gems). Per svariati decenni principale azienda culturale del paese, la Treccani ha vissuto una lunga crisi legata al tramonto delle enciclopedie. Dopo gli investimenti nelle piattaforme digitali – dove fioriscono riviste come Il tascabile – ora arriva la nuova scommessa dei manuali e dei saggi. In tempi controversi, un atto di fiducia nella carta e nei libri.
Il Fatto 7.11.18
“Avevo successo ma volevo solo buttarmi sotto la metro”
Domani in sala il film “Il ragazzo più felice del mondo” e una raccolta di storie di inizio carriera, “Boschi mai visti”. Il fumettista si racconta
di Stefano Feltri
“La mia sensazione è quella di essere finito da tempo, invece mi sorprendo sempre”. Gianni Pacinotti, cioè Gipi, risulta autentico anche quando dice cose che in bocca ad altri sembrerebbero soltanto falsa modestia. Domani esce per Coconino Press Boschi mai visti una raccolta delle sue storie di inizio carriera, quando non era ancora il fumettista italiano più importante (Zerocalcare è il più venduto). E sempre domani va al cinema con Il ragazzo più felice del mondo, prodotto da Fandango, passato dalla Mostra di Venezia, un film di Gipi su Gipi che gira un film sulle tracce di un misterioso personaggio che da decenni si spaccia per un adolescente e scrive cartoline agli autori italiani chiedendo un disegno in risposta.
Gipi, partiamo dal libro: quali sono questi Boschi mai visti?
Storie che risalgono fino a 25 anni fa. C’è roba iperviolenta e di sesso che avevo completamente dimenticato. Gli editor di Coconino sono andati a recuperarle dai diversi editori. Io non avevo più niente perché fino a quattro anni fa vendevo tutti gli originali a un collezionista che comprava tutto e poi un po’ rivendeva ad altri. Siamo diventati amici.
Ha venduto tutte le tavole originali?
Ho iniziato a fare libri a 37 anni, vendevano a 1.500-2.000 copie. Non ci potevo campare.
Al cinema esce Il ragazzo più felice del mondo. Davvero ha dedicato un intero film a questo misterioso adulto che da decenni si finge un quindicenne per chiedere disegni agli autori e poi hai deciso di non incontrarlo?
Quello che si vede nel film è tutto vero. L’incontro non c’è stato. Spero anzi che lui non abbia saputo nulla del film.
Difficile, visto che è uno che segue i fumetti.
Sì, ma in modo strano. Ha scritto lettere a tutti i disegnatori, senza un criterio di gusto. Non è un lettore normale, non credo sia mai andato a Lucca Comics, dove basta poco per avere un disegno a uno stand. La sua passione è mania.
Però ormai sa tutto di lui, dove abita, chi è, quanti anni ha.
So anche il nome dei vicini di casa. Ma, come racconto nel film, da una perizia grafologica ho avuto conferma che si tratta di una persona molto fragile. Mi sono reso conto che stavo per assalirlo con uno stile da infotaiment tipo Iene, con il montaggio fascista e la musichetta, anche se con le migliori intenzioni. Mi sono fermato in tempo.
E se il “ragazzo più felice del mondo” vedesse il film?
Spero apprezzi che l’ho protetto. Ha fatto del bene alle persone cui ha scritto. Io sono stato felice, e così tutti gli altri disegnatori. Certo, poi sono rimasti delusi quando hanno capito di non essere stati gli unici o i primi, ma non è così per tutte le storie d’amore?
Sono fedeli alla realtà anche i tormenti produttivi?
Tutto vero. Io e mia moglie abbiamo prodotto il film rovinandoci, fino allo zero sul conto in banca. Questo ci ha permesso di girare con tempi diversi da quelli di una produzione normale. Io ho scoperto quella lettera del finto adolescente nell’aprile del 2017 e dieci giorni dopo ero sul set, con una troupe di ragazzi. Poi Domenico Procacci di Fandango ha visto il pre-montato e lo ha comprato, permettendoci di fare la post-produzione. Ma a oggi sono ancora in bancarotta, anche se Fandango poi mi ridarà i soldi.
Nel film c’è anche il suo rapporto coi social. Ma come è possibile che il più celebre fumettista italiano se la prenda tanto se uno sconosciuto gli scrive: “Non ti leggo ma mi fai schifo”?
Ci ho ragionato a lungo. Sono stato molto fragile, ora non lo sono più. Chiunque fa un mestiere che prevede esposizione al pubblico ha qualcosa che non va nella testa, o forse nel cuore. Richiedere l’approvazione e l’affetto di sconosciuti, come fa chi va sul palco, chi pubblica un libro o fa un film, non è giusto. È molto più sano chiederlo alle persone che ami. Ci sono tanti mestieri onorevoli che non prevedono l’esposizione continua. Se la insegui è perché hai dei buchi profondi di affettività e li vuoi riempire con gli applausi. Ma io ho scoperto che gli applausi quel buco lo allargano.
E come lo ha capito?
Psicologia infantile. Se cresci circondato dall’approvazione, ti abitui ai complimenti, ti modelli sulle richieste dei genitori perché vuoi gli applausi. E così diventi un adulto diverso da quello che avresti voluto essere. L’amore che arriva solo quando sei bravo non ti scalda il cuore. Quello che ti arriva quando sei sbagliato è quello vero. Anche a me dicevano sempre quanto ero bravo quando me ne stavo buono buono in un angolo a disegnare. E io lo facevo perché sapevo che mi avrebbe portato approvazione. Questo è un problema molto diffuso, quando ne parlo negli incontri in pubblico c’è sempre qualcuno in sala che piange. Ma se sei cresciuto così, non sei consapevole di avere qualcosa che non va: vuoi essere bravo per ricevere gli applausi, e ci riesci. Ma non stai bene. Pensi che sia amore, invece è qualcosa che ti apre un buco dentro cui passa un vento gelido che non auguro al mio peggior nemico.
Lei però sembra averlo capito e, in qualche modo, ha reagito.
Negli anni in cui stavo a Parigi pensavo solo a sdraiarmi sotto la metro. Eppure ero al massimo del mio successo, La Mia Vita Disegnata Male era stato un trionfo, avevo una fidanzata francese. Ma stavo di merda. Eppure avevo esattamente tutto quello che volevo. Poi una mia sorella, più grande di me, che già si era posta queste domande, mi ha passato il libro di una psicoterapeuta, Alice Miller, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Mi ha cambiato: cercavo la mia foto tra le pagine perché leggevo la descrizione di tutti i miei comportamenti.
E come se ne esce?
Ho cercato una briciola del mio me originario. Ho lasciato la Francia e sono tornato in Italia, in provincia, dai miei amici delle medie che non sanno neanche che fumetti faccio. Ho iniziato a capire meglio. E, piano piano, a soffrire sempre meno.
Però nei fumetti questo percorso è rimasto sullo sfondo.
Non l’ho mai raccontato nei libri perché mi vergogno. Ma riesco a parlarne. È stata una bella guerra per me. E poi la mia vita è cambiata radicalmente quattro anni fa quando ho conosciuto quella che è diventata mia moglie. Mi sono innamorato per la prima volta a 50 anni. Pensavo: artisticamente sono fottuto, sto troppo bene. Avevo una serenità inedita e mi chiedevo: e ora di che cazzo parlo? Poi però ho scritto La terra dei figli dove non ero io l’oggetto centrale della mia narrazione e credo sia il mio libro migliore.
E ora?
Ora ho iniziato un libro nuovo, un dialogo con Dio, una questione che mi tormenta da tempo. Fa molto ridere. Vedremo se lo porterò avanti.
Una volta faceva strisce di satira politica. In questo momento sente la necessità di fare l’intellettuale impegnato come molti altri scrittori o artisti?
Io non credo alle iniziative degli intellettuali che mi uggiano i coglioni. Credo però alla necessità di scaricare le palle. Ho trovato una chiave con i corti per Propaganda Live su La7. Incanalo le mie ansie per il futuro del Paese in qualcosa che faccia ridere. Preferisco così che stare in un angolo a lamentarmi.
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