il manifesto 6.11.18
Ottobre russo, una partita a scacchi tra terra e cielo
Letture.
«Proletkult»: il romanzo distopico dei Wu Ming sulla Rivoluzione, vista
da un «marxista marziano» come Bogdanov e da una giovane aliena
di Girolamo De Michele
Esistono
diverse foto che ritraggono Lenin e Bogdanov sfidarsi a scacchi a
Capri, nel 1908, alla presenza di Gor’kij, Lunacarskij e altri. Una
partita che avrebbe potuto essere – ma non fu – il suggello alla
ricomposizione delle divisioni della fazione bolscevica. E che, stando
al racconto che ne fanno i Wu Ming nel 14 capitolo di Proletkult, Lenin
perse per eccesso di leninismo: per lui la realtà era un dato oggettivo,
e la sua conoscenza un atto meccanico e passivo come lo scatto di una
fotografia. Già all’epoca una réclame della Kodak diceva: «tu schiacci
il pulsante, il resto lo facciamo noi». Il gioco degli scacchi consiste
invece nel «vedere lo scacco matto prima dell’avversario,
soggettivamente, e poi manovrare per renderlo oggettivo»: qualcosa di
molto più affine alla filosofia di Bogdanov. Per il quale la conoscenza è
più simile al montaggio di un film, nel quale la stessa scena acquista
diversi significati a seconda del suo inserimento.
NON ERA ANCORA
ARRIVATO Antonioni a mostrare, con Blow up, che anche la fotografia ha
ben poco di oggettivo e passivo. Eppure, nove anni dopo, Lenin fu capace
di dare scacco matto allo zar con una mossa che rendeva oggettiva una
prefigurazione soggettiva: mentre Bogdanov sosteneva, in nome di una
concezione evoluzionistica della rivoluzione, l’appoggio al governo
Kerenskij – rimaneva insomma fermo alla fotografia statica della
situazione. La rivoluzione è una partita a scacchi? Forse: di certo, in
entrambi i giochi agonistici ciò che conta è lo sviluppo futuro: ma
anche, e soprattutto, il presente che rende possibile quel futuro. Che
lo rende reale – ma al tempo stesso, che nel realizzarlo recide alcuni
dei suoi possibili.
DOVEVANO, I WU MING, abbandonare il romanzo
storico per narrare la Rivoluzione d’Ottobre: per essere liberi di farlo
senza rischiare la caduta nel tribunale della ragione. Narrare la
rivoluzione da un duplice punto di vista straniante: quello di Alexandr
Bogdanov, «marxista marziano» scomunicato due volte da Lenin, né
bolscevico né menscevico, imprigionato dalla Gpu (la dittatura del
proletariato non può concedersi l’habeas corpus), scienziato, scrittore
di fantascienza, terrorista – un uomo in fuga, come capita di trovarne
nei romanzi dei Wu Ming; e quello di Denni, ragazza aliena proveniente
dal pianeta Nacun narrato da Bogdanov nel romanzo Stella rossa, ovvero
giovane aliena che si è rifugiata in un delirio allucinatorio fondato
sulla lettura di quel romanzo. Come dire, l’Usbek di Montesquieu e il
Candido di Sciascia nello stesso romanzo, a intrecciare discussioni
sulla rivoluzione: ne valeva la pena?
Sì, se si considera che si
sono visti posti peggiori. Sì, se, con le parole di Alekandra Kollontaj,
si considerano le conquiste delle donne ottenute prendendo il potere:
«e anche se il risultato che ottieni non è il meglio che ti aspettavi,
lo devi difendere. Se non sei disposto a farlo, tanto vale che non ci
provi nemmeno».
PROVARCI, e magari riuscirci, non significa però
scattare una fotografia, e fermarsi lì: la vera rivoluzione è quella che
accade dentro le teste, e le teste non cambia nello stesso modo. Essere
capaci di fare a meno del Piccolo Padre che è dentro di noi. Per questo
una rivoluzione non basta: ce ne vorrebbero cento, non in un solo paese
ma in tutto l’universo, come afferma Denni, che forse vede l’Urss
dall’astro di Nacun, dove la rivoluzione ha già vinto, e forse è una che
è evasa dalla realtà. Evadere dalla realtà può essere sbagliato, se il
compito è distruggere la prigione: però per farlo bisogna essere capaci
di immaginare un mondo senza prigioni, come Denni. E, aggiungerebbe
David Foster Wallace, bisogna essere capaci di vederla, la prigione.
PER
QUESTO la rivoluzione non può essere giudicata: deve essere narrata, in
un dedalo di storie che passano di bocca in bocca, né mie né tue ma
nostre, che sono strumenti per conoscere e cambiare il mondo – che sono
poi un’unica cosa. Le stelle sono un buon punto di vista: migliore
dell’io, il più lurido dei pronomi. Ne vale la pena: per quanto alto sia
il prezzo da pagare, non sarà più alto di quello che l’umanità ha
pagato in secoli di schiavitù e sfruttamento.