il manifesto 6.11.18
La rivoluzione ultragalattica
Il romanzo «Proletkult» del collettivo Wu Ming, pubblicato da Einaudi
nell’immagine L.V. Sayanskij, «Soon the Whole World Will Be Ours», 1919
di Giovanna Ferrara
I
dieci anni dopo la rivoluzione del 1917, esplorazione di un sogno
comune, amarezza di una realtà che non regge al progetto, storia di un
dissenso nella frazione bolcesvica, nato ai tempi dell’esilio del 1905, e
incarnatosi, dopo la presa del palazzo d’inverno, nel gruppo
Proletkult, cui il collettivo Wu Ming dedica un importante romanzo
(Proletkult, Einaudi, pp.333, 18,50 euro).
A CONTENDERSI il
significato stesso dell’evento-rivoluzione Lenin e Bogdanov. Comuni ai
due le mosse iniziali, una rapina colossale per finanziare gli esuli e
mantenere acceso il motore dell’insurrezione. Scrivere articoli in una
dacia in Finlandia, vita in comune e poi le divisioni.
Lenin non
tollerava le speculazioni di Empiriomonismo, dove prima dell’evento
veniva la costruzione di una coscienza dell’evento, cui aggiungere il
sigillo dato da una scienza dell’organizzazione universale, la
tectologhia: processo di organizzazione del dato che dal caos impianta
il soggetto collettivo nella dolcezza dell’armonia. Anche il conflitto,
ineliminabile, seguiva la stessa traiettoria. Per Bogdanov questo
incarnava l’assioma di Rosa Luxembourg: «il marxismo deve sempre lottare
per le nuove verità».
A Capri, ospite dello scrittore Gor’kij,
negli anni prima del ’17 assieme a Bogdanov c’era anche Lunacarskij,
futuro ministro dell’istruzione. A tutti le scoscese a mare, dove
sbattono le onde costiere nate da un blu luminescente, regalarono
visioni di moltitudini come branchi di pesci, un mondo indistinguibile
dalla bellezza. Fondarono la prima scuola per operai, cui partecipò il
meccano-filosofo Voloch, che nel romanzo ispira a Bogdanov il libro
Stella Rossa, fantavventura di un pianeta socialista (da poco riedito).
NON
SOLO PENSARONO a come costruire una cultura proletaria. Si spinsero più
in là, arrivando, per il tramite del metodo nietzschiano della
trasvalutazione dei valori, a costruire dio dalla potenza del
collettivo, il volto dipinto dalla marxista umanità solidale. Ne
parlarono anche dopo la scomunica di Lenin, che usò quell’«opportunismo
geniale», per azzerare il dissenso interno: era solo idealismo,
contrario al materialismo marxista e, per questo, ostacolo alla catena
di eventi che doveva portarli nel cuore della Rivoluzione.
Lenin
sapeva che fare, la domanda era finzione: la verità oggettiva non la si
costruisce assieme, è solo una tavola imbandita, cui bisogna sedere non
per un pranzo di gala ma per rovesciare i rapporti di forze e
prenderselo quel tavolo. Ma dopo che la rivoluzione ci fu perché
diventarono «un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario»? È
Alexandra Kollontaj, di cui il libro ricorda la tenacia nella così
lungimirante battaglia della differenza, a rispondere allo smarrimento
di un Bogdanov ormai solo scienziato: «Se pure questo evento imperfetto,
non era il risultato che ci aspettavamo, ebbene, va comunque difeso».
DALLA
STELLA ROSSA arriva Denni, trova il padre del suo pianeta e gli
racconta di come il suo sogno si è fatto prassi: alla lotta con
l’ambiente si faceva fronte con l’«Interplanetarismo», nessun confine né
terrestre né stellare. «Mamma» e «papà» non erano altro che aggettivi,
perché dopo i tre anni si vive tutti assieme. Poiché il linguaggio fissa
i concetti «se si parla della vita come fosse una cosa non si potrà
rispettarla». Niente padroni, perché le gerarchie sono scomparse nella
testa delle persone.
I lavoratori si dirigevano da soli, per avere
più tempo e minore specializzazione. Intanto Proletkult, proiezione in
terra del «marxismo marziano», finiva con Bogdanov, che applicando alla
scienza il suo comunitarismo, sperimentava uno spericolato incrocio di
trasfusioni, convinto che il sangue delle persone andasse mischiato per
creare un grande noi, vittorioso persino sulla morte.
La scrittura
dei Wu Ming riempie la storia di pensieri segreti su come uscire
dall’isolamento senza compromettersi con le proprie ortodossie, come non
stingersi nella malattia del reducismo. Una dialettica che continua a
tracimare dall’esperienza di chi sogna che il pianeta socialista sia
proprio questo mondo. E siccome nella testa delle persone torna sempre
la tentazione del dominio, forse davvero bisogna capire che «di
rivoluzioni non ne basta una, ce ne vogliono cento».