domenica 4 novembre 2018

il manifesto 4.11.18
Caustico pamphlet su Atene
Classici ritradotti e commentati. Di chi è la «Costituzione degli Ateniesi»? Edizione commentata di Giuseppe Serra per la Valla. Con un saggio di Canfora
di Carlo Franco


Pensare l’Atene antica, che per i moderni è il lieu de mémoire del Partenone e della Democrazia, come un posto in cui dominava la canaglia popolare. Pensare quella democrazia come un regime perverso, in cui tutto però era organizzato in maniera efficientissima per opprimere e derubare la «gente per bene», ossia i ricchi. Pensare quella società come un luogo dove per gli schiavi era una pacchia (come si direbbe oggi), tanto che vestivano quasi come i liberi, e quando se ne voleva bastonare uno (come giusto e normale, che diamine!) si rischiava di colpire un libero. Con queste e altre considerazioni ora acute, ora acide e forse spiazzanti, un famoso testo greco discute, anzi critica radicalmente, la forma di governo degli ateniesi. Dell’opera che così seccamente distrugge il nostro mito, però, quasi nulla è certo: non la natura (saggio? dialogo? esercitazione retorica?), non la datazione (quinto secolo? prima, durante o dopo la guerra del Peloponneso? quarto secolo?), non la paternità (Senofonte, come dicono i manoscritti? oppure no? e chi allora?), non il titolo (giacché non di istituzioni si discute, ma di politica). Davvero, la Costituzione degli Ateniesi, attribuita convenzionalmente allo Pseudo Senofonte, ora edita a cura di Giuseppe Serra e accompagnata da un saggio di Luciano Canfora (Fondazione Valla/Mondadori, pp. LXXVI-224, € 35,00) è un testo molto particolare. Studiarla, leggerla, pensarci sopra, è quasi un’avventura intellettuale.
Una prosa spigolosa e poco ornata
Gli interrogativi suscitati dal testo sono ben rappresentati in questa edizione. Si vedono all’opera, in ruoli diversi, due espertissimi studiosi del tema, che sui punti controversi dialogano a distanza. L’introduzione, ampia e pacata, rende conto dei problemi critici e mostra quanto incerti siano i risultati conseguiti dalla pur lunga indagine sul testo. La traduzione conserva le spigolosità di una prosa poco ornata, apparsa a taluno «immatura» nell’argomentazione (quindi opera di un giovane?) con peculiari scelte di lessico e evidenti sbalzi d’umore. Il commento, pure dovuto a Serra, svolge un’analisi soprattutto filologica, studiando lingua e lessico e discutendo in dettaglio alcuni problemi testuali. Le note sono talora molto ampie, la discussione lascia aperte le ipotesi e manifesti i dubbi. Il saggio conclusivo, scritto da Canfora, presenta un’interpretazione generale differente, circa natura e obiettivi, paternità e cronologia del testo. Vi si riprende l’ipotesi che esso sia opera di Crizia, capo dei Trenta Tiranni, e che trasmetta la tensione politica dei circoli filospartani. La dura polemica contro la pesantezza del governo del popolo rivela la «democrazia come violenza» dei molti sui pochi e migliori. L’efficacia di questa lettura e la sua coerenza con il testo sono evidenti: la prospettiva filologica richiama comunque la non univocità degli indizi che la sorreggono.
Del resto, sembra l’autore il primo a «confondere le tracce» circa l’epoca in cui scrive, preferendo esprimere generalizzazioni e teorie invece che riferimenti concreti a fatti e persone. Che il testo sia ambientato ad Atene o no, che presupponga o invece preceda eventi reali della storia ateniese, che presenti peculiarità di lessico spiegabili «solo se» redatto in un certo momento o decennio, eccetera: ogni elemento, per questa anonima Costituzione degli Ateniesi è destinato a sfrangiarsi nella fuga dei dubbi, e nella circolarità delle prove. E non per difetto di metodo, sì perché in questioni di attribuzione e datazione, la pars destruens riesce più sicura di quella construens, ossia della proposta di nuova, pur ben argomentata ipotesi. Di fronte alle molte «scelte» che l’edizione, la traduzione e il commento richiedono, Serra non cela né impone il proprio giudizio. Il lettore è condotto a formarsi un’opinione sopra le tante incertezze che gravano sul (breve) testo, giudicando gli indizi, tutti controversi, sui quali si fondano le differenti soluzioni finora individuate.
Pervenuto tra gli scritti di Senofonte, il testo è stato ritenuto un apocrifo per ragioni stilistiche, contenutistiche e «ideologiche»: ma i risultati dell’analisi dipendono più di quanto si desidererebbe «dall’erudizione, dalla fantasia e dai preconcetti dell’interprete». Si è scritto che la maggior parte degli studiosi «non vuole» che il testo sia di Senofonte… Dall’ipotesi che l’autore sia un aristocratico, disgustato dalla lunga avversione per la democrazia ateniese è invalso l’uso di chiamarlo «Vecchio oligarca»: l’idea tuttora ha una certa fortuna, ma non una solida base. Un nome per l’autore non c’è: le proposte sono andate dal democratico «radicale» Cleone, all’oligarca Crizia, altrettanto «radicale». Gli indizi interni per la datazione interna risultano pure sfuggenti, e hanno condotto filologi e storici a proporre cronologie oscillanti di cinquant’anni o più (che per questa fase è cosa notevole, e preoccupante). E l’incertezza crescerebbe ancora se, come anche Serra suggerisce, il testo fingesse di essere ambientato negli anni della detestata democrazia, costituendo invece una meditazione «postuma», scritta nell’Atene del quarto secolo, in un contesto del tutto differente e con finalità ulteriormente ambigue.
Una lezione filologica di rigore
Molti delle riflessioni e dei materiali proposti indirizzano sottilmente a questa cronologia, portando a ripensare anche il rapporto, per molti aspetti innegabile, tra quanto sulla democrazia argomenta l’anonimo e quanto ne scrive Tucidide. Una cronologia «bassa», poi, rende «compatibile» l’attribuzione tradizionale del testo a Senofonte (se non a figura a lui prossima): ma ogni conclusione netta viene qui evitata, con una lezione di rigore e di stile. Il punto decisivo è un altro. Se il testo ha carattere «fittizio», ciò «equivale a dire che esso è letteratura», e il suo significato politico esce alquanto ridimensionato. Non tutti saranno pronti ad accettare questo passo: lo sguardo critico (o caustico) che le pagine dell’anonimo gettano sui meccanismi della democrazia ateniese risulta di fondamentale importanza.
Il volume della Fondazione Valla esce dieci anni dopo un commento inglese (J.L. Marr, P.J. Rhodes, The ’Old Oligarch’. The Constitution of the Athenians Attributed to Xenophon, Aris & Phillips, 2008), a pochi mesi dall’edizione per la Collection des universités de France (Pseudo-Xénophon. Constitution des Athéniens, a cura di D. Lenfant, Belles Lettres, 2017), in contemporanea con gli atti di un convegno sui due grandi testi relativi alla Costituzione degli Ateniesi (Athenaion Politeiai tra storia, politica e sociologia: Aristotele e Pseudo-Senofonte, Milano, Led 2018). E un altro convegno si annuncia in queste settimane a Strasburgo (Les aventures d’un pamphlet antidémocratique: transmission et réception de la Constitution des Athéniens du Pseudo-Xénophon). L’incessante lavoro sul testo è prova dell’interesse che esso suscita. L’edizione di Serra dialoga in modo riflettuto con una bibliografia amplissima, nella quale hanno spazio (con mirate omissioni) contributi critici, testuali o storici, di studiosi italiani. Questo libro dunque è un importante frutto della filologia classica nostrana. Chissà se il paese potrà mantenere a lungo nei classics uno standard simile. L’accelerato declino costringe ormai gli ingegni migliori a fare altro o, se vogliono occuparsi dei classici, a farlo altrove.