il manifesto 29.11.18
Tijuana, i naufraghi dell’Impero
Immigrazione.
Sulla martoriata frontiera tra i mondi dello sviluppo e dello
sfruttamento. I corpi umani qui sono sempre stati in balia delle manovre
del capitale, dislocati come forza lavoro in base ai programmi di
produzione e le esigenze di mercato. L’economia del sudovest degli Stati
uniti si regge sul lavoro degli immigrati ispanici
di Luca Celada
LOS
ANGELES L‘impari battaglia di Tijuana fra i diseredati della caravana e
i difensori del confine fortificato della prima superpotenza mondiale
ha prodotto l’ultima immagine iconica della crisi migratoria. La madre
coraggio in fuga dalle nuvole del gas lacrimogeno sparato dagli agenti
di frontiera ha offerto la rappresentazione quasi pittorica di
un’immagine che gli automobilisti in California conoscono bene.
I
cartelli stradali che sulle autostrade avvertono della presenza di
clandestini raffigurano una famiglia in procinto di pericoloso
attraversamento della carreggiata, alla stregua di animali selvatici. La
paradossale segnaletica rappresenta i profughi come fastidioso
impedimento alla viabilità.
La foto della madre che tenta di
trarre in salvo le figlie dall’attacco chimico delle falangi dell’impero
sulla cui soglia sono naufragate, è progressione naturale di quella
normalizzazione, emblema di un epoca di violenza metabolizzata nel
profondo.
Il fotogramma si va ad aggiungere ad altri, come quello
del bambino affogato sulle spiaggia di turca Bodrum, prodotte dalla
guerra transazionale contro i poveri e i deboli, elevati dal nazional
populismo globale a nemici della patria e diventati capro espiatorio e
ideale strumento per alimentare odio, risentimento e paranoia.
Ora
la prima linea di questo conflitto si estende al confine fra Messico e
USA. Naturalmente anche gli eventi degli ultimi giorni rimbalzano sugli
schermi di media e social nella consueta strumentalizzazione
antistorica.
La narrazione trumpista esige un mondo semplificato
da dare in pasto alla tifoseria inferocita: le orde barbariche che
premono alle mura, respinte dalle truppe mobilitate per difendere Blut
und Buden. Lo faranno, tuona il commander-in-chief per il visibilio dei
fedeli, a costo di “sigillare i confini”.
È lui per ora il
vincitore di questa rappresentazione pilotata che ha riprodotto nel
nuovo mondo uno scenario ben noto sulle rotte del Caucaso, del
Mediterraneo e delle guerre mediorientali.
La versione di Trump
comprende il diabolico comma 22: verranno tollerati unicamente ingressi
previa lecita richiesta di asilo, con la simultanea direttiva per cui
queste – in barba ad ogni ordinamento internazionale – non vengono
accolte.
Ai profughi non è infatti consentito avvicinarsi
all’ufficio preposto e in ogni caso, fanno sapere dal dipartimento di
Homeland Security, non ci sarebbe il personale sufficiente.
Per i
profughi è un efferato limbo kafkiano e più si accalcano i nuovi arrivi
più sale la pressione sul governo entrante di Andrés Manuel Lopez
Obrador, secondo il preciso disegno che mira ad imporgli un accordo
modellato sull’appalto UE alla Turchia per gestire i rifugiati o del
sussidio italiano ai campi di tortura libici.
Per questo Trump
tiene ostaggio il flusso di confine al varco più trafficato del mondo,
linfa vitale per l’economia frontaliera del Messico.
È solo
l’ultima variazione sui soprusi che hanno sempre attraversato questo
confine sanguinante. Dall’invasione del 1847 costata al Messico metà del
proprio territorio, alla rapace egemonia economica degli ultimi due
secoli….Sul paese del sud è sempre gravata la perenne minaccia dello
scomodo impero settentrionale e tutta la sua storia può essere letta
nella chiave di come farvi fronte.
“Pobre México…” si dice ancora qui, “così lontano da dio cosi vicino agli Stati Uniti.”
Sulla
“linea” sono transitate generazioni di persone importate come forza
lavoro e deportate a seconda dell’utilità politica. Milioni di braccia
sono passate ad uso dell’agribusiness industriale del “paniere
californiano”.
Due milioni furono caricati su treni e deportati
negli anni 30 della grande depressione. “Non abbiamo attraversato il
confine,” rivendicano giustamente su ambo i lati della linea gli
ispanici nativi di questa terra meticcia: “Il confine ha attraversato
noi”.
Ma la realtà è che i corpi umani qui sono sempre stati in
balia delle manovre del capitale, dislocati come forza lavoro in base ai
programmi di produzione e le esigenze di mercato.
L’economia del
sudovest degli Stati uniti si regge sul lavoro degli immigrati ispanici.
12 milioni sono senza permesso, centinaia di migliaia frontalieri.
In
alternativa all’import di mano d’opera in nero c’è lo sfruttamento in
loco, come avviene delle fabbriche maquiladoras che riforniscono i
mercati Usa e che per costi competono con la Cina.
La
delocalizzazione di recente è stata adottata anche dall’agribusiness.
Oggi zone di agricoltura intensiva come il Valle de San Quintin
riforniscono le corporation agricole americane come la Driscoll’s di
prodotti a basso costo: è più vantaggioso ormai importare la frutta
piuttosto che le persone che la raccolgono sui campi americani.
In
questo modo rimangono oltreconfine anche i problemi – e le
rivendicazioni – che le persone inevitabilmente si portano appresso.
Su
questa martoriata frontiera vengono a contatto diretto i mondi dello
sviluppo e dello sfruttamento, il terzo mondo e la spropositata
ricchezza di San Diego County.
Oggi che il potere dei mercati si è
sposato con quello arcigno di un regime che sottoscrive apertamente la
politica eugenetica, i migranti sono diventate comparse in un gioco che
alimentata la crisi col proposito specifico di fomentare la tensione ed
il risentimento di cui si nutre la nuova barbarie.
Sulla piaga del
confine fra padroni e diseredati Trump riversa veleno e lacrimogeno e
manda in scena un disastro umano sullo sfondo di un apocalisse
ecologica.
In questa rappresentazione, la signora nella foto, le
sue figlie e i 10.000 componenti delle carovane accampati nelle
tendopoli sull’uscio della terra promessa (come a Idomeni, come a
Calais) sono semplici figuranti, comparse nell’ultimo teatro della
crudeltà.