il manifesto 29.11.18
Neoliberalismo, tutto cominciò nella Camera di commercio a Vienna
Saggi. Una indagine storica firmata da Quinn Slobodian e pubblicata per Harvard University Press
di Paolo Di Motoli
Lo
storico del Wellesley college (Massachussets) Quinn Slobodian ha
pubblicato di recente un testo (Globalist. The End of Empire and the
Birth of Neoliberalism, Harvard University Press) che intende raccontare
la nascita del neoliberalismo da un punto di vista differente rispetto
alla vulgata comune anche tra gli scienziati sociali.
Secondo
l’autore uno degli ostacoli principali nel raccontare il neoliberalismo,
ponendosi dal punto di vista dei suoi animatori, è l’eccessiva fiducia
nelle categorie interpretative del celebre storico dell’economia e
antropologo Karl Polanyi.
L’INFLUENZA RETROATTIVA della sua opera
più importante dal titolo La grande trasformazione ha prodotto una
narrazione del neoliberalismo (pur precedendolo) come di un movimento
teorico volto a «liberare» dalla società il mercato interpretato come
fatto naturale e realizzando l’utopia di un mercato che si regolamenta
da solo. Questa narrazione si è di fatto sovrapposta alle reali
intenzioni degli stessi autori ascrivibili al neoliberalismo che invece
pensavano al mercato come intreccio di relazioni che deve fare
affidamento sulle reti istituzionali.
Secondo Slobodian, fin dai
suoi esordi, il neoliberalismo austriaco non avrebbe cercato di
abbattere lo stato, ma di creare un ordine internazionale ben
strutturato in grado di salvaguardare la proprietà privata dalle
ingerenze dei singoli stati. Questo pensiero era il frutto di una
reazione di stampo conservatore al crollo dell’impero asburgico.
LO
STORICO FA INIZIARE il neoliberalismo non dall’autonarrazione eroica
che ne fecero i membri della Mont Pèlerin society (otto premi Nobel al
suo interno) del 1947 che nella pubblicistica si è sempre battuta per il
liberalismo e per la società aperta, ma dall’edificio della Camera di
commercio di Vienna dove Ludwig Von Mises cominciò a lavorare a partire
dal 1909.
MISES RITENEVA il crollo asburgico come una minaccia per
la proprietà privata poiché questa era garantita in passato
dall’imperatore mentre con la democrazia poteva essere messa in
discussione e controllata dallo stato. L’avvento del fascismo venne
salutato da Mises con sollievo e l’ordoliberale tedesco Wilhelm Röpke
gli fece eco con ancora maggiore convinzione. Il teorico tedesco scrisse
nel 1964 che i neri del sud Africa appartenevano a un livello di
civiltà inferiore e che l’apartheid non era oppressivo e assieme alla
Rhodesia era uno dei bastioni della civiltà bianca attaccata dal nuovo
ordine postcoloniale. William Hutt, economista inglese ascrivibile alla
scuola austriaca che lavorò alla Cape Town University teorizzava la
difesa dell’occidente bianco, cristiano e caucasico da quello che
chiamava in epoca postcoloniale «imperialismo nero». Slobodian non ci
parla di Milton Friedman e delle politiche reaganiane ma dei neoliberali
che da Vienna passarono a Ginevra (sede della Società delle Nazioni dal
1920) focalizzando il loro pensiero sulla politica globale.
DOPO
GLI ECONOMISTI, pronti a mettere in discussione lo statuto
epistemologico stesso della loro disciplina – poiché la sua
istituzionalizzazione rischiava di per sé di portare a pianificazione e
redistribuzione – venne una nuova generazione di giuristi come
Ernst-Ulrich Petersmann che lavorarono per costruire ordini
internazionali e intergovernativi per il commercio e la protezione
legale della proprietà privata. Von Hayek in una lettera al Times di
Londra del 1978 sosteneva che le libertà personali erano più ampie sotto
il regime di Pinochet piuttosto che sotto Allende, avendo in mente
proprio la difesa della proprietà privata.