il manifesto 24.11.18
Le cifre da capogiro della prevaricazione patriarcale
Dal
cielo alla terra. Pubblicata la prima indagine Istat sulla violenza
maschile contro le donne. Una mappatura dei centri antiviolenza
di Alessandra Pigliaru
Nel
mondo, una donna su tre, vive violenza fisica o sessuale da parte,
principalmente, del proprio partner. L’Organizzazione mondiale della
sanità la chiama «la più diffusa e meno segnalata delle violazioni dei
diritti umani». L’analisi dell’Oms, seppure sia preziosa perché arriva
alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza maschile
alle donne, conferma e solleva un problema più cogente. Non si tratta
infatti di una contingenza storica bensì di una strutturale
prevaricazione di un sesso su un altro.
Recuperare i dati relativi
alle violenze è specchio drammatico del presente, ma dice anche la
temperatura, sociale e politica, dell’umano. In questo caso, di un
rapporto che è di dominio e di morte, nei casi di femminicidio. Ai dati
dei vari rapporti, mondiali, europei e dei singoli paesi, si dovrebbe
fare un distinguo su quelli ufficiali e gli altri forniti dalle
associazioni e dalle numerose reti che lavorano alacremente e quasi
senza un centesimo nelle varie zone del mondo. Infine, nonostante questi
incroci, amaramente si può constatare che oggi nella manifestazione
nazionale di Non Una Di Meno – che in queste ore attraverserà le strade
di Roma, come le altre «sorelle» che andranno a sfilare in altri
continenti – non si potrà mai rendere l’intero del fenomeno.
IN UN
FONDO GRIGIO si muovono moltissimi episodi che per diverse ragioni non
arrivano neppure alle statistiche. Va comunque riconosciuto che tutti i
monitoraggi messi in atto, seppure imperfetti o da verificare e
ulteriormente incrociare, sono espressione di un tentativo di sostegno
per quante intendano uscire dalla violenza. Così succede nel caso delle
linee previste dalla Convenzione di Istanbul in cui si inserisce, fra le
altre cose, la «helpline» a cui ha aderito anche l’Italia con
l’attivazione del numero verde 1522, strumento per sostenere e aiutare
chi subisce violenza e stalking. Anche di questi dati, imponenti, si
occupa la prima indagine Istat in collaborazione con il Dipartimento
Pari Opportunità, Regioni e Cnr, a proposito dei servizi offerti dai
centri antiviolenza alle donne vittime di violenza maschile. È un
esordio importante che interroga una riflessione politica poiché a
emergere dal corposo dossier reso fruibile da ieri tramite il sito
dell’Istituto nazionale di statistica, è l’istantanea di un 2017
terribile.
COMPOSTO da diverse sezioni, l’indagine comprende una
serie di relazioni, infografiche, tavole e tabelle che si spingono fino
al 2018, là dove vengono forniti i primi report possibili; è il caso dei
dati relativi al numero verde antiviolenza che da dicembre 2012
arrivano fino a maggio 2018. Di pochi giorni fa è il rapporto dei Centri
antiviolenza Di.Re. (restituito sulle pagine di questo giornale il 16
novembre) da cui risultavano più di 20mila le donne che si sono rivolte
nel 2017 alle oltre 85 strutture del network sparse sul territorio. Dal
rapporto Istat sono 49152; si potrebbe arrotondare per eccesso o
difetto, invece è bene, soprattutto in questo caso, avere contezza che
si tratta di singole storie, di esperienze in cui a essere stata vissuta
sulla propria pelle è una forma di violenza maschile. Più della metà
delle donne ha poi cominciato un percorso di uscita dalla violenza.
A
ESSERE interpellati dall’Istat, 281 centri antiviolenza di cui 253
hanno restituito il questionario completo. Un terzo dei Centri è
presente al sud Italia, poco meno della metà del numero totale è invece
al nord, al centro il 16% mentre Sicilia e Sardegna l’8%. Quasi il 70%
delle strutture è reperibile h24 con un lavoro dunque importante svolto
dalle operatrici che vengono formate appositamente, spesso da corsi
interni alle stesse strutture, e che accolgono le prime telefonate. Le
donne possono usufruire anche di supporto legale, psicologico,
orientamento ad altri servizi insieme a quello molto prezioso al lavoro,
un percorso di allontanamento, supporto alloggiativo e ai figli minori.
Quando i Centri non hanno infatti risorse sufficienti la rete
territoriale (l’86% dei Centri è in relazione con altre strutture) si
occupa dei singoli punti. Il 56% delle operatrici (4400 nel 2017) ha
svolto questi delicati compiti in forma volontaria. Se è giusto, oltre
che rilevante, assumere la battaglia dell’antiviolenza come una forma
della politica attiva, è pur vero che bisognerebbe domandarsi perché i
Centri antiviolenza non siano supportati, avvantaggiati e finanziati con
misure ulteriori. È un problema delle istituzioni che tuttavia ricade
sulle vite delle donne. Quelle stesse donne che possono comunque contare
su più salde alleanze relazionali, ogni volta che varcano la soglia di
un Centro antiviolenza.