il manifesto 23.11.18
Congresso virtuale e segretario eletto dal popolo
Primarie.
Il Pd è ormai un partito “in franchising”. I leader nazionali
contrattano il sostegno dei leader periferici, in cambio del pieno
controllo delle “filiali” locali. In queste condizioni, quanti saranno
gli elettori alle primarie sinceramente motivati dal sostegno ad un
candidato, e quanti quelli che invece saranno mobilitati da un
capo-cordata?
di Antonio Floridia
Il Pd ha
avviato le procedure per l’elezione del segretario (non chiamiamolo
congresso). Candidati non particolarmente innovativi e non si va oltre
un repertorio di luoghi comuni.
In assenza di idee forti, e di una
vera discussione politica, l’osservatore non può che concentrarsi su
alcuni dettagli, rivelatori dello stato e delle condizioni in cui si
trova il partito.
Il primo: ritorna lo sciagurato mantra del
“vincitore la sera delle elezioni”. Minniti considera una iattura
l’eventualità che dal voto ai gazebo non esca subito un candidato eletto
con oltre il 51% dei voti . Ricordiamo che l’Assemblea Nazionale, cui
spetterebbe decidere, in questo caso, con un ballottaggio tra i due
candidati più votati, è composta in modo rigorosamente proporzionale,
sulla base di liste (bloccate) collegate ai vari candidati. L’Assemblea,
quindi, non è dotata di una propria autonoma legittimità democratica: è
composta da membri, letteralmente, trainati (e prima ancora, decisi)
dai candidati-segretario. Perché, allora, questo allarme? E’ chiaro:
perché in tal caso, sarebbe necessaria, orribile solo a dirsi e a
pensarsi, una qualche mediazione.
Queste parole di Minniti, e non
solo sue, dimostrano quanto radicata sia la distorsione plebiscitaria
del modello di partito che caratterizza il Pd. All’interno di questa
logica, il leader è veramente tale se eletto dal “popolo”, e
risulterebbe dimezzato, delegittimato e senza le “mani libere”, se
subisse l’onta di essere votato da un organismo dirigente.
In un
partito sorretto da un normalissimo modello di democrazia
rappresentativa, gli organismi avrebbero e hanno il compito di
individuare un segretario che esprima le posizioni prevalenti, ma che
sia anche in grado di fare sintesi e di tenere insieme il partito: nel
Pd, no, non è così; vige una forma di democrazia immediata. Un vero
leader non può che essere unto dal popolo delle primarie: un popolo,
oltre tutto, sfuggente e indefinito, un “corpo sovrano” inafferrabile,
che si materializza solo al momento del voto, e poi svanisce.
La
seconda parola-chiave è posizionamento. Con questo termine si intende la
delicata operazione con cui i principali esponenti del partito, ma poi
giù, a cascata, tutti i vari notabili locali, decidono di dare il
proprio sostegno a questo o a quel candidato alla segreteria. Operazione
ad alto rischio, perché si tratta di scegliere il cavallo vincente su
cui puntare: ovviamente, vogliamo sperarlo, ci saranno anche nobili
motivazioni e ragioni politiche, a guidare questa scelta. Ma non ne
saremmo troppo sicuri: soprattutto, quando, si passa dai piani alti a
quelli più bassi.
Anche questo meccanismo è legato ad una
caratteristica strutturale del Pd: il suo essere un partito “in
franchising”. I leader nazionali contrattano il sostegno dei leader
periferici, in cambio del pieno controllo delle “filiali” locali. In
queste condizioni, quanti saranno gli elettori alle primarie
sinceramente motivati dal sostegno ad un candidato, e quanti quelli che
invece saranno mobilitati da un capo-cordata? In realtà, vincerà chi
riuscirà ad attivare la più efficace circolazione extra-corporea, ovvero
elettori che nulla hanno oramai a che fare con il partito e quel che
rimane della sua vita ordinaria.
Del resto, è quello che
raccontano le cronache politiche di queste settimane: Zingaretti che si
assicura il sostegno di Gentiloni e Franceschini, Minniti che esibisce
il sostegno di 500 sindaci, con De Luca che scalda i motori in Campania;
altri pezzi dell’ex-maggioranza renziana e delle ex-minoranze di
sinistra, che cercano forse un proprio autonomo spazio di manovra,
appoggiando Martina. Una logica che presuppone un preciso meccanismo: i
leader nazionali attivano i propri “referenti” regionali e locali e
questi, a loro volta, mobilitano i loro “terminali” alla base. Altro che
esercizio di democrazia: le primarie funzionano così.
Infine, un
terzo dettaglio, ma non di poco conto: Renzi, ostentatamente, diserta
l’Assemblea nazionale del 17 novembre. Le cronache hanno anche
raccontato come, in quel di Salsomaggiore, dove la settimana prima si
erano riuniti i renziani, serpeggiasse un certo malumore: il Capo sembra
disinteressarsi del destino delle sue truppe fedeli. La realtà,
semplicemente, è che quest’area del partito non è stata in grado di
esprimere un candidato forte, che fosse realmente rappresentativo del
renzismo di questi anni. Ma questo rivela come quella di Renzi non sia
stata una vera leadership, capace di costruire intorno a sé un gruppo
dirigente, un insieme di idee-forza, di visioni politiche e
programmatiche.
Nulla di tutto questo: è stato un esercizio di
comando solitario, vissuto nel vuoto e che lascia il vuoto. Per un
verso, questo modo di concepire la leadership si rivela disarmata,
quando si tratta di competere su un altro terreno, costretta a sostenere
di mala voglia un candidato, come Minniti, che ha altre radici, e che
sta già mostrando di non voler farsi etichettare come renziano (che ci
riesca veramente, è altra storia, e lo capiremo guardando alla
composizione delle liste che lo sosterranno); ma per altro verso, Renzi è
un Capo che conserva pur sempre una sua base strettamente personale di
consenso e una sua rete di potere.
Si spiega così come l’idea di
“andare oltre” il Pd, ambiguamente, torni ad aleggiare sullo sfondo: in
questa logica, il partito conta solo se lo si controlla, altrimenti lo
si può abbandonare al suo destino. E forse, per il bene di quel che
resta del Pd, sarebbe forse la cosa più saggia da fare.