il manifesto 21.11.18
Violento blitz dei militari libici sulla nave Nivin, «11 migranti feriti»
La denuncia di Mediterranea. I 79 profughi che resistevano a bordo costretti a scendere con la forza. Sono accusati di pirateria
I migranti a bordo del cargo Nivin
di Alessandra Sciurba*
Ieri mattina i profughi che resistevano asserragliati sul cargo Nivin a Misurata sono stati violentemente sbarcati.
Da
10 giorni rifiutavano di scendere da questa nave commerciale alla quale
il centro di coordinamento marittimo italiano (Imrcc) «da parte delle
autorità libiche» aveva ordinato, nella notte tra il 7 e l’8 novembre,
di soccorrere un gommone con 94 persone che si trovava nel Mediterraneo
poco distante dalla sua posizione. La Nivin aveva obbedito ed effettuato
il salvataggio, ma poi, sotto scorta delle motovedette libiche, aveva
riportato i profughi proprio nel paese da cui stavano fuggendo, a quanto
pare dicendo loro che sarebbero stati invece portati in Italia.
MEDITERRANEA,
allertata da Alarm Phone la notte stessa del naufragio, ha seguito la
storia della Nivin fin dall’inizio. Ha cercato di amplificare la voce di
quei ragazzi che chiedevano aiuto all’Europa, continuando a ripetere:
«Meglio morire che tornare in Libia». La maggior parte di loro,
peraltro, proviene da paesi come il Sudan, retto da un dittatore
condannato per crimini contro l’umanità, o dall’Eritrea, da dove
migliaia di giovani sono costretti alla fuga per salvarsi la vita.
La
loro resistenza ha rappresentato la scelta tra rischiare tutto per
cercare di rimanere esseri umani, oppure arrendersi alla violenza di un
sistema che prevede la riduzione di donne, uomini e bambini a rifiuti.
Solo una donna con il suo bambino di pochi mesi e alcuni minori erano
scesi quasi subito dalla Nivin, e il mondo ha letto, senza battere
ciglio, di come fossero stati riportati nei centri di detenzione libici.
Mediterranea,
fornendo costanti aggiornamenti sulla situazione di crisi sanitaria a
bordo, ma anche testimoniando della catena di comando che tramite
MrccIta aveva segnato la sorte dei profughi della Nivin, ha chiesto da
subito ai governi dell’Ue, a partire dal nostro, di intervenire per una
soluzione pacifica conducendo queste persone in un porto finalmente
sicuro. La stessa richiesta è stata fatta da Amnesty International, ma
anche da agenzie Onu come l’Oim. Ma nessuno ha ascoltato.
SI
TEMEVA DA GIORNI l’irruzione a bordo delle forze libiche contro i 79
profughi che non avevano accettato di essere nuovamente imprigionati,
dopo che i capi libici (come parlare di autorità in un paese governato
da milizie contrapposte?) avevano dichiarato di considerarli
semplicemente come terroristi e pirati. E di pirateria sono infatti
accusati adesso, con conseguenze prevedibilmente terribili.
Non è
ancora chiaro il livello di violenza usata sulle persone che erano sulla
nave nel momento del blitz. Francesca Mannocchi, unica giornalista
italiana sul posto, che è sempre stata in contatto con Mediterranea ed è
la fonte delle testimonianze pubblicate su mediterranearescue.org, ha
parlato fin da subito di feriti portati in ospedale, almeno 11 di cui 3
in gravi condizioni, e di molte persone ricondotte nei centri detentivi.
LA
LOTTA DEI PROFUGHI della Nivin riaccende le luci sull’aberrazione
giuridica di avere riconosciuto alla Libia una zona di ricerca e
soccorso in mare senza che questo paese possa essere in nessun modo
considerato un porto sicuro. Mentre si continua a criminalizzare le ong,
da ultimo il caso Aquarius, i governi europei, e l’Italia innanzitutto,
hanno non solo consentito, ma legittimato e messo a sistema la
violazione dei diritti fondamentali.
Nel 2006, quando esistevano
canali di ingresso legali, 550.000 migranti sono entrati in Italia con
un visto: quasi tre volte quelli arrivati nel 2016, l’anno della «crisi
dei rifugiati». I trafficanti, a quei tempi, non facevano buoni affari,
perché le persone arrivavano sui loro piedi e in modo più sicuro per
tutti. I profughi della Nivin ci hanno ricordato cosa è la dignità,
hanno fatto appello alla nostra umanità. Proviamo ad ascoltarli adesso.
*Mediterranea Saving Humans
Libia, minori detenuti con fondi della Ue
Arrestiamo umani. Denuncia dell'Unhcr e nuova inchiesta del Guardian nei centri di detenzione di Tripoli
Sono
ragazzini di 15-16 anni, per lo più somali, eritrei, sudanesi, richiusi
nei centri di detenzione libici che ricevono i soldi dal Fondo
fiduciario dell’Unione europea e vengono picchiati, maltrattati e
nutriti con mezzo piatto di pasta scondita al giorno, tenuti a dormire
per terra, ammassati senza alcuna igiene. La nuova inchiesta questa
volta pubblicata dal Guardian ieri e denuncia come in queste condizioni –
definite inaccettabili da Amnesty ma anche dall’Unhcr – vengano tenuti
anche con i finanziamenti del governo britannico. «Sono qui da quattro
mesi. Ho cercato di scappare tre volte per attraversare il mare e andare
in Italia ma ogni volta sono stato catturato e riportato al centro di
detenzione. Stiamo morendo qui ma a nessuno sembra importare, dobbiamo
essere portati in un posto sicuro, ma siamo rinchiusi qui. Non vediamo
l’alba e non vediamo il tramonto», dice un sedicenne.
Risale al 24
ottobre scorso l’ultima disperata protesta nel centro di detenzione di
Triq al Sikka documentata dall’Irish Times tramite la testimonianza
dell’Unhcr: un giovane di 20 anni si è dato fuoco dopo essere stato
riportato dentro dalla Guardia costiera di Tripoli mentre cercava di
raggiungere l’Italia. L’ottavo caso del genere lì nel 2018.