mercoledì 21 novembre 2018

Il Fatto 21.11.18
Libia, proiettili di gomma sui migranti della nave Nivin
La Guardia costiera nordafricana sbarca con la forza 79 persone. Circa 10 feriti – 5 secondo fonti Unhcr – tutte persone intossicate dal gas o colpite dagli spari
Libia, proiettili di gomma sui migranti della nave Nivin
di Antonio Massari


Dieci feriti, la prospettiva del carcere, l’accusa di pirateria. Quel che è accaduto ieri nel porto di Misurata è l’ennesima prova che non basta rifornire di motovedette la Guardia costiera nordafricana, né è sufficiente addestrare i militari, perché nessuno potrà mai convincere i migranti che l’inferno libico sia un “porto sicuro”. Se lo fosse, i militari libici non avrebbero dovuto sparare proiettili di gomma e lacrimogeni, per convincerli a scendere dalla Nivin, la nave di bandiera panamense che tredici giorni fa ha soccorso 79 migranti a circa 80 miglia dalla costa libica. Per dodici giorni si sono barricati nel mercantile poi attraccato a Misurata. Per dodici giorni si sono rifiutati di sbarcare in Libia. Finché non li hanno sgomberati con la forza. Circa dieci feriti – 5 secondo fonti Unhcr – ricoverati in ospedale, persone intossicate dal gas e colpite dai proiettili in caucciù, il resto trasferito nel centro di detenzione di Kararin e destinati al carcere, con l’accusa di pirateria. Dopo giorni e giorni di trattative, dei 94 migranti somali, eritrei, sudanesi e bengalesi, soltanto in 18 di loro avevano accettato di scendere dalla Nivin.
Due giorni fa uno dei migranti a bordo della nave mercantile ha spiegato in un video, pubblicato dalla giornalista Francesca Mannocchi, il motivo per cui aveva deciso, con i suoi compagni, di non sbarcare: “Vengo dall’Eritrea”, dice Cristin Igussol, “e sono in Libia dal 2016. Mi hanno venduto tre volte, mi hanno punito, mio fratello è morto tra le mie braccia. Se sbarco da questa nave mi ammazzano. Come posso sbarcare? Possono fare quello che vogliono, ma io non scendo. Anche se non mi danno da mangiare. Ho deciso così. Non è solo la mia decisione. È quella di tutti i 79 migranti che sono a bordo. Non scenderemo. Fino alla morte.
Ci serve una soluzione. Una soluzione in fretta perché siamo in cattive condizioni. se vedeste in quali condizioni, anche per un microsecondo… nessuno può vivere in questo paese”. Nessuna soluzione. Ieri è arrivato l’intervento dei militari libici. Credevano di essere fuggiti dal loro inferno, quando la Nivin li ha soccorsi dal barcone che rischiava l’affondamento: “Quelli della Nivin – hanno riferito i sopravvissuti – ci hanno detto che ci avrebbero portato in Italia, non a Misurata. Abbiamo avvistato Malta.
Poi ci hanno riportato indietro”. L’organizzazione Mediterranea – alla quale partecipano la Ong Sea Watch, Arci, Ya Basta Bologna, e parlamentari eletti con Leu Erasmo Palazzotto e Nicola Fratoianni – il 16 novembre ha segnalato che le “autorità italiane, fin dall’inizio, sono state coinvolte nel caso, ordinando alla Nivin di deviare dalla sua rotta, operare il salvataggio e contattare la Libia attraverso il centralino del centro di coordinamento italiano ubicato a Roma”. Niente di irregolare, considerato che la Libia s’è vista riconoscere una propria zona di salvataggio – Sar zone – ed è legittimata a intervenire. Il punto è che, per quanto possa esserlo sulla carta, nella realtà non è considerata un porto sicuro né dai migranti né dall’Onu che, in più di un’occasione, ne ha denunciato i crimini – stupri, rapine e torture – sulle persone, perpetrati nei centri di detenzione gestiti dalle milizie.
“Siamo profondamente rattristati – è la posizione dell’Unhcr interpellata dal Fatto – dalle notizie che giungono da Misurata dove si contano feriti dopo l’uso della forza. La riluttanza dei migranti a lasciare le condizioni di sicurezza a bordo della nave, la paura di essere destinati alla detenzione, è una reazione umanamente comprensibile. Non conosciamo le loro singole storie. Ma sappiamo che alcuni di loro potrebbero avere bisogno di protezione internazionale. Seguiremo i loro casi e ribadiamo la nostra richiesta alle autorità di istituire strutture d’accoglienza che offrano, per chi è sbarcato in Libia dopo un salvataggio in mare, un’alternativa alla detenzione”.