domenica 18 novembre 2018

il manifesto 18.11.18
Alla ricerca della “circulata melodia” di Virgilio
Classici ritradotti. Daniele Ventre ha tradotto Bucoliche, Georgiche ed Eneide per Mesogea, inseguendo la famosa naturalezza virgiliana in una vibrazione, ma sottotraccia
di Massimo Raffaeli


Potrebbe sorprendere la scelta di tradurre in una sola presa di fiato e dunque all’interno di una rettilinea monodia tutta quanta l’opera di Virgilio, Opere Bucoliche, Georgiche, Eneide (Mesogea, pp. 353, € 22,50), come ha appena fatto Daniele Ventre, già segnalatosi per una limpida resa dei poemi omerici nella tradizione, bis in idem a detta di Giorgio Pasquali, dei buoni classicisti. L’idea da cui muove Ventre individua nel Virgilio bucolico e georgico uno stigma lirico-elegiaco dato una volta per sempre, il quale non viene mai meno ma infine è capace di ricevere la totalità dell’esperienza e perciò di metabolizzare una materia propriamente epica. (E qui va da sé che la immagine di un Virgilio continuatore ovvero traduttore dell’eredità omerica è il topos pressoché inscalfibile della sua ricezione millenaria).
Insomma Ventre asseconda una pronuncia, si dica pure una leggendaria medietà di modulazione, che nel grande poema sa allargarsi alla interezza dello spettro tematico attingendo il Grande Stile ormai urbano e cosmopolita senza tuttavia smentire né il tono né il timbro squisitissimo della ispirazione originaria, che era invece lacustre e agreste. Come se la parola di Virgilio rispondesse a un genio calamitante e centripeto, a un costante principio equilibratore capace di occultare, o meglio di assorbire senza sbalzi visibili, ciò che il suo canonico dirimpettaio e deuteragonista, Orazio, mostrava e talvolta calcolatamente ostentava, cioè la callida iunctura, l’ardito accostamento (anche Leopardi nello Zibaldone parlerà di «ardiri» alla maniera di cellule generative) dove principia e consiste l’ordine metaforico della poesia in sé.
Nella sua nota introduttiva, Ventre legge la conquista della armonia poetica, in Virgilio, quale un doppio allegorico o un parallelo della mitologia del principato augusteo: «Come Orazio, combattente a Filippi dalla parte sbagliata, aveva finito, tramite Mecenate, per satellizzarsi intorno al princeps, così Virgilio era giunto a sottoscrivere un ordine politico dal cui avvento, in un primo tempo, era stato travolto: di più, si era ritrovato a condividerne in prima persona le istanze di rinnovamento». Quasi che Virgilio, l’ex espropriato, l’esule nostalgico dal Mincio suo assicello fluviale, proprio lui, l’antipode di ogni più tradizionale miles agricola, avesse viceversa ritrovato a Roma, sublimandone l’epica, la Placida Pax di una patria rediviva e insperabile. Per questo, scrive Ventre, come Virgilio torna costantemente al suo mondo primordiale e alla fonte di una ispirazione cristallina, così il suo traduttore deve sentire anche lui il perpetuo bisogno di «guardarsi indietro».
Ma nello stesso tempo, questo è ovvio, deve osservare, ritrovandolo davanti a sé, lo specchio ustorio della tradizione, delle sue potenti rifrazioni come delle sue distorsioni. Per stare soltanto all’Eneide, le versioni d’autore presenti nel senso comune sono oggi non meno di quattro e, scandite dalla disputa fra antichi e moderni, stanno si potrebbe dire tra di loro come il classico (il classicistico, naturalmente) all’anticlassico: da un lato c’è l’archetipo cinquecentesco di Annibal Caro la cui estrema risorgiva compare negli endecasillabi sciolti (non proprio memorabili, anzi talora involuti e persino scazonti) di un Leopardi incognito e nemmeno ventenne che invia la propria versione del II Libro del poema – plaquette in omaggio – a Vincenzo Monti, ad Angelo Mai e a Pietro Giordani; dall’altro, l’intrapresa già tutta novecentesca di Rosa Calzecchi Onesti (un verso lungo vagamente esametrico e similprosastico ma supportato da alcuni accenti forti secondo la modalità tipica del suo maestro e committente, Cesare Pavese) e poi, oltre a quelle di Luca Canali, integrale, e di Giovanna Bemporad, molto parziale, la notevole impresa (recentissima, Einaudi 2012) di un poeta latinista, Alessandro Fo, che invece sceglie il verso chiuso in esametri «barbari» di ascendenza carducciana. Estraneo al modernismo di Calzecchi Onesti per quanto definisce «la rinuncia» ai tratti squisitamente formali, prossimo invece all’impresa di Fo, per parte sua Daniele Ventre opta per una «versione in esametri ritmici e per una restituzione quanto più possibile limpida del testo e delle sue valenze timbriche».
Banco di prova elettivo per valutarla potrebbe essere appunto il II Libro del poema anche per la collocazione strategica (circa la quale fa testo da un secolo lo studio di Richard Heinze La tecnica epica di Virgilio, tradotto dal Mulino nel 1996, cui ritorna l’ottimo commento di Sergio Casali – Eneide 2, Edizioni della Normale 2017 – ampiamente recensito da Andrea Cucchiarelli su «Alias» dello scorso 27 maggio): ad esempio si prenda l’incipit del Libro che non solo avvia il racconto delle vicissitudini di Enea e a contraccolpo dell’innamoramento di Didone ma che una tradizione vuole anche quello redazionalmente più arcaico e addirittura letto da Virgilio in anteprima già nel 21 a. C. al cospetto di Augusto. Calzecchi Onesti lo rende in una sostanziale atonalità, con un verso che si vuole lungo e piatto («Tacquero tutti e intenti il viso tendevano. / Dall’alta sponda il padre Enea cominciò: / ‘Dolore indicibile tu vuoi ch’io rinnovi, o regina’») mentre Alessandro Fo si stringe ai vincoli prosodici dell’originale recuperandone la coloritura per via fonosimbolica: «Tacquero tutti, e tenevano intenti su lui i loro sguardi / Quindi dall’alto giaciglio così incominciò il padre Enea: / ‘Chiedi, regina, che io ripercorra un dolore indicibile’». Se è meno rilevata o appena brunita nel lessico, è invece più docile nella sintassi e più elastica, larga, nella ritmica la scelta di Ventre: «Tacquero tutti e su lui fissavano intenti gli sguardi. Quindi così padre Enea cominciò dall’alto cuscino: ‘Inesprimibile doglia tu vuoi ch’io rinnovi, regina’».
La ricerca della impenetrabile naturalezza virgiliana (una sintesi insieme affabile e suprema) è condotta da Ventre, che tende non ad appianare ma a molare o addolcire le acmi così come le sorde asperità di un italiano ineluttabilmente polisillabico, verso un continuum ritmico, armonico anche quando non necessariamente melodico, che può ricordare gli effetti del legato musicale. A occhio nudo e ad apertura di libro, non è un caso si notino rarissimi segni interpuntivi e minimi accenni di pausa o di cesura: allo stesso modo, chi legge assecondandone il moto lievemente ondoso prima o poi si avvede che in quegli stessi versi, in sé ipermetri di qualunque misura statuita, convivono adiacenti ma molto ben assortiti (il che vuol dire anche ben dissimulati) innanzitutto endecasillabi ma anche settenari, ottonari e tutto quanto può addurvi la più tradizionale, schietta, metrica italiana. L’esito non è affatto di canto dispiegato ma, semmai, di vibrazione costante e abilmente mantenuta sottotraccia nei modi che le antiche retoriche, prendendo a prestito un verso dantesco, chiamavano di circulata melodia.
È il segno, questo, di un ascolto e di una presa che guarda al testo a fronte senza mai espropriarlo come è abitudine invece di molti moderni che hanno utilizzato Virgilio senza davvero incontrarlo, ebbe a dire Michael von Albrecht (Ritrovare Virgilio, Tre Lune 2010) sanzionando il carattere strumentale della appropriazione in luogo di una autentica assimilazione. Perciò sia resa merito a chi, come Daniele Ventre, ne ha avuto l’umiltà e il coraggio.