il manifesto 18.11.18
Magherini, la sentenza che tutela la forza e non la vita
di Luigi Manconi, Valentina Calderone
Ci
siamo trovati a commentare, in questi anni, sentenze a conclusione di
processi che hanno visto a giudizio uomini in divisa accusati di avere
provocato, con il loro operato, la morte di alcune persone. È il caso di
Riccardo Magherini, che nel 2014 venne fermato a Firenze da una
pattuglia di carabinieri, assolti con formula piena dalla Corte di
Cassazione tre giorni fa. Questi processi, tutti, hanno tratti
sorprendentemente comuni e, verrebbe da dire, immutabili: la vittima è
indagata nelle sue attività quotidiane, vengono scandagliate le sue
abitudini, elencati i suoi consumi (tanto più quelli illegali),
censurato lo stile di vita, messo in cattiva luce il rapporto con la
famiglia.
Esemplare, in tal senso, la frase di un pubblico
ministero nella requisitoria finale del primo processo per la morte di
Stefano Cucchi: «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano
Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni». A parte il fatto che Cucchi
20 anni prima della sua morte di anni ne aveva 11, questo ci sembra un
buon sunto del clima di quei processi e di come essere un «drogato»
renda più sopportabile, quando non proprio legittima, la sua morte per
mano delle forze di polizia. I due processi di primo e secondo grado per
quanto accaduto a Magherini si sono conclusi con la condanna a sette e
otto mesi per i tre carabinieri accusati di omicidio colposo. In questo
caso, a supporto della tesi della sproporzione dell’intervento e
dell’uso della coercizione, c’erano dei video, filmati da persone
presenti sulla scena.
Grazie alle immagini e ai testimoni, si è
potuto accertare che Magherini rimase ammanettato con le mani dietro la
schiena, steso per terra a pancia in giù, con i tre carabinieri a
gravare con le ginocchia sul suo corpo impedendogli di muoversi e
respirare, per almeno un quarto d’ora. Quindici minuti in cui l’uomo
gridava «aiutatemi», fino a quando ha smesso di parlare. Ma nemmeno il
suo silenzio ha indotto i carabinieri a liberargli i polsi, tanto che
all’infermiera arrivata con l’ambulanza è stato impedito di prendere i
parametri vitali.
Magherini è morto così. E non è solo la sua
memoria e i suoi famigliari ad avere subito un duro colpo, perché se la
Cassazione decide di annullare senza rinvio la condanna affermando che
«il fatto non costituisce reato», significa che tutti noi abbiamo più di
un problema. Leggeremo le motivazioni, ma l’assoluzione piena fa
pensare che sia stata sposata totalmente la tesi della difesa, per la
quale i carabinieri «non sono dei medici»: impossibile per loro
individuare le avvisaglie della mancanza di ossigeno.
Peccato che,
solo il mese precedente alla morte di Magherini, il Comando generale
dell’Arma avesse emanato una circolare a uso di tutti gli operatori in
cui venivano esplicitate le linee di intervento nei confronti di fermati
in stato di alterazione psicofisica «al fine di ridurre al minimo i
rischi per l’incolumità delle persone». Per esempio, si evidenziava come
fosse ritenuto importante scongiurare i «rischi derivanti da prolungate
colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in
posizione prona» e si specificava di evitare «in ogni caso posture che
comportino qualsiasi forma di compressione toracica», la quale «può
costituire causa di asfissia posturale». Il comando dell’Arma, dunque,
aveva individuato proprio quella posizione come altamente pericolosa,
tanto da imporre una specifica formazione su questo aspetto agli
operatori.
Parliamo al passato perché, nel frattempo, quella
circolare è stata abrogata. Forse si è ritenuto che non fosse più vero
che una persona agitata cui venga schiacciata la cassa toracica
inevitabilmente smetterà di respirare; o si è pensato che da quegli
operatori, titolari dell’uso legittimo della forza, non si dovesse
pretendere anche la conoscenza dei minimi elementi di sicurezza
indispensabili per evitare la morte delle persone fermate.
Non si
propone qui l’obbligo della laurea in medicina per tutti i carabinieri,
ma davvero ci pare estremamente pericoloso affermare che – a parte la
velocità nell’inseguire i furfanti, la forza nel placcarli e la
risolutezza nel trattenerli – non sia richiesta loro alcuna competenza
per aiutarli a capire quando è il momento di fermarsi. Se per la
Cassazione, evidentemente, il bene principale da tutelare è stata
l’operatività di quei tre carabinieri al di fuori di ogni vincolo o
limite, noi continuiamo a pensare che una vita, la vita di Riccardo
Magherini, la vita di chiunque venga fermato da uomini in divisa, valga
decisamente più di questo.