il manifesto 17.11.18
Israele, perché un falco si dimette?
Tel
Aviv verso nuove elezioni. Da ministro, Lieberman ha dovuto attenuare i
toni, dovendo guidare quei militari che in base ai canoni politici
locali appaiono paradossalmente come la parte più «moderata» del paese.
L’élite dominante non ha alcuna intenzione di arrivare a reali
trattative di pace con i palestinesi. Ora è Naftali Bennett, sostenuto
dai coloni, a candidarsi alla Difesa
Dimissionario, Avigdor Lieberman ha lasciato la guida del ministero della Difesa
di Zvi Schuldiner
GERUSALEMME
Le dimissioni del ministro della difesa di Israele, Avigdor Lieberman,
hanno provocato interpretazioni e reazioni contrastanti: da quelle molto
moderate o soddisfatte in Israele, a quelle festose nella striscia di
Gaza. Un trionfo dei «moderati»?
Lieberman aveva promesso che se
fosse diventato ministro della difesa, avrebbe liquidato in 48 ore
Ismail Haniyeh, il leader di Hamas. Il falco che prometteva un ricorso
alla violenza sempre maggiore, che chiedeva misure sempre più drastiche e
aggressive, aveva attenuato i toni una volta nominato a una carica
ambita da molti. Di colpo si era trovato a guidare una forza militare
che con il metro di misura israeliano può essere considerata attualmente
la parte più moderata del paese.
L’esercito e gli altri organismi
dell’apparato di sicurezza hanno mantenuto una certa capacità di
affrontare la congiuntura che Israele attraversa. In seno all’esercito e
agli organismi di sicurezza ha prevalso negli ultimi anni la necessità
di mantenere contatti positivi con l’Autorità palestinese; e quanto a
Gaza, l’esercito ha continuato a mostrarsi favorevole a un miglioramento
della situazione interna, in riferimento alle necessità della
popolazione civile. Allo stesso tempo gli organismi di sicurezza erano
ben coscienti che Hamas è una realtà, è la forza dominante a Gaza.
Il
governo israeliano, l’élite dominante non hanno alcuna intenzione di
arrivare a reali trattative di pace. Nel 2005, quando Sharon decise che
Israele si sarebbe ritirata da Gaza, la destra radicale si oppose. Ma se
la destra si oppone a qualunque ritiro dalle terre occupate nel 1967,
per me era altrettanto chiaro che il piano era quello che alcuni
collaboratori di Sharon spiegavano così: rinunciamo a Gaza
unilateralmente per assicurarci l’annessione della Cisgiordania. Il
governo di Sharon non parlò nemmeno con Abu Mazen e contribuì alla
vittoria di Hamas alle elezioni del 2006. Da lì a poco si verificò il
sanguinoso golpe di Hamas contro l’Olp a Gaza e la separazione fra Gaza e
Cisgiordania si fece sempre più acuta e reale.
Non ci sarà pace
senza unità palestinese; per Netanyahu e la leadership israeliana la
separazione fra Gaza e Cisgiordania è un obiettivo importante; sanno che
quest’ostacolo alla pace gioca un ruolo decisivo. Dopo anni di
occupazione, parlare con l’Olp era un crimine, esibire la sua bandiera
era un tradimento, eccetera. Dopo Oslo, parlare con Hamas è un crimine,
un tabù, nemmeno i moderati osano sostenere l’idea di un dialogo con
Hamas.
E improvvisamente, quando la situazione a Gaza arriva ai
suoi estremi più inumani e brutali, la problematica arena mediorientale
si muove in modo sempre più complicato: si potrebbe arrivare a
«regolarla» in due o tre anni, dicono gli egiziani a Israele. Netanyahu,
l’alleato più entusiasta di Trump, tesse rapporti con Mohammed bin
Salman in Arabia saudita, con l’Oman, con al-Sisi. Il presidente
egiziano, che ha diversi strumenti a disposizione per far pressione su
Hamas e sugli abitanti di Gaza, è diventato il mediatore più attivo fra
Hamas e gli israeliani. Netanyahu, che non ha alcuna intenzione di
portare il paese ad una vera pace, sa che un’altra guerra sarebbe forse
più disastrosa per gli israeliani di quella precedente.
L’esercito
e gli organismi di sicurezza favorivano chiaramente una distensione
della situazione e hanno più volte avvertito che un disastro umanitario a
Gaza avrebbe ripercussioni negative anche in Israele. Il «moderato»
primo ministro, appoggiato dall’establishment della sicurezza e spinto
dai paesi arabi e forse anche da alcune esortazioni di Trump, aveva
capito che il cosiddetto «aggiustamento» era la soluzione migliore,
avrebbe ridotto la pericolosità della situazione a Gaza, avrebbe
migliorato i rapporti con i paesi arabi e cementato la divisione fra
Gaza e Cisgiordania.
Dal canto suo, Abu Mazen ha condotto una
politica criminale nei confronti di Gaza; l’obiettivo era il nemico
Hamas, ma era chiaro che la popolazione pagava un prezzo terribile per
l’accerchiamento da parte israeliana e i passi problematici da parte di
Abu Mazen. Quando il Qatar si è offerto di pagare il petrolio necessario
alla fornitura di elettricità e anche una parte dei salari ai
dipendenti di Hamas, lo stesso Abu Mazen ha dovuto moderare la propria
opposizione e il circo si è arricchito con l’arrivo in Israele di un
inviato del Qatar con una cassaforte di 15 milioni di dollari che è
andato a distribuire a Gaza.
Negli ultimi mesi Liberman ha più
volte dichiarato pubblicamente e in modo aperto la sua opposizione
all’«aggiustamento». Il ministro dell’educazione Bennett, ancora più
estremista di Liberman, ha attaccato ripetutamente il ministro della
difesa e l’idea dell’«aggiustamento» – ma senza attaccarne il vero
architetto, il premier.
Quando, all’inizio della settimana,
un’azione supersegreta di una segretissima unità israeliana ha provocato
sette morti palestinesi nei bombardamenti, questi ultimi hanno reagito
con una pioggia di missili che ha costretto decine di migliaia di
israeliani a correre nei rifugi. Il pericolo di un’altra guerra è
diventato evidente; l’intervento degli egiziani e di altri ha portato a
un cessate il fuoco che per la maggioranza degli israeliani significa
«una resa ad Hamas». Poche ore dopo il cessate il fuoco, molti
israeliani della zona di frontiera hanno manifestato contro Netanyahu
con un messaggio chiaro: arrenderci al terrore significa che Hamas può
farci impazzire di nuovo quando vuole. Secondo un recentissimo
sondaggio, il 74% degli israeliani non approva la linea adottata dal
premier.
Lieberman si dimette e il partito di Bennett lancia un
ultimatum a Netanyahu: o Bennett diventa ministro della difesa oppure
abbandoniamo la coalizione e si va a votare. Nelle ultime ore tutti gli
esiti appaiono possibili. Bennett sarebbe ancor peggio di Lieberman e
favorirebbe prima di tutto la propria base elettorale negli insediamenti
dei territori occupati. Netanyahu lo sa e può essere che questo lo
porti a prendere una decisione che non avrebbe altrimenti assunto:
andare a elezioni decise da altri. Nella coalizione c’è chi già parla di
elezioni ed è difficile in queste ore prevedere quale sarà l’esito
delle dimissioni di Liberman.