il manifesto 17.11.18
Genocidio cambogiano
Cambogia. 40 anni
dopo l’esperienza della Kampuchea Democratica di Pol Pot, gli ultimi
due capi dei khmer rossi sono stati condannati per lo sterminio della
minoranza musulmana e vietnamita
di Emanuele Giordana
La
Corte straordinaria della Cambogia, un organismo giuridico misto creato
dall’Onu, ha condannato ieri a Phnom Penh per genocidio Nuon Chea e
Khieu Samphan, gli ultimi due capi khmer rossi al vertice della
Kampuchea Democratica di Pol Pot, artefice di uno dei maggiori stermini
di massa della seconda metà del secolo scorso.
I DUE VECCHI sono
già stati condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità ma la
rilevanza della notizia sta nell’uso di quella parola: «genocidio».
Che,
finora, non era mai stata usata ufficialmente e legalmente nelle
sentenze di una corte che non prevede la pena capitale e che dunque non
ha potuto che reiterare la condanna già in essere alla catena perpetua.
Vittoria del diritto? La parola fine a uno degli episodi più bui del
secolo breve? O, come qualcuno dice, una beffa che arriva a quarant’anni
– e con milioni di dollari spesi – dalla fine del breve regime del
terrore istituito da Pol Pot e dai suoi sodali in Cambogia tra il 1975 e
il 1979?
Per dirla tutta la condanna di genocidio non riguarda
effettivamente quell’oltre milione e mezzo di cambogiani (le stime
variano tra 1,5 e 2 milioni) che perirono per fame e stenti o che
finirono nella macchina delle epurazioni che aveva nella prigione di
Tuol Sleng, ora museo dell’orrore, la sua icona nella quale si entrava
vivi e si usciva solo da morti.
La condanna riguarda quanto i
khmer rossi fecero alla minoranza musulmana dei Cham (un’antica
popolazione migrata a Nord dall’Indonesia in epoca remota) e a quella
vietnamita in onore a una frase di Pol Pot che voleva anche l’«ultimo
seme» di quella comunità spazzato via dalla sua nuova Cambogia che aveva
ricominciato dall’anno zero. Per quel milione e mezzo di cambogiani
uccisi, la parola genocidio non è stata formulata dalle legge
internazionale che dal 1997 è rappresentata dalla corte straordinaria
(Eccc) concordata dall’Onu con l’allora reame cambogiano.
PER QUEI
CRIMINI, sia Nuon Chea sia Khieu Samphan sono già stati condannati alla
prigione a vita quattro anni fa; eppure le loro vittime, dicono i
critici del concetto di genocidio che regola l’azione delle nazioni
Unite, furono l’oggetto di un’azione genocidaria seppur i carnefici
appartenessero alla loro stessa comunità.
Infine non si può
nemmeno dire che la partita khmer rossi sia definitivamente chiusa. Ci
sono almeno altri quattro responsabili già individuati e che
meriterebbero di essere giudicati dalla corte speciale. Ma chi si oppone
è Hun Sen, premier d’acciaio e dittatore tollerato: ex khmer rosso poi
passato al Vietnam, fu tra coloro che guidarono l’invasione vietnamita e
che da Hanoi fu posto a comandare la nuova Cambogia filovietnamita.
HUN
SEN VUOLE CHIUDERE la partita che dunque lascia solo alla Storia un
giudizio non solo sui criminali di guerra ma sugli attori esterni – da
Pechino a Washington, da Londra ad Hanoi – che, più o meno direttamente,
appoggiarono i khmer rossi oppure li combatterono in un «Grande Gioco»
asiatico dove la Cambogia fece la fine dell’Afghanistan e dove i khmer
rossi furono assassini ma anche eroi, burattini i cui fili venivano
tirati fuori dal Paese. Una brutta vicenda che in tribunale non è mai
entrata.
Nuon Chea, 92 anni, la pelle incartapecorita e slavata,
era il «fratello numero due», l’ideologo che con Pol Pot, al secolo
Saloth Sar, ideò la Cambogia pura dell’anno zero. Khieu Samphan, 87
anni, era invece l’ex capo di Stato. Entrambi ebbero la condanna del
carcere a vita nel 2014. Non da soli. Kaing Guek Eav, meglio noto come
«Duch», l’uomo che reggeva le sorti di Tuol Sleng – l’ex liceo della
capitale conosciuto anche come S-21 – ha lui pure avuto l’ergastolo:
condannato a trent’anni del 2010 si è visto commutare la pena nel
carcere a vita due anni dopo.
MA HA SCAMPATO L’ACCUSA di genocidio
proprio perché S-21 era la galera dedicata ai cambogiani ribelli. Lui
però in prigione non c’è: la malattia lo ha fatto ricoverare in un
ospedale a Phnom Penh dove deve aver visto il processo in tv. È andata
bene anche al «fratello numero tre», al secolo Ieng Sary, che
l’ergastolo lo aveva già avuto nel 2007: membro del Comitato centrale e
ministro degli Esteri, è morto nel 2013 scampando così al processo per
genocidio. A sua moglie Ieng Thirith, ministro e sorella della prima
moglie di Pol Pot, è andata ancora meglio. È deceduta nel 2015 senza mai
esser giudicata: ormai arteriosclerotica non era in grado, si disse, di
affrontare il processo.
SCAMPARONO IL PROCESSO anche Ta Mok, il
«macellaio», morto in carcere nel 2006 e Son Sen, il capo dell’esercito
cambogiano, morto nel 1997. Ma l’imputato per eccellenza, che non ha mai
visto né un giudice né un carceriere e che è morto nel suo letto di
guerrigliero nelle montagne del Nord, è il «fratello numero uno», Pol
Pot, passato a miglior vita nel 1998.
La morte di Pol Pot, primo
ministro della Cambogia dal 25 ottobre 1976 al 7 gennaio 1979 (i suoi
vice erano Ieng Sary, Son Sen e Vorn Vet, ucciso a S-21 nel 1978) è un
piccolo giallo. Le cronache dicono che sia morto di un attacco di cuore
mentre aspettava la macchina che avrebbe dovuto consegnarlo alle
autorità cambogiane secondo un piano concordato da alcuni del vertici
khmer rosso, tra cui Ta Mok.
Ma secondo il giornalista Nate Thaye,
che lavorava per la Far Eastern Economic Review, si sarebbe ucciso con
una dose eccessiva di Valium e clorochina. Proprio per sfuggire l’onta
di un processo. Per genocidio o altro, probabilmente per lui non avrebbe
fatto differenza.