il manifesto 17.11.18
Il mutevole confine del capitalismo
Tempi
presenti. Oggi, a Bookcity di Milano, un incontro con l'economista
Mariana Mazzucato che ha appena pubblicato per Laterza «Il valore di
tutto»
di Benedetto Vecchi
Il capitalismo
estrattivo (e di piattaforma) è la forma attraverso la quale la
produzione di valore viene «realizzata» nelle forme dominanti della
ricchezza sociale (denaro e profitto). È in questo passaggio che la
finanza ha svolto e continuerà a svolgere un ruolo essenziale nel
definire gerarchie sociali e priorità nel regime di accumulazione
capitalistico.
Dunque, la finanza non ha solo una funzione
«parassitaria» rispetto alla tradizionale produzione di beni e servizi,
bensì svolge un ruolo di coordinamento, di indispensabile infrastruttura
alla stabilità – politica e, soprattutto, sociale – della produzione di
merci. Quel che va però sottolineato è la dimensione abnorme,
incontrollata, da spregiudicato rentier che la finanza ha ormai assunto
nel capitalismo contemporaneo. Il nodo da sciogliere è se questa
superfetazione abbia determinato o meno un mutamento «qualitativo» dei
rapporti sociali capitalistici.
SONO QUESTE LE PREMESSE di un
libro ambizioso che costituisce uno spartiacque nella produzione teorica
dell’economista di origine italiana Mariana Mazzucato, che si è fatta
largo nel rumore di fondo della teoria economica mainstream con il
saggio sullo Stato innovatore (Laterza) dedicato al modo di produzione
dell’innovazione tecnico-scientifica e sulle sue ricadute sociali. In
quel testo, Mazzucato ribalta il punto di vista dominante, sostenendo
che i finanziamenti statali per ricerca, sviluppo e formazione non sono
improduttivi, perché senza di essi la rivoluzione della rete e
tecnologica non ci sarebbe mai stata, con buona pace di chi spaccia per
oro colato la favola di giovani intraprendenti che, al chiuso di
maleodoranti garage, fanno la scoperta del secolo.
In questo
libro, invece, pubblicato da Laterza con il titolo Il valore di tutto
(pp. 364, euro 20), l’economista si spinge molto più in là, alza cioè
l’asticella delle difficoltà, per superarla, facendo leva su rigore
analitico, una buona documentazione e una godibile vocazione narrativa
che ne fanno un libro di agile lettura.
Il volume ha infatti molte
chiavi di lettura. Può essere interpretato come una storia della teoria
economica moderna (dai fisiocratici ai nostri giorni); una critica del
neoliberismo economico; una appassionata difesa della teoria del valore
vista come un filo rosso che inanella personaggi distanti tra loro come
Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph Schumpeter, John Maynard
Keynes. Ma è altrettanto evidente l’interrogazione costante del mutevole
confine tra finanza e produzione, sul cosa sia il capitalismo
estrattivo e cosa quello di piattaforma.
Un libro, infine, da
mettere in tensione, relazione con le tesi sul capitalismo estrattivo
emerse negli studi di economisti indiani, filosofi e sociologi
latinoamericani e dalla confluenze di percorsi teorici
italo-austrialiani come quelli di Sandro Mezzadra e Brett Nielsen,
autori del saggio Confini e frontiere (Il Mulino) e di Politics of
Operations, opera in corso di pubblicazione da parte di Duke University
Press nel quale il capitalismo estrattivo è analizzato a partire dal
ruolo della logistica e del polimorfismo del lavoro vivo (la moltitudine
come problema e non come soluzione politica).
UN LESSICO e un
frame teorico politico quelli di Mezzadra e Nielsen distanti dal
linguaggio di Mazzucato, ma tuttavia capaci di cogliere potenzialità di
liberazione da parte dei movimenti sociali che l’economista italiana
relega invece solo a una dimensione istituzionale dell’agire politico
(sono note le sue simpatie liberal che l’hanno però portata anche a
dichiarazioni e collaborazioni con il Labour Party di Jeremy Corbyn).
Dunque
distinzione tra produzione di valore e sua realizzazione. Al primo
polo, c’è l’organizzazione produttiva, la successione di determinazioni
che assume il capitale e il lavoro. Varia nel tempo e nello spazio. Ha
bisogno di innovazione, di coordinamento, di uno Stato nazionale (la
nazione è la forma dominante assunta dal capitalismo nella modernità)
che definisca regole e produca le necessarie infrastrutture affinché
l’economia funzioni.
MAZZUCATO NE OFFRE un affresco vivido, dai
primi atelier sorti dopo l’accumulazione originaria di capitale fino ai
campus-fabbriche ipertecnologici della Silicon Valley. Anche la finanza
svolge qui la sua necessaria parte, come credito, recupero sociale dei
capitali necessari per progetti imprenditoriali rischiosi, a partire dai
fondi pensione, ai risparmi del ceto medio, al capitale in «eccesso» di
imprese e singoli capitalisti. Il venture capital non è perciò coniglio
tirato fuori in California: c’è sempre stato.
Importante è la
sottolineatura dell’autrice che riguarda i capitalisti di ventura: fanno
di tutto meno che rischiare. Intervengono sempre quando i maggiori
rischi li ha corsi chi vuol intraprendere una temeraria attività
produttiva e chi (lo Stato) ha per anni inondato di denaro università e
centri di ricerca pubblici e privati. I venture capital favoriscono a
posteriori il decollo di una start up, avendo come contropartita una
quota esagerata di futuri profitti e salvaguardandosi comunque da
possibili fallimenti. Insomma, i capitalisti di ventura cadono sempre in
piedi.
C’è un però, nello schema delle tesi elaborate, che
l’autrice non sempre riesce a padroneggiare. Il peso enorme assunto
dalla finanza. Una spiegazione sta nel fatto che senza questa
superfetazione finanziaria il capitalismo esploderebbe nelle sue
contraddizioni. Ha un ruolo di stabilizzazione politica, per la gestione
delle contraddizioni e disuguaglianze sociali: non per risolverle ma
per renderle compatibili con la società del capitale. Echeggiano,
tuttavia sempre sullo sfondo, le analisi sulla privatizzazione dei
diritti sociali di cittadinanza attraverso la finanza (acquisti sul
mercato pensione, assistenza sanitaria, formazione, mentre il credito al
consumo assicura che la costante riduzione dei salari non si traduca in
stagnazione).
PIÙ RILEVANZA hanno le tendenze all’oligopolio,
presentate a ragione non come una «degenerazione» ma un fattore
essenziale per imprese che hanno il pianeta come orizzonte di mercato e
produttivo – le big five della Rete testimoniano tutto ciò – e di un
numero di dipendenti inversamente proporzionale al fatturato. Le
diseguaglianze sociali sono cioè espressione di una crescita economica
senza crescita di occupazione. Anche l’elusione fiscale rientra in
questo carnet de doléance.
La finanza organizza infine i flussi di
denaro – ormai quasi puro segno, cioè convenzione socialmente
necessaria scandita da una successione astratta, automatizzata di bit e
byte dentro e fuori la Rete.
Qui si addensano non pochi problemi.
Non è tuttavia scontato che la «cattura» del valore sia da analizzare
alla stessa stregua dell’estrazione di un minerale o dell’appropriazione
violenta da parte di spregiudicati imprenditori della ricchezza
sociale. Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è espressione di
rapporti sociali incardinati su plusvalore relativo e assoluto (ne
scrive così anche Mazzucato). Ignorare questo elemento significa
condannare la critica a un posticcio costrutto etico, una romanticheria
che salva tutt’al più l’anima. L’autrice non si vuol certo salvare
l’anima, ma si ferma sull’uscio degli atelier della produzione.
Preferisce cioè constatare gli elementi di disequilibrio, di instabilità
del capitalismo, che va salvato, ripete più volte, da se stesso.
Identico procedimento per il capitalismo delle piattaforme, il quale è
sì intermediazione tra produzione e realizzazione del valore, ma anche
fattore pienamente produttivo.
In altri termini, il focus si
dovrebbe spostare sul lavoro vivo, sulla sua eterogeneità, nella sua
organizzazione su base planetaria e locale. E sulla sua violenta
ripartizione gerarchica in base alle competenze, la razza, il sesso, uno
statuto mutevole e definito arbitrariamente della cittadinanza.
L’assenza di un’analisi dei bacini del lavoro vivo dentro e fuori il
capitalismo delle piattaforme conduce l’analisi a una generica richiesta
di riequilibrio keynesiano nella redistribuzione della ricchezza,
elemento che Mazzucato fa suo in più pagine. Ma il suo è un libro, non
un programma politico. E ha molte frecce nel suo arco. La lettura non
può che constatare che alcune di esse sono schioccate con efficacia.
SCHEDA
Mariana
Mazzucato sicuramente ne parlerà durante le presentazione del suo
ultimo lavoro «Il valore di tutto» (Laterza). Dopo aver ricevuto il niet
alla sua richiesta di cittadinanza inglese per un errore di battitura,
lo scenario aperto dalle reazioni negative di ministri e del partito
conservatore alla bozza di accordo sulla Brexit tra Londra e l’Unione
europea, sarà motivo di discussione. Un tema che ha molto a che fare con
il background mondiale del testo dell’economista italiana. Tra oggi e
martedì Mazzucato sarà in tre città: oggi a Bookcity (Milano, ore 19,
Museo del Risorgimento, con Ferruccio de Bortoli e Marco Onado). Lunedì
sarà a Bologna (ore 17.30, Archiginnasio con Romano Prodi e Massimo
Giannini). Il 20 infine a Roma (ore 11, lectio magistralis all’Accademia
dei Licei).