il manifesto 10.11.18
Referendum Atac, perché voto no
Votare
No, soltando cambiando politica cambia l'Atac. Le liberalizzazioni
hanno fallito ovunque, servono persone capaci slegate dai partiti
di Paolo Berdini
I
«furbetti» del referendum sulla liberalizzazione-privatizzazione di
Atac, l’azienda romana di trasporto pubblico, che si terrà domani
(Radicali, Fi e il Pd romano) ce l’hanno messa tutta per far passare se
stessi come gli unici innovatori e i sostenitori del no come i grigi
difensori dello status quo. Purtroppo per loro poiché è vero l’esatto
contrario, il gioco non è riuscito. Sono trenta anni che moltissime
aziende pubbliche sono state sottoposte alla cura delle liberalizzazioni
e delle privatizzazioni e oggi il mondo degli economisti -a parte i
pasdaran del pensiero neoliberista- si interrogano sul disastro
avvenuto. La sfera pubblica si è impoverita e i privati hanno macinato
utili vertiginosi a scapito dei servizi erogati e, come nel case del
ponte di Genova, a scapito della sicurezza dei cittadini.
Evidentemente
non soddisfatti del disastro, i promotori del referendum vorrebbero
applicare quelle stesse ricette anche al trasporto locale. Il primo
quesito riguarda la possibilità di liberalizzare il servizio mettendolo a
gara. Il secondo apre addirittura alla possibilità di presentare
proposte sostitutive delle linee esistenti: si spalanca la porta a
colossi come Uber. Questi innovatori all’amatriciana non si sono dunque
accorti che se vogliamo rilanciare il paese, il tema fondamentale è
quello di ricostruire l’ossatura delle amministrazioni e delle aziende
pubbliche.
Il vasto fronte del No (i tre sindacati confederali,
Usb, i comitati Atac bene comune, Mejo de no e Calma) ha svelato bugie e
furbizie dei sostenitori del referendum. A partire dal silenzio sul
fatto che a Roma la privatizzazione già esiste da venti anni. Le
periferie romane sono infatti servite da Tpl, una società interamente
privata che gestisce circa il 40% dell’offerta di trasporto e non brilla
certo per efficienza.
Questa stessa mancanza di efficienza
riguarda naturalmente anche Atac e qui si può misurare la profonda
distanza tra i due schieramenti. I sostenitori del No hanno infatti
impostato la loro campagna sul fatto che il debito di Atac (circa 800
milioni) non è dovuto soltanto alla difficoltà di servire una città
frammentata dalla speculazione immobiliare e dall’abusivismo, ma anche
dalla scandalosa ingerenza della mala politica sull’azienda. Con
Alemanno furono assunte a chiamata diretta 784 persone, lo scandalo
«parentopoli». Ogni anno queste assunzioni sono costate 30 milioni, 300
milioni in dieci anni. Stesso discorso vale per i dirigenti, oltre 100, e
i manager cambiati vorticosamente e ricompensati con buonuscite
milionarie: in dieci anni ci sono costati 200 milioni. La politica
dell’occupazione del potere ha pensato anche di clonare i biglietti,
sottraendo alle casse pubbliche altri 70 milioni di euro. Insomma, la
mala politica ha formato un debito di Atac di circa 600 milioni.
Lo
schieramento del No ha posto al primo punto della sua piattaforma la
chiusura di questo vergognoso processo per lasciare tutte le aziende
pubbliche nella mani di persone capaci e indipendenti nominate da
organismi di terzietà. Il solo modo per risanare le aziende non è
liberalizzarle, ma metterle nella condizione di aprirsi a nuove
competenze e tecnologie. Tecnologie che serviranno per chiudere
un’ulteriore vergogna di cui non si trova traccia nei quesiti
referendari. Atac trasporta il 56% della platea degli utenti su autobus
vecchi e inquinanti che restano soffocati nel traffico quotidiano della
città, Milano ne trasporta l’80% sulla rete del ferro. Occorre dunque
invertire le modalità di trasporto costruendo quelle linee tramviarie di
cui Roma è pressochè priva. Anche in questo caso, è il pubblico che
deve compiere il salto di qualità, programmando, trovando le risorse e
avviando la realizzazione delle opere.
Privatizzazioni e
liberalizzazioni non servono. La capitale ha il dovere di lanciare un
messaggio chiaro a tutto il paese: quello di chiudere la stagione del
neoliberismo e di ricostruire aziende efficienti e governate da persone
estranee alle lobby dei partiti. Per aprire questa fase si deve dire No a
questo referendum.