lunedì 5 novembre 2018

Il Fatto 5.11.18
“Siamo studenti, vogliamo la luna”
di Lorenzo Giarelli

Se i sondaggi hanno ragione, essere in piazza contro il governo, oggi, significa essere in piazza contro i propri genitori. Lega e Movimento 5 Stelle avanzano inarrestabili nei consensi nel mondo dei grandi, di quelli che votano, mentre gli studenti si danno alla protesta più antica che esista – alla faccia di sbandierati cambiamenti – riempiendo le strade con striscioni, megafoni e cori di indignazione. Hanno iniziato a ottobre, coordinando oltre 50 piazze in Italia nella grande manifestazione di venerdì 12, e andranno avanti, giurano, ancora per settimane. A muovere i ragazzi non sono i problemi dei singoli istituti (il termosifone che non funziona, la palestra inagibile, il distributore del caffè guasto) e neanche solo i temi legati all’istruzione – i pochi fondi, l’alternanza scuola lavoro che non funziona – ma un malessere più generale nei confronti della politica.
E guai a chi pensa che la piazza sia ormai un rito stanco: “L’unica prassi mi sembrano i tagli che ogni autunno i diversi governi fanno all’istruzione – accusa Gianmarco Manfreda, 23 anni, padre nobile, si fa per dire, delle proteste dei liceali come coordinatore della rete degli studenti medi – Quando finirà questa consuetudine magari anche le proteste non saranno più un rito autunnale”.
A portare in piazza gli studenti del liceo sono collettivi locali, centri sociali, auto-organizzati o organizzati da associazioni nazionali. Sono quasi tutti apartitici, ma rivendicano l’appartenenza a sinistra, a costo di sembrare fuori tempo massimo nella griglia delle ideologie: “I nostri modelli oggi sono nella società civile – dice Manfreda – quindi Legambiente, Libera, Cgil, Arci”. I 5 Stelle? Storia (già) passata: “Hanno rappresentato una speranza per i giovani, con quella voglia di eliminare la mediazione e avvicinare i cittadini alla politica, ma sono finiti vittime delle loro contraddizioni”.
Anche l’Unione degli studenti, la grande associazione dei liceali, si smarca dai partiti italiani. Il modello, al massimo, è il laburismo inglese di Jeremy Corbyn. Ma ogni piazza è una storia a sé, purché si compatti attorno ai valori dell’integrazione, della lotta al precariato, della battaglia al neoliberismo (“la divisione in sfruttati e sfruttatori”, lo definisce una ragazza torinese). A Milano la manifestazione più grande l’ha organizzata la Rete Studenti insieme a Casc Lambrate, un centro sociale appena sgomberato. Tra i più attivi c’è Matteo Cimbal, 18 anni di cui 5 passati a far politica a scuola, prima a Venezia e ora all’ombra del Duomo. Per capire le proteste, dice lui, bisogna mettersi in testa di non giudicare i ragazzi con le stesse categorie applicate al resto del mondo. Più Trap e meno talk show, più Ghali e meno editoriali: “Il trap – per chi ignora: un nuovo genere musicale diffusissimo tra gli under20 – oggi rappresenta meglio di qualsiasi altra cosa il disagio che vivono tanti ragazzi nei quartieri periferici di Milano”, spiega Matteo. “A differenza dell’hip hop di una ventina d’anni fa non c’è denuncia politica diretta, ma emerge un malcontento sociale in cui ci riconosciamo”. E per portare in piazza i ragazzi, per farli interessare alla politica, si deve partire da lì: “Tu parti da un testo di Ghali sull’immigrazione e vedrai che gli studenti ti seguono, metti un pezzo Trap in corteo e sono tutti gasatissimi”.
Su come esprimere il disagio, poi, non c’è una linea unitaria. Difficile compattarsi già solo a sinistra, figurarsi mettere d’accordo anche gli “indipendenti”. Le proteste di piazza di Torino sono state quelle più mediatiche, ma non per i contenuti della manifestazione. I titoli di giornale se li è presi un gesto di alcuni militanti del Kollettivo studenti organizzati, che hanno dato alle fiamme due manichini raffiguranti i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Sono finiti indagati in cinque, tra cui due minori, per vilipendio, mentre la facile indignazione del mondo politico stigmatizzava il gesto violento.
“Il problema è che la nostra generazione è totalmente deconflittualizzata – si lamenta Sebastiano, 17 anni, di Roma, membro dell’Opposizione studentesca d’alternativa (Osa) – e quindi un gesto simbolico del genere passa per chissà quale violenza”. Colpa, secondo lui, del G8 di Genova del 2001, anche se la sua età gli permette di parlarne solo come storia e non più come cronaca: “Da lì si è dato per scontato che la piazza fosse per forza violenta e che la violenza non portasse a niente, inibendo ogni grosso movimento di protesta”.
Anche Alessandro Personé, 19 anni, animatore delle piazze liceali di Lecce per l’Uds e ora universitario a Roma, non ci vede scandali: “La cosa grave è che ci si preoccupi dei manichini e non delle politiche devastanti dei governi”.
Questione di scelte. Si può forzare la mano per avere visibilità, ma si rischia di compromettere l’efficacia del messaggio della protesta: “Il problema dei manichini bruciati – dice Manfreda di Rete degli studenti medi – è che personifica il disagio nei confronti di Di Maio e Salvini, mentre il disagio è per quello che rappresentano. E poi succede che si presta il fianco alla loro risposta vittimistica, vanificando il merito della piazza”.
Del disagio dei ragazzi del Ksa parla Sara. Ha solo sedici anni e studia a Torino: “Il governo dà risposte sbagliate a problemi reali. Hanno ragione, c’è un problema di povertà e di sicurezza, ma non mi possono dire che la soluzione è la stretta sull’immigrazione”. Da qui la piazza, ancora una volta slegata dai problemi strettamente scolastici. Certo, anche su quelli lo scontro c’è, tanto che i giovani di Rete conoscenza, l’organizzazione che unisce gli studenti medi agli universitari di Link, hanno chiesto e ottenuto un incontro con Di Maio. “Una novità assoluta – ammette Giacomo Cossu, coordinatore della Rete – ma che è finita per essere l’ennesimo spot per il governo. Di Maio ha risposto in modo vago e vedendo la manovra economica ci pare di capire che siamo rimasti inascoltati. È inutile riceverci se serve soltanto a sbandierare sui social di aver incontrato gli studenti”. Le richieste, in fin dei conti, battono sempre sui fondi da stanziare all’istruzione. Troppo pochi, dicono i ragazzi, insufficienti per garantire il diritto allo studio e per avviare un piano efficace per l’edilizia scolastica, proprio nel Paese in cui metà delle scuole non ha neanche il certificato di agibilità. E poi c’è il tema dell’alternanza scuola-lavoro, su cui persino i giovani della piazza si dividono. Qualcuno, come la Rete degli studenti medi, ne vorrebbe una versione “formativa”, riqualificata rispetto a quella delle storture della buona scuola renziana. Altri invece, come il 17enne Sebastiano, la vorrebbero eliminare del tutto, per lasciare l’istruzione alla scuola e il lavoro alle fabbriche, agli uffici, alle attività commerciali. Anche nel mondo delle proteste giovanili la sinistra ci mette poco a dividersi, ma è così da sempre. A Bologna gli studenti in piazza ce li ha portati il Fronte della gioventù comunista. Da un lato, spiega Gianluca Evangelisti, attivista di 19 anni, “il gruppo ha scelto di non portare in corteo la falce e martello”, quasi a volersi aprire a chi non se la sentiva di sfilare sotto un simbolo così impegnativo. Dall’altro, la convivenza con gli altri collettivi è rimasta difficile: “Abbiamo avuto contatti con vari gruppi, ma alla fine hanno preferito non andare tutti insieme in piazza. I contenuti di un’opposizione al governo possono anche essere gli stessi, poi però dipende come si declina l’alternativa”.
Su questo è d’accordo anche Sebastiano, che guarda con simpatia a Potere al popolo e che critica la Rete degli studenti medi perché “troppo istituzionalizzata”, “vicino ai sindacati che ormai stanno coi potenti”, e infantile pure sulle modalità di protesta: “Io in piazza canto Bella Ciao, ma mica perché è di moda adesso”. Il riferimento è alla riscoperta dell’inno partigiano come colonna sonora de La Casa di Carta, amatissima dai giovani. Proprio ispirandosi a quella serie tv Rete degli studenti medi e Rete conoscenza hanno deciso di vestire alcuni ragazzi in piazza con l’abito tipico dei rapinatori-eroi di Netflix: tuta rossa e maschera di Salvador Dalì, nemesi beffarda del volto del film V per Vendetta con cui tredici anni fa, i giovani di allora, speravano nel cambiamento.