lunedì 5 novembre 2018

Il Fatto 5.11.18
Populismo, arriva la risposta delle élite: democrazia rigida
L’economista Dambisa Moyo indica dieci riforme per arginare il caos e garantire crescita: mandati più lunghi agli eletti, voto obbligatorio ma solo per chi se lo merita, argine ai finanziamenti privati
di Stefano Feltri


Prima o poi doveva succedere: dopo due anni di shock, tra Brexit e vittoria di Donald Trump, è iniziata la riscossa culturale dell’establishment di fronte all’avanzata dei movimenti populisti. L’Economist riscopre i grandi pensatori liberali, da Mill a Tocqueville, ora arriva in Italia il libro dell’economista Dambisa Moyo, uscito da poco negli Usa, che offre una serie di ricette pratiche per salvare la democrazia dai suoi elettori e dall’assenza di crescita che sta mimando un contratto sociale fondato sulla redistribuzione della nuova ricchezza generata. Sono proposte che affrontano un problema che sarebbe sbagliato sottovalutare, cioè la scarsa capacità decisionale (percepita e reale) delle democrazie liberali che sembrano troppo farraginose e dispersive per affrontare le sfide della globalizzazione e per rispondere a una rabbia popolare che sfocia nell’invocazione di leader decisionisti, modello Vladimir Putin o Xi Jinping. Ma pare un po’ perverso proporre di correggere la “miopia della democrazia” – i politici hanno incentivi a fare scelte troppo di breve termine per produrre crescita – riducendo il potere degli elettori e cercando di avvicinarsi a quella figura teorica che gli economisti nei loro modelli chiamano il “dittatore benevolente”.
“La necessità di riconfermarsi alle elezioni impedisce l’effettiva allocazione delle risorse da parte dei rappresentanti eletti, troppo spesso i mandati elettorali tengono i politici legati agli individui e agli interessi aziendali che contribuiscono a finanziare la loro campagna e ai capricci dei sondaggi”, scrive Dambisa Moyo in “Sull’orlo del caos – rimettere a posto la democrazia per crescere” (Egea). La Moyo incarna le promesse realizzate del capitalismo: è nata in Zambia nel 1969, ha studiato chimica in patria e all’American University, master ad Harvard, dottorato in Economia a Oxford. Oggi siede in vari consigli di amministrazione come Barclays (una grande banca) e Chevron (petrolio) e gira il mondo a dispensarei consigli strategici. Le sue tesi si possono quindi considerare un buon indicatore degli umori di una certa élite cosmopolita.
L’idea di fondo della Moyo è che bisogna rendere la democrazia più lungimirante, con alcuni correttivi che riducano la propensione alla “veduta corta”, come la chiamava Tommaso Padoa- Schioppa. Alcune misure proposte dalla Moyo sono la semplice trasposizione in politica di dinamiche da azienda: pagare di più i politici, per evitare che chi ha talento resti lontano da incarichi rischiosi e poco remunerati (il premier di Singapore guadagna 1,7 milioni di euro all’anno). Difficile immaginare una misura meno popolare, anche se nello schema della Moyo serve a evitare che i politici in carica facciano scelte pensando di monetizzarle dopo (per esempio con leggi a favore di qualche grande impresa che poi li assumerà come consulenti), per questo l’economista propone anche limiti alle porte girevoli tra pubblico e privato e un argine all’interferenza dei finanziamenti privati nella dinamica democratica, problema molto americano e non ancora italiano, anche se l’abolizione del contributo pubblico ci espone a nuovi rischi. Sempre in questa logica, la Moyo suggerisce anche il limite dei mandati, come quello professato dai Cinque Stelle, per evitare che i politici pensino soltanto a costruirsi una carriera di “ri-eletti di professione” invece che preoccuparsi del bene del Paese.
Le proposte che la stessa Dambisa Moyo sa essere più divisive sono quelle che puntano a ridurre il peso degli umori degli elettori sulle decisioni. Mandati elettorali più lunghi (tradotto: meno elezioni), vincoli alle decisioni future con accordi e impegni che impediscano ai politici di domani di rimettere tutto in discussione. Si tratta di estendere pratiche che già in uso, basti pensare all’accordo intergovernativo tra Italia, Albania e Grecia che nel 2013 ha vincolato i tre Paesi a costruire il gasdotto Tap e ora, ha ammesso il governo Conte, è impossibile fare diversamente. La Moyo poi recupera idee che albergano nelle zone d’ombra del liberalismo fin dai tempi di John Stuart Mill: il filtro alle candidature, richiedendo ai candidati “esperienze lavorative al di fuori della politica, non solo nel mondo degli affari ma in una serie di lavori da mondo reale” (addio Di Maio), ma anche il filtro agli elettori. Voto obbligatorio, come sperimentato in Australia, per evitare che vadano alle urne solo le minoranze arrabbiate, combinato con un “test di educazione civica” per verificare la capacità degli elettori di capire le implicazioni delle scelte di Parlamenti e governi sul lungo termine. L’applicazione di queste misure avrebbe reso impossibile l’elezione di Donald Trump negli Usa e in Italia la nascita del governo Conte.
Salvare i principi della democrazia liberale ripristinando una capacità decisionale che sembra compromessa è la grande sfida culturale di questi anni. Ma se la disinvoltura dei movimenti populisti (e dei loro elettori) nel rimettere in discussione pilastri come la separazione dei poteri e i meccanismi della delega si salda con la richiesta di governi quasi autoritari che arriva dalle élite, allora è il momento di iniziare a preoccuparsi davvero.