Il Fatto 22.11.18
Famiglia De Benedetti. Il potere della stampa, soldi dalle banche e dagli enti pubblici
I
giornali sono in perdita, ma le cliniche convenzionate fanno utili. E
se le cose non vanno – come nel caso Sorgenia – ci pensa Mps
di Fabio Pavesi
Chiamansi
“benefici indiretti del controllo”. Ogni padrone di giornali questo
motto lo conosce a menadito. Con l’editoria (almeno in Italia) non si è
mai diventati ricchi. Tantomeno negli ultimi 10 anni di crisi. Ma avere
un giornale ti dà un potere che va al di là della mera contabilità. Uno
strumento formidabile di pressione. Puoi blandire per ottenere favori
negli altri campi in cui operi; puoi silenziare tutto ciò che riguarda
le tue altre attività. L’editore impuro è questa cosa qui. E sul podio
dei padroni della stampa con interessi molteplici si erge di diritto la
famiglia De Benedetti. Con l’ex gruppo Espresso Repubblica divenuto Gedi
dopo la fusione con l’Itedi degli Agnelli che ha portato in casa La
Stampa e il Secolo XIX. Sotto il cappello del regno di
Repubblica-Espresso (con una decina di testate locali più tre radio
nazionali) c’è molto di più. Il gruppo Cir-Cofide che controlla Gedi sta
su altre due gambe: la componentistica auto con Sogefi e la sanità
privata con Kos e le sue 81 tra residenze per anziani e strutture
mediche (8 mila posti letto).
C’era fino a qualche anno fa una
propaggine, una volta gioiello della corona e finito miseramente come
pacco-dono alle banche creditrici, che era Sorgenia. Le centrali
elettriche che la Cir possedeva e che, entrate in crisi, sono divenute
il più grande smacco bancario della storia recente. Già perché la
famiglia degli imprenditori-editori, una volta compreso il disastro cui
andava incontro Sorgenia, anziché farsene carico hanno rifilato il pacco
miliardario alle banche creditrici. Divenute obtorto collo azioniste
del gruppo in crisi. La storia della beffa di Sorgenia non la troverete
certo sui giornali di casa che riportavano la vicenda in poche righe in
cronaca e senza il coup de théâtre dei De Benedetti. Sorgenia va in
crisi per eccesso di offerta, cadono i ricavi si producono le perdite.
Nel 2013 fa un buco di 537 milioni. È il clou di una crisi che viene da
lontano. Il paradosso è che più le cose vanno male più Sorgenia viene
finanziata arrivando a cumulare 1,85 miliardi di prestiti. E non c’è da
stupirsi, chiamandosi De Benedetti, che la banca più esposta con oltre
600 milioni sia Mps. Ma i De Benedetti (Rodolfo in testa, l’ideatore di
Sorgenia) hanno già pronta l’exit strategy: nel 2013 azzerano il valore
di Sorgenia nel bilancio di Cir, mossa propedeutica all’abbandono. Serve
capitale. Nel 2014 le banche chiedono che la famiglia metta almeno 150
milioni. I De Benedetti non tirano fuori un euro e le banche si
ritrovano la Sorgenia in odore di crac. Non avevano i soldi? Qui la
tragedia si trasforma in farsa. Sempre nel 2013 i De Benedetti incassano
344 milioni dalla Fininvest che ha perso il lodo Mondadori. Non solo,
la Cir era comunque piena di liquidità per 538 milioni. Cdb se la tiene
stretta alla faccia di Sorgenia. Finisce che le banche (Mps in testa)
fanno il salvataggio, i De Benedetti escono del tutto, deconsolidano da
Cir quasi 2 miliardi di debiti e si ritrovano senza guai e con tanta
liquidità.
Che dire di Kos? Il gruppo con le sue residenze per gli
anziani fattura quasi mezzo miliardo, ha margini vicini al 20% dei
ricavi e utili nel 2017 per 29 milioni. Un affare. Che deve buona parte
della sua forza al rapporto stretto con il pubblico. Le sue strutture
sono convenzionate con il Sistema sanitario e il 63% del suo mezzo
miliardo di ricavi arriva da Regioni e Comuni. Non contenti, i De
Benedetti cercano ancora la sponda pubblica. Il fondo healthcare di F2i
compra nel 2016 il 46% di Kos sborsando 292 milioni. Così la famiglia
usa meno capitale e condivide il rischio con il fondo pubblico.
E
poi ecco Gedi. O meglio l’ex gruppo Espresso. È aperta un’inchiesta
giudiziaria su un eventuale abuso dei prepensionamenti “facili” (a spese
dell’Inps) del gruppo e della Manzoni, la concessionaria di pubblicità.
Ma al di là dell’inchiesta, resta il fatto che il gruppo ha usufruito
tra il 2012 e il 2015 di consistenti prepensionamenti di poligrafici e
giornalisti, avvalendosi degli stati di crisi. Un altro regalo alla
famiglia. L’unico bilancio in rosso per il gruppo è quello del 2017 per
123 milioni. Pesa la chiusura di una lite fiscale, finita in Cassazione,
e che riguardava atti elusivi nella fusione addirittura del 1991 tra
l’editoriale Repubblica e la Cartiera di Ascoli. Il fisco chiedeva 389
milioni, la Gedi alla fine ha chiuso il contenzioso con 175 milioni, di
cui 140 pagati proprio nel 2017. E poi c’è l’avventura ingloriosa della
quotata M&C, il fondo “salva-imprese”, che a detta
dell’Ingegnere doveva investire in aziende in crisi, risanandole. Ai
tempi fu presentata come una grande iniziativa che doveva coinvolgere
anche il nemico di sempre, il Cavaliere. Alla fine M&C non ha
salvato neanche se stessa. Di recente ha venduto il suo investimento
nella tedesca Treofan portando a casa 30 milioni di perdite e cagionando
ai soci di minoranza perdite sul titolo per oltre il 70% solo negli
ultimi 4 mesi.
È nota pure la passione dell’Ingegnere per la
finanza che pratica da trader smaliziato. Smaliziato e con accesso a
informazioni privilegiate. Come non ricordare le visite a Palazzo Chigi e
l’interesse sulla imminente riforma delle Popolari? Agli atti c’è
l’intercettazione della Finanza in cui l’Ingegnere ordina il 16 gennaio
(il venerdì prima dell’approvazione del decreto) al suo broker di
fiducia l’acquisto di titoli delle Popolari che sarebbero state
rivendute subito dopo fruttando una plusvalenza in pochi giorni. Un
mordi e fuggi da speculatore ben informato. Il veicolo delle sue
operazioni di Borsa è la Romed. La Romed vive di compravendite di azioni
e derivati. In 3 anni ha portato a casa oltre 80 milioni di utili. I
titoli in pancia a Romed valevano 65 milioni nel 2015. Sono saliti a 96
milioni. Poi ci sono i derivati per 30 milioni. Cdb scommette su azioni e
futures. Il metodo è da corsaro della finanza: compra le azioni, le dà
in pegno alle banche da cui ottiene finanziamenti per comprare altre
azioni. Nel frattempo l’operazione Gedi e la sua Stampubblica non sta
dando i frutti sperati. I ricavi sono aumentati di oltre il 10% ma i
margini sono scesi di un buon 5%. Le maggiori dimensioni non fanno
reddito. E i De Benedetti hanno già messo le mani avanti. Annunciati
tagli dei costi tra cui quelli del lavoro per decine di milioni. Magari
chiedendo un nuovo stato di crisi e il paracadute pubblico.