Il Fatto 22.11.12
Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa
Salute in carcere: un diritto negato
Le
foto che pubblichiamo sono scatti di un viaggio compiuto da Nicola
Baldieri assieme al magistrato Nicola Graziano, nell’Ospedale
Psichiatrico Giudiziario di Aversa prima della dismissione, divenuto un
libro (“Zero, zero, uno”, Giapeto editore) –
di Natascia Ronchetti
Quando
Agostino Siviglia, garante dei detenuti di Reggio Calabria, presenta la
sua relazione sulle due carceri cittadine, Antonino Saladino, 31 anni, è
morto per un malore da poco più di due mesi in quella di Arghillà, dove
era rinchiuso per traffico di droga. È il 24 maggio scorso, siamo a
palazzo San Giorgio, sede del Comune. Siviglia, davanti al vicesindaco e
ai carabinieri, affonda la sanità penitenziaria reggina. “La
problematica più grave e complessa – dice – è rappresentata da un
presidio sanitario che risulta sempre meno garantito. Manca la copertura
infermieristica sulle 24 ore, il personale medico è del tutto
insufficiente, non c’è un gabinetto radiologico, la specialistica
necessita di implementazione”. Erminia, sorella di Saladino, aveva già
denunciato: “Mio fratello stava male, aveva la febbre e vomitava.
L’ambulanza è stata chiamata quando per lui non c’era più nulla da
fare”. L’assistenza fuori dal carcere è quasi inesistente. L’azienda
ospedaliera Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria, solo per
citarne una, dispone di 2 soli posti letto per oltre 600 detenuti: in
tutta la regione sono 4. Solo che la Calabria non è un caso a sé. E
forse non è nemmeno il peggiore. Da Nord a Sud sono appena 133 i posti
riservati dagli ospedali italiani a chi è in carcere: e i detenuti sono
più di 59mila. Alcune regioni, poi, non ne hanno nemmeno uno. Lombardia,
Veneto, Sardegna. Così i tempi di attesa per un intervento chirurgico
sono interminabili. Si arriva anche a 5 anni. Non va molto meglio per le
visite specialistiche: da un minimo di uno a due anni. Con l’aggravante
che le cartelle cliniche digitali sono un miraggio, girano solo
scartoffie che spesso si perdono. Così quando un detenuto viene
trasferito nessuno può assicurargli la continuità terapeutica, e tutto
riparte da zero. “La situazione è drammatica – scandisce Samuele
Ciambriello, garante dei detenuti della Campania –. Ricevo una media di
15 lettere alla settimana dai detenuti. E il primo problema è sempre
quello della salute. Per un ecodoppler attendono un anno e otto mesi,
per una visita ortopedica due anni…”.
Nel frattempo nei tribunali
si impilano i fascicoli sulla malasanità in carcere: nove medici,
compreso un perito, imputati di omicidio colposo a Siracusa per la morte
di Alfredo Liotta, deceduto nel luglio del 2012 nel carcere di
Cavadonna; stessa accusa per otto guardie carcerarie e due medici di
Regina Coeli per il suicidio di Valerio Guerrieri, 21 anni: soffriva di
disturbi mentali, il giudice ne aveva disposto la scarcerazione ma era
ancora in cella in attesa di essere ricoverato in una Rems, le strutture
che hanno sostituito gli Opg. Il fatto è che i casi Liotta, Guerrieri,
Saladino, sono solo la punta dell’iceberg. “Dopo il sovraffollamento
oggi c’è un’altra emergenza: quella sanitaria”, conferma Michele
Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Antigone,
associazione per i diritti dei detenuti. “La sanità in carcere non è
affatto un corpo alla pari nel sistema sanitario nazionale”, ammette
Luciano Lucania, presidente della Società di medicina penitenziaria. “Il
personale scarseggia, Stato e Regioni latitano. Montagne di carte e
iniziative e siamo al punto di partenza”. Il punto di partenza è la
riforma che nel 2008 ha sancito il passaggio delle competenze dal
ministero della Giustizia a quello della Salute. Sono passati dieci anni
ed è un flop, con corredo di scaricabarile delle responsabilità. “Le
competenze sono delle Regioni e delle Asl”, dice il ministero della
Salute. Regioni e Asl, a loro volta, denunciano un conflitto tra le
ragioni della sanità e quelle della sicurezza, che guidano
un’amministrazione penitenziaria a corto di agenti (sono poco più di
32.300, dovrebbero essere 41.130). “Non c’è il personale, questa è la
madre di tutti i problemi – dice Stefano Branchi, coordinatore Cgil
degli agenti di polizia penitenziaria –. Per questo capita che non si
riesca a trasferire un carcerato in ospedale perché mancano le guardie:
ne servono due per un detenuto comune, almeno tre per uno sottoposto a
regime speciale. Ogni guardia deve coprire più posti di servizio, una
volta c’era un agente per ogni sezione con 50-60 detenuti, adesso è
costretto a sorvegliarne tre”. L’ultimo bando ministeriale permetterà
l’assunzione entro la fine dell’anno di 1.500 agenti, il ministero
assicura che farà scorrere le graduatorie per reclutarne altri 1.300.
“Ma sono del tutto insufficienti. E il ministero della Giustizia ci dice
che mancano le risorse economiche”, aggiunge Branchi.
Oggi tra le
malattie più diffuse in carcere ci sono quelle psichiatriche, oltre il
40% dei detenuti soffre di disturbi mentali. Poi ci sono le patologie
infettive correlate all’epatite C. Ma non funzionano nemmeno i presidi
sanitari che avrebbero dovuto essere un esempio, come il Sestante, il
reparto psichiatrico aperto nel 2002 nella casa circondariale di Torino.
Il garante nazionale, Mauro Palma, lo ha ispezionato due volte in un
anno, l’ultima pochi mesi fa. Trova “sporcizia diffusa, muffa sulle
pareti, nessuna doccia interna, servizi igienici a vista, materassi in
pessime condizioni, letti privi di lenzuola”. Quando fa il secondo
controllo la situazione è persino peggiorata. Si imbatte anche in una
cosiddetta “cella liscia” per i detenuti con disturbi psichici in fase
acuta. Un’eredità dei manicomi. È completamente vuota, scrive Palma, in
condizioni “assolutamente inaccettabili”. “Non sappiamo – spiega Michele
Miravalle di Antigone – in base a quali regole un detenuto viene
rinchiuso in questo tipo di cella, quante volte viene visto da un
medico. E se c’è una necessità di contenimento, questa andrebbe
affrontata in un quadro di garanzie”. C’è chi nelle celle lisce è stato
rinchiuso anche per più di 20 giorni, anche se dovrebbe essere
utilizzata per un massimo di 36 ore. Questo tipo di celle sono più d’una
nel nostro sistema carcerario. E, in questo caso, “il confine tra
legalità e illegalità è sottile”.