giovedì 22 novembre 2018

Il Fatto 22.11.12
Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa
Salute in carcere: un diritto negato
Le foto che pubblichiamo sono scatti di un viaggio compiuto da Nicola Baldieri assieme al magistrato Nicola Graziano, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa prima della dismissione, divenuto un libro (“Zero, zero, uno”, Giapeto editore) –
di Natascia Ronchetti


Quando Agostino Siviglia, garante dei detenuti di Reggio Calabria, presenta la sua relazione sulle due carceri cittadine, Antonino Saladino, 31 anni, è morto per un malore da poco più di due mesi in quella di Arghillà, dove era rinchiuso per traffico di droga. È il 24 maggio scorso, siamo a palazzo San Giorgio, sede del Comune. Siviglia, davanti al vicesindaco e ai carabinieri, affonda la sanità penitenziaria reggina. “La problematica più grave e complessa – dice – è rappresentata da un presidio sanitario che risulta sempre meno garantito. Manca la copertura infermieristica sulle 24 ore, il personale medico è del tutto insufficiente, non c’è un gabinetto radiologico, la specialistica necessita di implementazione”. Erminia, sorella di Saladino, aveva già denunciato: “Mio fratello stava male, aveva la febbre e vomitava. L’ambulanza è stata chiamata quando per lui non c’era più nulla da fare”. L’assistenza fuori dal carcere è quasi inesistente. L’azienda ospedaliera Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria, solo per citarne una, dispone di 2 soli posti letto per oltre 600 detenuti: in tutta la regione sono 4. Solo che la Calabria non è un caso a sé. E forse non è nemmeno il peggiore. Da Nord a Sud sono appena 133 i posti riservati dagli ospedali italiani a chi è in carcere: e i detenuti sono più di 59mila. Alcune regioni, poi, non ne hanno nemmeno uno. Lombardia, Veneto, Sardegna. Così i tempi di attesa per un intervento chirurgico sono interminabili. Si arriva anche a 5 anni. Non va molto meglio per le visite specialistiche: da un minimo di uno a due anni. Con l’aggravante che le cartelle cliniche digitali sono un miraggio, girano solo scartoffie che spesso si perdono. Così quando un detenuto viene trasferito nessuno può assicurargli la continuità terapeutica, e tutto riparte da zero. “La situazione è drammatica – scandisce Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania –. Ricevo una media di 15 lettere alla settimana dai detenuti. E il primo problema è sempre quello della salute. Per un ecodoppler attendono un anno e otto mesi, per una visita ortopedica due anni…”.
Nel frattempo nei tribunali si impilano i fascicoli sulla malasanità in carcere: nove medici, compreso un perito, imputati di omicidio colposo a Siracusa per la morte di Alfredo Liotta, deceduto nel luglio del 2012 nel carcere di Cavadonna; stessa accusa per otto guardie carcerarie e due medici di Regina Coeli per il suicidio di Valerio Guerrieri, 21 anni: soffriva di disturbi mentali, il giudice ne aveva disposto la scarcerazione ma era ancora in cella in attesa di essere ricoverato in una Rems, le strutture che hanno sostituito gli Opg. Il fatto è che i casi Liotta, Guerrieri, Saladino, sono solo la punta dell’iceberg. “Dopo il sovraffollamento oggi c’è un’altra emergenza: quella sanitaria”, conferma Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Antigone, associazione per i diritti dei detenuti. “La sanità in carcere non è affatto un corpo alla pari nel sistema sanitario nazionale”, ammette Luciano Lucania, presidente della Società di medicina penitenziaria. “Il personale scarseggia, Stato e Regioni latitano. Montagne di carte e iniziative e siamo al punto di partenza”. Il punto di partenza è la riforma che nel 2008 ha sancito il passaggio delle competenze dal ministero della Giustizia a quello della Salute. Sono passati dieci anni ed è un flop, con corredo di scaricabarile delle responsabilità. “Le competenze sono delle Regioni e delle Asl”, dice il ministero della Salute. Regioni e Asl, a loro volta, denunciano un conflitto tra le ragioni della sanità e quelle della sicurezza, che guidano un’amministrazione penitenziaria a corto di agenti (sono poco più di 32.300, dovrebbero essere 41.130). “Non c’è il personale, questa è la madre di tutti i problemi – dice Stefano Branchi, coordinatore Cgil degli agenti di polizia penitenziaria –. Per questo capita che non si riesca a trasferire un carcerato in ospedale perché mancano le guardie: ne servono due per un detenuto comune, almeno tre per uno sottoposto a regime speciale. Ogni guardia deve coprire più posti di servizio, una volta c’era un agente per ogni sezione con 50-60 detenuti, adesso è costretto a sorvegliarne tre”. L’ultimo bando ministeriale permetterà l’assunzione entro la fine dell’anno di 1.500 agenti, il ministero assicura che farà scorrere le graduatorie per reclutarne altri 1.300. “Ma sono del tutto insufficienti. E il ministero della Giustizia ci dice che mancano le risorse economiche”, aggiunge Branchi.
Oggi tra le malattie più diffuse in carcere ci sono quelle psichiatriche, oltre il 40% dei detenuti soffre di disturbi mentali. Poi ci sono le patologie infettive correlate all’epatite C. Ma non funzionano nemmeno i presidi sanitari che avrebbero dovuto essere un esempio, come il Sestante, il reparto psichiatrico aperto nel 2002 nella casa circondariale di Torino. Il garante nazionale, Mauro Palma, lo ha ispezionato due volte in un anno, l’ultima pochi mesi fa. Trova “sporcizia diffusa, muffa sulle pareti, nessuna doccia interna, servizi igienici a vista, materassi in pessime condizioni, letti privi di lenzuola”. Quando fa il secondo controllo la situazione è persino peggiorata. Si imbatte anche in una cosiddetta “cella liscia” per i detenuti con disturbi psichici in fase acuta. Un’eredità dei manicomi. È completamente vuota, scrive Palma, in condizioni “assolutamente inaccettabili”. “Non sappiamo – spiega Michele Miravalle di Antigone – in base a quali regole un detenuto viene rinchiuso in questo tipo di cella, quante volte viene visto da un medico. E se c’è una necessità di contenimento, questa andrebbe affrontata in un quadro di garanzie”. C’è chi nelle celle lisce è stato rinchiuso anche per più di 20 giorni, anche se dovrebbe essere utilizzata per un massimo di 36 ore. Questo tipo di celle sono più d’una nel nostro sistema carcerario. E, in questo caso, “il confine tra legalità e illegalità è sottile”.