domenica 18 novembre 2018

Il Fatto 18.11.18
Colti e Ignoranti: le 50 sfumature di chi ne sa di più
di Domenico De Masi


Per capire qualcosa della cultura e dell’ignoranza si può usare la metafora del viaggio e del turismo. I “viaggiatori” si considerano eredi aristocratici del grand tour, acculturati per definizione e altezzosamente distinti dai “turisti”, massificati e ignoranti anch’essi per definizione. Ma il critico letterario americano Jonathan D. Culler ci fa notare che la spocchia con cui il viaggiatore vero guarda il “turista” si è poi riprodotta tra i turisti stessi in una sorta di gerarchia del disprezzo.
In altri termini, i turisti tendono a detestare gli altri turisti per convincere se stessi di essere meno turisti degli altri, di essere veri e propri viaggiatori. “I turisti – dice Culler – possono sempre trovare qualcuno più turista di loro da deridere. L’autostoppista che arriva a Parigi con lo zaino per un soggiorno dalla durata indefinita si sente superiore al compatriota che vola in Jumbo per starci una settimana. Il turista il cui forfait include solo il viaggio aereo e le notti in albergo si sente superiore, mentre siede al caffè, ai gruppi organizzati che passano in autobus. Gli americani in pullman di gruppo si sentono superiori ai gruppi di giapponesi che sembrano vestire uniformi e che sicuramente non capiscono nulla della cultura che stanno fotografando”.
Qualcosa del genere avviene anche a proposito della cultura. Il matematico che ha ottenuto la medaglia Fields, il letterato che ha vinto il Nobel, l’architetto cui è stato assegnato il Pritzker, considerano ignoranti gli accademici; gli accademici considerano ignoranti i giornalisti; i giornalisti considerano ignoranti i lettori; i lettori considerano ignoranti coloro che non leggono.
Per capire in che cosa consiste la cultura e immaginare come essa possa evolvere da qui al 2030, un gruppo di undici prestigiosi intellettuali di altrettante discipline – Remo Bodei per la filosofia; Juan Carlos De Martin per l’ingegneria informatica e la rivoluzione digitale; Derrick De Kerckhove per la sociologia dei media; Piergiorgio Odifreddi per la matematica e le scienze esatte; Nuccio Ordine per la letteratura; Rita Parsi per la psicologia; Pier Cesare Rivoltella per la didattica e le tecnologie dell’educazione; Lello Savonardo per la comunicazione e le culture giovanili; Severino Salvemini per le scienze organizzative; Mario Sesti per la critica cinematografica; Marino Sinibaldi per il giornalismo e l’organizzazione culturale – hanno collaborato a una ricerca condotta con metodo Delphi, per cui nessuno di essi sapeva chi erano gli altri né chi era il committente. In realtà la ricerca era stata promossa dai deputati e i senatori del Movimento 5 Stelle che nella passata legislatura facevano parte delle commissioni Cultura di Camera e Senato.
La base culturale, cioè la situazione scolastica del nostro Paese non è rosea. Sui 196 Paesi del pianeta siamo all’ottavo posto per quanto riguarda il Pil nazionale e, in base alla classifica fornita dalla Divisione Popolazione dell’Onu, siamo al 183° posto per quanto riguarda la natalità. Dunque siamo ricchi e, avendo pochi figli da educare, tutto autorizzerebbe a credere che investiamo il massimo sulla loro formazione, assicurando al Paese una totalità di cittadini istruiti a dovere, come occorre per vivere civilmente in una società postindustriale.
Invece, su 100 diplomati solo 39 si iscrivono all’università, solo 31 arrivano alla laurea biennale e solo 20 conseguono la laurea specialistica. La percentuale di italiani laureati è del 23%: giusto un terzo della California. E, invece di correre ai ripari creando incentivi per la frequenza universitaria, come ha fatto la Germania eliminando le tasse di iscrizione per tutto il primo triennio, abbiamo introdotto il numero chiuso. Dunque, se si parla di cultura in senso accademico, siamo ormai lontanissimi dai tempi in cui avevamo le prime e le migliori università del mondo.
Ma gli antropologi parlano di cultura in senso più ampio per indicare il bagaglio complessivo di cui dispone un popolo e distinguono tra cultura ideale, che consiste in valori, credenze, stereotipi, ideologie e linguaggi; cultura materiale, che consiste nel territorio, nei manufatti, nell’universo degli oggetti che ci circondano; cultura sociale, che consiste negli usi, nei costumi, nei riti, nelle forme di conflitto e di cooperazione.
In tutte e tre queste sfere culturali mostriamo grosse crepe e ciò si riflette nella nostra distorta percezione della realtà, indicatrice di un’ignoranza diffusa. Secondo l’Ipsos, su 196 siamo al dodicesimo posto per incapacità di comprendere il sistema sociale che ci circonda: quanti sono gli immigrati, i carcerati, gli evasori fiscali, ecc.
Mentre il livello culturale si abbassa, ogni intellettuale battaglia per affermare il primato della propria disciplina, ignorando la consistenza e i meriti di tutte le altre. Nel 1959 lo scienziato e letterato Charles P. Snow pubblicò un pamphlet intitolato Le due culture dove per tali si intendevano quella umanistica (letteratura, arte, storia, filosofia, ecc.) e quella scientifica (matematica, fisica, chimica, biologia, medicina, ecc.). Snow denunziava la scarsa interazione tra i cultori delle discipline letterario-umanistiche e i cultori delle discipline scientifico-tecniche: gli scienziati, “specialisti ignoranti” che quasi si vantano di non avere letto Dickens e i letterati che, con atteggiamento di sufficienza, ignorano la seconda legge della termodinamica. Del resto, Darwin trovava noioso Shakespeare e William Blake giudicava blasfema la scienza. Però, rispetto ai letterati, gli scienziati dimostrano maggiore libertà da pregiudizi razziali, religiosi, politici e sessuali. Inoltre gli scienziati sono più inclini all’ottimismo e coltivano più rigore metodologico; tra loro vi sono più miscredenti o atei e prevale la propensione ideologica a pensare e comportarsi da progressisti. Vi è, infine, la diversa velocità con cui procedono le culture: le scienze esatte evolvono più velocemente di quelle umane.
Mezzo secolo più tardi, nel 2009, il professore emerito dell’Università di Harvard, Jerome Kagan, ha pubblicato The three Cultures dove, alle scienze esatte e alle discipline umanistiche (humanities), sono state aggiunte le scienze sociali (antropologia, sociologia, politologia, economia, psicologia, psicologia sociale, pedagogia). Infine, recentemente, ha fatto irruzione nel panorama delle culture quella virtuale, che si è aggiunta alle altre tre e le ha rivoluzionate.
Se fino all’Ottocento la cultura era prodotta da pochi per pochi e le sinfonie di Mozart potevano essere ascoltate solo dalla ristretta cerchia dell’arcivescovo di Salisburgo, se nella società industriale la cultura di massa era prodotta da pochi per molti e le stesse sinfonie di Mozart, eseguite alla televisione, potevano essere ascoltate da milioni di persone, nella società postindustriale la cultura post-moderna è prodotta da molti per molti, come avviene con Wikipedia alla quale tutti possono contribuire e dalla quale tutti possono attingere.