mercoledì 14 novembre 2018

Il Fatto 14.11.18
Altro che Tav, i veri interessi degli industriali in piazza
Le imprese locali chiedono fondi dopo la crisi dell’auto
di Stefano Feltri


A qualche giorno di distanza dalla manifestazione di piazza di Torino a sostegno del Tav Torino-Lione è sempre più evidente che ci sono due livelli di quella protesta: uno nazionale e tutto politico e uno molto locale. Il treno ad alta velocità c’entra poco con entrambi. Lo dimostra anche la prima reazione del sindaco Cinque Stelle di Torino, Chiara Appendino: la sua mossa di dialogo con la piazza non è stata offrire un compromesso sul progetto della linea ferroviaria, ma andare a Roma a trattare con il ministero dello Sviluppo economico, guidato da Luigi Di Maio, il riconoscimento della città di Torino come “area di crisi industriale complessa”.
Come riporta il bollettino mensile dell’Unione industriali di Torino, l’export di auto che ha trainato finora la ripresa si è fermato. A settembre era dell’8,7 per cento inferiore allo stesso mese del 2017. Cresce ancora l’alimentare (+9,3 per cento), ma pesa la metà dell’automotive nell’insieme delle esportazioni piemontesi. In Piemonte l’azienda più grossa è ormai la Lavazza, ma anche dopo la svolta americana della Fiat-Fca se si ferma il settore auto per l’economia regionale è una catastrofe. E così la Appendino chiede che Torino venga trattata come altre aree di “crisi industriale complessa”: Porto Marghera a Venezia, Fabriano dove la Merloni è in difficoltà da anni, Sestri Ponente a Genova con la sua claudicante Fincantieri. Con il riconoscimento della qualifica di “crisi industriale complessa”, si possono attivare piani di riconversione, di formazione, ammortizzatori sociali straordinari. In una parola: soldi. Fondi nazionali e regionali che arrivano sul territorio.
Altro che corridoi intercontinentali per trasportare merci a grande velocità, quello che l’Unione degli industriali guidata da Dario Gallina e le varie associazioni imprenditoriali del territorio sperano davvero di ottenere è un po’ di quei fondi che ora finiscono in mezza Italia ma non in Piemonte (nel 2018, per esempio, c’erano 169 milioni per la cassa integrazione straordinaria per le Regioni coinvolte). Poca roba, è vero, però concreta, ma che non basta a compensare quel senso di smarrimento di una élite cittadina che, senza gli stimoli provvisori dei grandi eventi come le Olimpiadi, si vede completamente oscurata da Milano. Perfino alla cena di gala del club Bilderberg, a fine maggio dentro il Museo dell’Automobile, il discorso di benvenuto lo ha tenuto il sindaco meneghino Beppe Sala, causa assenza della Appendino. Su queste esigenze molto concrete si innestano anche traiettorie personali. Per esempio quella di Licia Mattioli, che è stata presidente dell’Unione industriali torinese, e oggi è vicepresidente della Confindustria nazionale: “Noi chiediamo che i nostri bisogni, quelli della città che poi sarebbero quelli dell’Italia tutta, vengano soddisfatti. A cominciare dalle infrastrutture, che sono e rappresentano il vero punto di partenza”. La sua impresa di gioielli non avrà mai bisogno dell’alta velocità, ma la battaglia per Torino potrebbe sicuramente aiutare il passaggio della Mattioli dalla compagnia di San Paolo ai vertici di Banca Intesa.
La Confindustria nazionale guidata da Vincenzo Boccia non ha mai fatto grandi battaglie per il Tav, più attenta a incassare benefici e riforme dagli impatti immediati. Ed è rimasta un po’ interdetta dall’evento di sabato scorso. Aveva già programmato un “consiglio generale” (una delle tante ritualità un po’ oscure agli esterni al mondo confindustriale) per il 3 dicembre: un dialogo a Torino con le associazioni territoriali e di settore, anche fuori dal perimetro di Confindustria, come quelle di commercianti e artigiani. Alcuni torinesi dell’associazione – come la Mattioli o Marco Gay – hanno spinto per un impegno sabato, ma non c’è stata l’adesione istituzionale. Boccia però è poi stato rapido a intercettare la eco politica nazionale di quella piazza, cavalcando la linea indicata dai giornali di un gruppo editoriale molto politicamente pesante ma anche molto torinese, Repubblica e Stampa (di John Elkann e Carlo De Benedetti): la piazza come inizio di una rivoluzione silenziosa contro il governo gialloverde e il ritorno dei moderati. “Come è possibile fare sviluppo se chiudi i cantieri?”, dice Boccia. Ma poi quando va in audizione in Parlamento a presentare le sue priorità per la manovra le priorità sono molto diverse dai tunnel alpini: cuneo fiscale, meno tasse, un programma di sostegno agli investimenti.
Perché per la Confindustria nazionale il problema più urgente non sono i no Tav, ma i Cinque Stelle: tra la squadra di Boccia e Luigi Di Maio non ci sono canali di comunicazione. L’associazione degli industriali non ha numeri di telefono da chiamare nel Movimento, giusto qualche presidente di commissione parlamentare. Mentre la Lega di governo è molto più attenta a costruire un rapporto con gli imprenditori a Roma e sul territorio. Ci pensano il lombardo viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia ed Edoardo Rixi, genovese, viceministro dei Trasporti che presidia il dossier del Terzo Valico.
Pure il sottosegretario Armando Siri, con minore esperienza governativa degli altri due, dimostra attenzione.
Perché per l’associazione degli industriali di Viale dell’Astronomia il dialogo con la politica è vitale, altrimenti diventa irrilevante. E non le resterà che affittare i suoi uffici come set: ieri c’era l’attore Patrick Dempsey, l’ex dottore di Grey’s Anatomy nei corridoi a girare la serie I Diavoli. Il Tav, ammesso che qualcuno pensi davvero che si possa ancora fare, con tutto questo c’entra molto poco.